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31 luglio 2013 3 31 /07 /luglio /2013 08:37

di CHIARA SARACENO   La repubblica

Le cifre riportate  e il trend che denunciano dovrebbero inorridire di più chi, appartenendo alla razza umana e no a quella padana o simili, sa che questa piccola provincia, e nel primo mondo di cui essa fa parte, vivono ceti privilegiati rispetto al vasto resto dl pianeta: Qualcuno ne avrà colpa, qualcosa andrà cambiata. La Repubblica, 18 luglio 2013

Per il secondo anno consecutivo, e in modo più accentuato, è aumentata sia la povertà relativa (cioè in riferimento al tenore di vita medio, per altro diminuito nel 2012 rispetto all’anno precedente) sia quella assoluta, che riguarda l’impossibilità di acquistare un paniere di beni essenziali. In entrambi i casi, il peggioramento riguarda tutte le aree territoriali (anche se nel Mezzogiorno l’incidenza della povertà relativa è oltre tre volte quella del Centro-Nord e quella assoluta quasi doppia) e quasi tutti i tipi di famiglie: le più giovani e le meno giovani, quelle più numerose e quelle più piccole, quelle in cui nessun adulto è occupato ma anche, in minor misura, quelle con occupati, le famiglie di operai e, in minor misura, quelle di impiegati. La disoccupazione ha ridotto il numero di percettori di reddito in famiglia, la riduzione dell’orario di lavoro e la cassa integrazione hanno ridotto il reddito degli occupati. Sono soprattutto le famiglie relativamente giovani e con figli minori quelle che hanno visto peggiorare maggiormente la propria situazione.

Si trova in condizione di povertà assoluta, cioè non in grado di alimentarsi adeguatamente e di far fronte alle necessarie spese per l’abitazione, il 17,1% delle famiglie con tre o più figli minori (oltre il 6% in più dell’anno precedente), e il 10% (quasi il doppio dell’anno precedente) di quelle con due.

Le percentuali sono più alte – rispettivamente 28,5 e 20,1 per cento – nel caso della povertà relativa. I minori e le loro famiglie si confermano così i soggetti più vulnerabili alla povertà nel nostro Paese. I minori in condizione di povertà assoluta sono un milione e 58 mila, un quarto di tutte le persone in queste condizioni. Un dato impressionante in un Paese in cui periodicamente ci si lamenta per la bassa fecondità e ci si preoccupa, giustamente, dei Neet, dei giovani che non sono né a scuola né al lavoro, ma poco o nulla si fa per evitare che un’ampia porzione dei bambini che ci sono cresca in condizioni materiali inadeguate. La vulnerabilità dei minori è particolarmente alta se abitano nel Mezzogiorno e se nessun adulto in famiglia è occupato. Quasi la metà di tutti coloro che sono in condizioni di povertà assoluta, infatti, vive nel Mezzogiorno, dove è anche più alta l’incidenza di famiglie in cui nessuno è occupato o ritirato dal lavoro. Tra queste ultime, a livello nazionale si trova in povertà assoluta il 30,8% delle famiglie (l’8,5% in più rispetto all’anno prima). La mancanza di occupazione, e il suo prolungarsi senza speranza, sta diventando un disastro antropologico, che allarga le sue conseguenze dagli individui alle famiglie, dagli adulti ai più piccoli.

Solo per gli anziani che vivono da soli l’incidenza della povertà assoluta non è aumentata e quella della povertà relativa è diminuita un po’ (per effetto del peggioramento complessivo del restante della popolazione). È probabilmente l’effetto positivo del mantenimento dell’indicizzazione per le pensioni più basse. Stante l’elevato numero di coloro che – come segnalato ieri dal rapporto annuale Inps – hanno una pensione attorno, o inferiore, ai 500 euro, esso non è stato tuttavia sufficiente a ridurre la povertà degli anziani che vivono con altri e la cui pensione è talvolta l’unico reddito sicuro in
famiglia.

A parte le pensioni, ci si può interrogare sull’adeguatezza degli ammortizzatori sociali messi in campo. Sempre il rapporto Inps ha evidenziato che la spesa per il sostegno al reddito non è piccola: oltre 22 miliardi nel 2012, di cui sei per la sola cassa integrazione, il resto per indennità di disoccupazione e mobilità, invalidità civile, contributi figurativi e simili. Sicuramente queste misure di sostegno hanno impedito a molte famiglie di cadere in povertà assoluta. Ma, a fronte dell’aumento di quest’ultima e delle caratteristiche di chi la sperimenta, non ci si può esimere dal riflettere sui costi sociali della mancanza, nel nostro Paese, di due strumenti che in altri si sono rivelati piuttosto efficaci nel contrastare gli effetti più negativi della povertà. Il primo è l’assegno per i figli, che aiuti chi ha figli a sostenerne il costo, perciò impedendo che la scelta individuale di investire sul futuro si traduca in povertà per sé e per i propri figli. Il secondo è un reddito di garanzia per chi si trova, appunto, in povertà, integrato da misure di inclusione e attivazione. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei occidentali a non avere né l’uno né l’altro strumento, affidandosi invece a misure frammentate e categoriali, che, mentre lasciano molti, di solito i più deboli, scoperti, talvolta beneficiano chi invece non ne avrebbe bisogno. Sarebbe opportuno che la presa d’atto dell’emergenza sociale evidenziata dai dati sulla povertà sollecitasse in tutti la necessità di una revisione della spesa per il sostegno al reddito, in direzione di una maggiore equità ed efficacia.

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22 luglio 2013 1 22 /07 /luglio /2013 18:07

Nel mondo globale si sprigiona oggi una forza dei diritti che si manifesta nei luoghi più vari e ad opera di una molteplicità di soggetti. Si affiancano, e talora si sostengono reciprocamente, movimenti popolari e interventi delle corti, iniziative legislative e azioni di gruppi sociali organizzati. Qui la politica deve fare le sue prove, pena la sua crescente marginalizzazione.

di Stefano Rodotà, da Repubblica, 15 luglio 2013

Vi è un filo robusto che unisce alcune vicende di questi giorni - il discorso all'Onu della giovane pakistana Malala e il Datagate, le parole di Papa Francesco a Lampedusa e le decisioni in materia economica di corti costituzionali di diversi Paesi. In tutti questi casi vi è un visibile conflitto tra diritti e poteri globali: il diritto all'istruzione contrapposto al potere del terrore; il diritto alla privacy di fronte al potere di chi vuole esercitare un controllo planetario sulle persone senza limiti e senza frontiere; il diritto dei migranti contro il potere escludente degli Stati; il diritto di ciascuno a non essere ridotto ad oggetto contro il potere del mercato.

Si è venuta accreditando, in questi anni, una lettura del mondo che lo vede sempre più dominato da poteri incontrollabili, perché la dimensione globale sfugge alla possibilità di regolazione degli Stati e perché l'unica legge sarebbe ormai solo quella del mercato, legge "naturale" di fronte alla quale ogni altra regola diviene priva di forza e di senso. Davvero un mondo ad una sola dimensione, unificato dalle pretese di una superpotenza o affidato a soggetti nuovi, come Facebook, ormai terza "nazione" del pianeta con il suo miliardo di "abitanti". Ma le vicende ricordate prima ci dicono che non è così, che di fronte ai nuovi padroni del mondo, ai nuovi sovrani globali, si manifesta con intensità crescente la forza regolatrice dei diritti, che può restituire alla politica il ruolo che le è stato sequestrato dal riduzionismo economico.

Lo sfondo, peraltro, è quello delle molte e difficili "primavere", delle proteste diffuse che inducono più d'uno a parlare dell'avvio di una "rivoluzione globale" proprio intorno alle rivendicazioni di diritti.
Nelle parole ferme ed eloquenti di Malala si deve cogliere proprio questo spirito. Non vi è soltanto il rifiuto del terrorismo, l'orgogliosa rivendicazione del "non mi piegheranno". Vi è una indicazione politica precisa: il diritto all'istruzione è l'arma più potente, e per ciò più temuta, nella lotta al terrorismo. Sì che la strategia militare, l'unica effettivamente praticata con enorme dispendio di risorse economiche, non può mai essere sufficiente. Vi è un dovere degli Stati di intervenire perché il diritto all'istruzione sia effettivo e garantito a tutti: quelli che insistono sulla necessità di accompagnare al discorso dei diritti quello dei doveri, dovrebbero cimentarsi con temi come questo, e non usare l'insistenza sui doveri come strumento per svuotare di significato soprattutto i diritti sociali.

La riflessione sulla lotta al terrorismo al di là della pura logica militare o poliziesca incontra la questione del Datagate. La reazione ad una schedatura planetaria ad opera degli Stati Uniti ha rimesso in onore un diritto, quello alla privacy, alla protezione dei dati personali, di cui si era certificata la morte proprio per legittimare qualsiasi raccolta di informazioni personali, riducendo le persone al ruolo di fornitori obbligati di dati ritenuti necessari per il funzionamento del mercato e di meccanismi totalizzanti di controllo. Di nuovo la rivendicazione planetaria di un diritto, di cui siamo tornati a scoprire la funzione di tutela di libertà fondamentali.

Al fondo di queste due vicende si scopre l'assoluta mancanza di rispetto per i diritti di tutti e di ciascuno, sempre sacrificabili per una ragion di Stato o di mercato. Si è radicata quella indifferenza peraltro denunciata a Lampedusa dal Pontefice, con accenti che toccano in primo luogo e giustamente i migranti, ma che davvero riguardano tutti. La costruzione intorno ai migranti di un nuovo modo d'intendere i diritti è davvero questione ineludibile, per la qualità e quantità del fenomeno, globale per definizione e dal quale dipende l'assetto futuro del mondo. È una "politica dell'umanità" che deve essere avviata, indispensabile perché ciascuno di noi possa uscire da una condizione che ci ha fatto prigionieri dell'egoismo, che ha interrotto i legami sociali, che ci consegna una società frammentata nella quale, come ha scritto Luigi Zoja, facciamo i conti con "la morte del prossimo".

Nel suo ultimo romanzo, Aldo Busi ha descritto con parole dirette questa condizione: "C'erano una volta gli altri e poi improvvisamente scomparvero dalla faccia della terra e io non fui pertanto più un altro per nessuno". Alla scomparsa delle persone, sostituite da astratti simulacri modellati sulle esigenze del consumo o del controllo, si reagisce proprio rivendicando la materialità dell'essere e dei bisogni, e misurando su questi i diritti di ciascuno. Ritorna imperioso il bisogno di pronunciare la parola più negletta della triade rivoluzionaria, "fraternità", ricordando che l'articolo 2 della nostra Costituzione parla di "doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". Non a caso si invoca oggi una "solidarietà globale" come orizzonte della politica. Così la rivendicazione dei diritti, che qualcuno vuol leggere come estrema frontiera dell'individualizzazione, si immerge invece nel contesto sociale, trova le sue radici in una "rivoluzione della dignità" che non è solo quella del singolo, ma la "dignità sociale" alla quale si riferisce l'articolo 3 della Costituzione. Forse possono tornare tempi propizi per quello che Eligio Resta ha chiamato un "diritto fraterno".

Queste non sono dichiarazioni di buoni propositi o sentimenti, ma linee direttive lungo le quali si muovono concretissimi interventi a tutela della persona e dei suoi diritti. Se, per fare un solo esempio, si considerano le molte sentenze con le quali diverse corti hanno affrontato il conflitto tra il diritto fondamentale alla salute e il potere di Big Pharma, delle grandi multinazionali farmaceutiche, si coglie una tendenza a far prevalere le ragioni della salute su quelle del profitto con caratteristiche davvero globali, visto che si va dalle corti costituzionali di Sudafrica e India alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Quest'ultima, il 13 giugno, ha pronunciato una sentenza che pone limiti alla brevettabilità del genoma, con diverse specificazioni, ma sostanzialmente accogliendo le sollecitazioni di chi voleva infrangere il monopolio di una società, Myriad Genetics, per quanto riguardava i test riguardanti il cancro al seno. E, in più di una decisione, la prevalenza accordata ai diritti fondamentali è strettamente collegata con la considerazione come beni comuni dei mezzi direttamente necessari per la loro attuazione.

Nel mondo globale, dunque, si sprigiona oggi una forza dei diritti che si manifesta nei luoghi più vari e ad opera di una molteplicità di soggetti. Si affiancano, e talora si sostengono reciprocamente, movimenti popolari e interventi delle corti, iniziative legislative e azioni di gruppi sociali organizzati. Qui la politica deve fare le sue prove, pena la sua crescente marginalizzazione. Dobbiamo ricordarlo oggi, perché si avvicinano le elezioni europee e la delegittimazione dell'Unione, dovuta alla sua totale identificazione con la logica dei "sacrifici", può essere arrestata solo se si ricorda che esiste un ordine europeo nel quale, con lo stesso valore giuridico dei trattati, esiste una Carta dei diritti fondamentali.

(16 luglio 2013)

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14 luglio 2013 7 14 /07 /luglio /2013 12:48

Legittimi o naturali, da oggi solo figli così la legge che abolisce le differenze riscatta un milione di under 20. Pari diritti per tutti

Le nuove forme familiari

134.000 i nati da genitori non coniugati nel 2010  24,5% del totale

              Nel 1995 solo l'8,5% delle nascite era fuori dal matrimonio

Centro-nord I nati da genitori non sposati raggiungono e a volte superano il 30%

Coppie di fatto   1997                          342.000

                            2003                          533.000

                            2010                          900.000

        49 % dei casi.     le coppie non coniugate hanno uno o più figli

Nati fuori dal matrimonio

          2000                         54.770

          2009                        133.962     + 246%

Nati all'interno del matrimonio

          2000                        484.229

          2009                        430.611     - 12 %

 

13 luglio 2013

ROMA - Fuori dall' ombra. Per un milione di bambini e ragazzi, a contarli soltanto negli ultimi vent' anni, la nuova legge significa questo: uscire dall' ombra, essere uguali agli altri, vedere rispecchiata nei codici quella parità che già esiste di fatto nella società. Un figlio su quattro nasce oggi fuori dal matrimonio, 134 mila soltanto nel 2011, nel Nord hanno superato addirittura il 30 per cento di tutti i nuovi nati. Una galassia di nuove famiglie si accompagna alla famiglia tradizionale. Infatti, al di là dei cambiamenti in termini di parentela e di successione, l' equiparazione tra figli naturali e figli legittimi sancita ieri dal Consiglio dei ministri, dimostra che il diritto di famiglia inizia finalmente ad assomigliare alle famiglie vere. Dove i matrimoni sono in caduta verticale e le convivenze in ascesa impetuosa. Dove madri e padri hanno iniziato, davvero, a dividersi i ruoli. Dove nella precarietà e atipicità diffusa dei lavori, tra le giovani coppie la cura dei figli comincia ad essere un ruolo condiviso. Dove i bambini sono adottivi, figli di monogenitori, di famiglie allargate. E infatti oltre alle dichiarazioni entusiaste e bipartisan che hanno accolto i decreti attuativi della legge, approvata con un forte pressing alla fine scorsa legislatura, nel testo si parla, ed è una delle più importanti novità, non più di "potestà genitoriale", ma di "responsabilità genitoriale". Un passaggio importante (cade l' arcaico concetto di possesso dei figli) all' interno di un dettagliato insieme di norme messe a punto dall' ex dicastero della Famiglia del ministro Andrea Riccardi, con la commissione presieduta dal giurista Cesare Bianca. D' ora in poi, ha detto il presidente del Consiglio Letta, «si toglie dal codice civile qualunque aggettivazione alla parola figli: saranno tutti figli e basta, una scelta di civiltà». Non di serie A, non di serie B, non figli e non figliastri: soltanto bambini che nascono in una società che cambia. Ed è infatti un sociologo come Franco Ferrarotti che sottolinea quanto la nuova legge sulla "filiazione" altro non sia che «un tentativo di adeguare la norma scritta all' esperienza vissuta». Un tentativo assai tardivo però. Dice Ferrarotti: «I diritti positivi sono in ritardo rispetto alla sensibilità e alle esigenze della vita sociale». In particolare nel diritto di famiglia, visto che «la cultura italiana è stata sempre riluttante a modificare i ruoli tradizionali». Oltre che dal mondo politico (quasi tutti parlano di una svolta storica, pur litigando sulla paternità della legge), sono interessanti le voci che arrivano da chi si occupa di infanzia e di adolescenza. Spiega Maria Rita Parsi, psicoterapeuta, una vita in difesa dei più piccoli. «Oggi si realizza il quarto comandamento bis: onora il figlio e la figlia. Si nasce solo figli, non figli legittimi e illegittimi. Quello che è avvenuto oggi in Italia è da segnare nelle giornate storiche dei diritti umani, come lo fu il 20 novembre 1989, quando a New York fu firmata la Convenzione Onu sui diritti dei fanciulli e delle fanciulle. Finalmente - conclude si privilegia il superiore interesse del minore, non le storie e i conflitti degli adulti con le loro questioni sentimentali. E soprattutto si potrà dimenticare l' atroce definizione che ha fatto soffrire migliaia di persone: quella di essere figli di NN». E il Garante dell' infanzia Vincenzo Spadafora, dopo aver espresso soddisfazione aggiunge: «È sempre una buona notizia per il nostro Paese quando il governo si occupa di politiche per l' infanzia, mentre negli ultimi anni questo è avvenuto sempre meno e in maniera poco incisiva. A tal proposito sono preoccupato che la delega alla Famiglia non sia stata assegnata ancora ad alcun ministero. E ulteriori passi sono necessari: primo fra tutti è la riforma della giustizia minorile». Sulla stessa linea Raffaella Milano di Save the Children: «Il decreto approvato dal Consiglio dei ministri consente di superare una profonda discriminazione che in tutti questi anni ha segnato la vita di tanti bambini. Auspichiamo che questo sia un passo avanti verso un sistema normativo volto ad una sempre maggiore tutela dei diritti di ogni bambino e ogni bambina». - MARIA NOVELLA DE LUCA

Filomena Marturano, rivincita dopo 56 anni.

Filomena Marturano protagonista della omonima commedia di Eduardo De Filippo "costrinse" il marito a sposarla in modo che tutti e tre i suoi figli  fossero legittimi, anche quelli nati  fuori dalle nozze (che la donna non voleva rivelare). Cinquantasei anni dopo nessuna madre avrebbe più bisogno di uno stratagemmasimile: " i figli so tutti piezze 'e core" dice Filomena.E oraa anche tutti uguali di fronte alla legge.

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7 luglio 2013 7 07 /07 /luglio /2013 14:32

 

La Boldrini sfida Marchionne. Niente gare al ribasso sui diritti senza dialogo non c'è ripresa

E rifiuta l’invito alla  Sevel. “ gli impianti chiudono, c’è disagio”

TORINO - Il presidente della Camera non visiterà martedì lo stabilimento della Fiat in Val di Sangro. In una lettera inviata all'ad Sergio Marchionne Laura Boldrini rifiuta l'invito del Lingotto «causa impegni istituzionali già in agenda». Nella missiva, che arriva il giorno dopo la sentenza della Consulta sull'articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori, il presidente di Montecitorio non risparmia considerazioni, rivolgendosi all'ad Marchionne: «Non sarà certo nella gara al ribasso sui diritti che potremo avviare la ripresa».

L'invito a Boldrini era stato fatto dall'ad di Fiat dopo un incontro tra la presidente e una delegazione dei lavoratori Fiat guidata dal segretario della Fiom-Cgil, Maurizio Landini.

Marchionne aveva risposto, ritenendo «non rappresentativa» la Fiom, con la richiesta di visitare uno stabilimento, la Selvel in Abruzzo, dove si produce il Ducato. La presidente nella lettera usa parole nette: «Le vecchie ricette hanno fallito- scrive-e ne servono di nuove. Affinché il nostro Paese possa tornare competitivo è necessario percorrere la via della ricerca, della cultura e dell'innovazione. Una via che nonè in contraddizione con il dialogo sociale e con costruttive relazioni industriali: non sarà certo nella gara al ribasso sui diritti e sul costo del lavoro che potremo avviare la ripresa». Un riferimento anche alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo l'articolo 19 della legge 300 dove si riconosce il diritto di rappresentanza solo per le sigle firmatarie di contratto.

Punto su cui il Lingotto ha impostato le sue relazioni sindacali negli ultimi tre anni, escludendo la Fiom dalle fabbriche.

La presidente risponde a Marchionne anche rispetto agli incontri fatti: «Cerco di incontrare sia le delegazioni di lavoratori che vengono a Roma per far sentire la loro voce al governo e al parlamento, sia i piccoli e medi imprenditori che tentano una via di uscita dalla crisi. Sarebbe grave se in un momento così difficile per le famiglie italiane i palazzi della politica si chiudessero in se stessi». Dalla Fiat non arrivano risposte.A Milano, dove il Lingotto ha presentato le due nuove versioni della 500L, l'amministratore delegato della Fiat, è assente. Il «no» alla visita è un altro colpo per il Lingotto dopo la decisione della Corte Costituzionale. Plaude la leader della Cgil, Susanna Camusso: «Dobbiamo festeggiare per l'accordo firmato unitariamente a Cisl e Uil sulla rappresentanza e dobbiamo festeggiare perché la sentenza della Consulta dice che nessuno potrà mai cacciare un sindacato da un'azienda». Il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni, auspica invece che la Fiom «faccia rientrare la democrazia in fabbrica accettando le maggioranze che si esprimono di volta in volta». Il sottosegretario allo Sviluppo Economico, Claudio De Vincenti, sottolinea che «la sentenza va applicata, le parti sociali devono parlarsi e su questo il governo non c'entra». E aggiunge: «Fiat ha confermato i propri impegni sugli stabilimenti italiani: contiamo che questi vengano rispettati»

Diego Longhin

Desideriamo sapere se lo stipendo, in milioni di euro, a Marchionne è ancorato alla produttività e alle vendite di auto

La strada bassa della Fiat

di Luciano Gallino, da Repubblica, 5 Luglio 2013

È possibile, mentre il XXI secolo avanza e una grave crisi sconvolge economie e società di mezzo mondo, riuscire a fabbricare beni e servizi ad alti livelli di produttività e mantenere al tempo stesso fermi i diritti che i lavoratori hanno conquistato in una generazione di lotte e sacrifici? A questo interrogativo l’ad Fiat Sergio Marchionne ha risposto più volte di no.

Per contro giorni fa la Consulta ha stabilito in sostanza che sul terreno dei diritti acquisiti non si può tornare indietro, per cui una soluzione andrà comunque trovata. A sua volta la presidente della Camera (diciamolo: una delle poche voci alte e forti sortite dalle elezioni di febbraio) ha risposto, parlando nella sua lettera all’ad Fiat, di lavoro da reinventare e ripensare sotto nuove forme e in chiave di innovazione e produttività, decisamente di sì: deve essere possibile.

Sostenendo con le sue azioni dal 2004 in avanti il principio che per produrre come si deve bisogna oggi ridurre i diritti dei lavoratori, principio che la Consulta ha ora bocciato, Marchionne non ha ovviamente inventato nulla di nuovo. Ha deciso di seguire la polverosa strada bassa delle relazioni industriali, progettata e costruita in Usa e nel Regno Unito dai governi Reagan e Thatcher degli anni 80, poi percorsa attivamente in Francia e in Germania anche da governi sedicenti socialisti o socialdemocratici, o comunque con l’appoggio dei partiti così denominati. Si veda, nella prima, la legge sulla modernizzazione del diritto del lavoro, e nella seconda la sequela delle leggi Hartz — dal nome di un ex capo del personale cui il governo ritenne di affidare, nientemeno, che il compito di insegnare ai lavoratori ad essere più responsabili. Il che ha significato accettare senza discutere salari “moderati”, potere e rappresentatività dei sindacati in picchiata, condizioni di lavoro sempre più pesanti.

Parrebbe giunto il momento di riconoscere che la strada bassa delle relazioni industriali è stata una pessima costruzione. Ha compresso in misura iniqua quanto economicamente insensata la quota salari in Europa come in America; ha contribuito a produrre milioni di disoccupati; ha favorito la scomparsa di interi settori produttivi. Peggio che mai in Italia, dove la generalizzazione della ricetta Marchionne a tutto il settore industriale non sarà stata la sola causa, ma di fatto si è accompagnata a crolli paurosi della produzione: in un decennio scarso la costruzione di auto è scesa della metà, non si fabbricano più grandi navi, sono in crisi tessili ed elettrodomestici, l’aerospaziale ha i problemi suoi, la chimica è un nano rispetto a quello che era tempo addietro.

In questo quadro più nero che grigio, che cosa significa reinventare e ripensare il lavoro in chiave di innovazione e produttività, per usare le parole della presidente della Camera? Significa varie cose. Che bisognerebbe smetterla di concepire la produttività come lavorare sempre più in fretta sotto il controllo di un computer, come vorrebbe la metrica Fiat imposta dal cosiddetto accordo di Pomigliano: con il risultato ultimo, osservabile in tutti i comparti produttivi, che nel momento in cui finalmente gli operai lavorano come robot, vengono subito sostituiti da robot nuovi di zecca (come ho ricordato altre volte, l’Italia è da anni il secondo maggior acquirente europeo di robot industriali).

La produttività andrebbe invece correttamente vista come valore aggiunto per ora lavorata, un risultato che si ottiene innovando, contando sull’intelligenza dei lavoratori invece che sulla loro disciplinata obbedienza, riconoscendo che nelle critiche che essi ed i sindacati fanno all’organizzazione del lavoro – e perché no ai prodotti – c’è più produttività da ricavare che non imponendo ritmi forsennati di lavoro.

Per tacere della ricetta di Henry Ford, che non era precisamente il titolare di un’opera pia, ma all’incirca un secolo fa scoprì una formula che i manager di oggi sembrano avere dimenticato: raddoppiò il salario giornaliero agli operai contando sul fatto – allora puntualmente verificatosi – che essendo pagati meglio potevano acquistare i prodotti che fabbricavano. Al fine di concretare questi contenuti della produttività, la tutela dei diritti di rappresentanza, di parola, di partecipazione dei lavoratori attraverso i sindacati riveste più che mai un ruolo fondamentale.

 

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28 giugno 2013 5 28 /06 /giugno /2013 18:13

Stati Uniti, svolta storica per le nozze gay. Il matrimonio non è solo tra uomo e donna

La sentenza della corte suprema. Obama esulta”Grande passo in avanti”

NEW YORK - Le 10 di mattina sono passate da un minuto, l' urlo quasi precede la scritta "breaking news" della Cnn: il Defense of Marriage Act, la legge federale che sancisce il matrimonio solo come unione tra uomo e donna è incostituzionale. Fa caldo, dentro la sala buia dello Stonewall Inn al numero 53 di Christopher Street nel cuore del Village. Qui sono scoppiate le rivolte per i diritti degli omossessuali nella notte tra il 27 e il 28 giugno del 1969 (il destino nelle date), qui si sono dati appuntamento per aspettare insieme il Decision Day, il giorno in cui la storia può prendere un altro giro. Il raduno era per le 5 e 30 del pomeriggio: «Venite vestiti di rosso, se avremo vinto faremo festa, altrimenti piangeremo insieme». Hanno vinto e nessuno bada più all' orario dell' invito, sono già tutti qui. Poco dopo un altro urlo, i giudici di Washington scelgono di non decidere sulla Proposition 8, la legge della California che mette al bando le unioni tra coppie dello stesso sesso. La Corte d' appello, a cui tocca ora legiferare, non perde tempo e stabilisce che entro 25 giorni il divieto sarà tolto. Portando a 13 gli stati dove il matrimonio gay è legale, coprendo così il 30% degli americani. Fa caldo qui dentro, i vestiti si appiccano alla pelle, l' aria condizionata non aiuta, la porta non si può più chiudere: il fiume di gente si ingrossa sempre di più. Musica ad alto volume, risate. Alfred, è nato nelle Filippine ed è cresciuto a New York, è «molto cattolico» ma non condivide la posizione della Chiesa. Gli dicono che i vescovi di New York hanno appena attaccato la decisione della Corte Suprema. Il più duro di tutti è Timothy Dolan, titolare di San Patrick: «Questo è un giorno tragico per la nostra nazione. È una decisione sbagliata». Alfred sorride, bacia il suo compagno. Tim fa l' artista e dalla sua galleria di Chelsea è venuto qui in bicicletta. Si asciuga la faccia lucida poi, senza riprendere fiato, ringrazia Obama: «È merito suo se siamo arrivati a questo, senza di lui non sarebbe stato possibile». Barack è stato il primo presidente a sostenere in pubblico e con forza la battaglia per i diritti. Lo fa in piena campagna elettorale in una storica intervista tv nel 2012 e adesso, è il più veloce di tutti a esultare per quella cheè anche una sua vittoria. Va su Twitter usa l' hashtag "love is love", che vale un discorso di mille parole. Poi arriva il comunicato ufficiale: «Siamo di fronte a uno storico passo avanti verso l' eguaglianza. Applaudo alla decisione di abbattere il Defense of Marriage Act.È una vittoria per le coppie che hanno lottato a lungo per un trattamento equo di fronte alla legge. Siamo un popolo che dichiarò che tutti sono stati creati uguali». Poco lontano da qui, sulla Fifth Avenue, fa festa anche Edith Windsor, la donna di 83 anni, che ha dato il via alla causa. Alla tv racconta: «Mi hanno fatto pagare la successione sui beni di mia moglie, se fosse stata un uomo invece sarebbe stato tutto gratis. Non è per i soldi, ma per il principio che mi sono imbufalita. E adesso voglio andare allo Stonewall». Dal bar parte un applauso. Abbracci e boccali di birra. La guardano raccontare la sua avventura e qualcuno piange. Carol, che fa la tecnica informatica da Google, fa sì con la testa: «Anch' io ho avutoi suoi stessi problemi». Usa il passato perché adesso non dovrebbe averli più. La legge infatti sblocca qualcosa come 1100 benefit federali che adesso potranno andare anche alle coppie dello stesso sesso: tasse, pensioni, assicurazioni mediche e i diritti di proprietà sulle caseo nelle attività commerciali. «La gente ha capito, la gente è con noi», grida Tim. E i sondaggi degli ultimi mesi gli danno ragione. La maggioranza degli americani è a favore dei matrimoni omosessuali: «Il paese è cambiato, restano delle sacche ancora ostili ma la coscienza collettiva ormai è matura», spiega al New York Times Chad H. Griffin, presidente di Human Rights Campaign. E infatti anche i Repubblicani arrivano divisi a questo appuntamento, in ordine sparso. E, doloroso paradosso per i falchi del partito, è proprio un giudice nominato da Ronald Reagan a spostare l' ago in favore del sì. Il voto di Anthony Kennedy è quello del 5 a 4: «Va abolita questa legge perché viola il Quinto emendamento», scrive nella sentenza. E si guadagna la riconoscenza dello Stonewall. Il sole scolora contro le finestre del locale, sta per iniziare quella che sarà una lunga notte. Aspettando la festa di domenica, quando ci sarà il Gay Pride: «Dopo tante ingiustizie, adesso ci godiamo la nostra libertà».    DAL NOSTRO INVIATO MASSIMO VINCENZI

 

 PRIMATO DELLA CIVILTÀ

Gli americani hanno capito che la difesa dei diritti è una conquista di civiltà

LA DECISIONE della Corte suprema americana di annullare la legge federale in "difesa del matrimonio" - che vietava il matrimonio gay - rispecchia un cambiamento profondo nella vita americana. QUELLA legge era stata firmata meno di vent' anni fa da Bill Clinton, un presidente democratico con l' appoggio bi-partisan. La legge fu approvata 342 contro 67 alla Camera e 85 contro 14 al Senato, rispecchiando la realtà politica dominante del momento. Era il 1996, c' erano elezioni in vista e molti democratici, pur non amando quella legge, avevano sentito l' esigenza di votarla per paura di essere massacrati alle urne. In teoria, la Corte suprema non dovrebbe badare né ai sondaggi né alle urne, ma non è casuale che questa decisione arrivi quando, per la prima volta, la maggioranza degli americani approva il diritto agli omosessuali di sposarsi. In soli cinque anni, da quando il presidente Barack Obama è stato eletto per la prima volta nel 2008, la percentuale di americani che appoggia il matrimonio gay è andata da una netta minoranza, 44 per cento, ad una netta maggioranza, il 55 per cento oggi. Se si va indietro nel tempo, il cambiamento è ancora più radicale. Nel 1965, il 70 per cento degli americani considerava l' omosessualità un fatto nocivo ed era all' ordine del giorno vedere persone, scoperte nella loro omosessualità, cacciate dal posto di lavoro (prassi che rimane legale in molti Stati degli Usa). Nel 2004,i repubblicani promossero referendum contro il matrimonio gay insieme con le presidenziali in vari Stati chiave per stimolare il voto conservatore, una mossa che secondo alcuni politologi garantì la vittoria minima di Bush in due o tre Stati proprio grazie al forte voto antigay. Solo otto anni dopo, nel 2012, Obama (leggendo attentamente i sondaggi) decide di appoggiare apertamente il matrimonio gay e riesce ad usarlo come punto di forza nella sua rielezione. Che cos' è cambiato, dunque, nella società statunitense? Il movimento per i diritti gay ha "normalizzato" l' omosessualità e ha saputo usare sapientemente il linguaggio dei diritti civili per la sua battaglia. Spostando il dibattito da un piano morale-religioso ad un piano giuridico i gay hanno fatto appello a sentimenti di giustizia molto sentiti. Il movimento di diritti gay ha incoraggiato milioni di omosessuali ad uscire allo scoperto. Celebrità molto amate hanno rivelato di essere gay e personaggi apertamente omosessuali sono diventati sempre più presenti nella cultura popolare. Così, l' America ha scoperto che (grande sorpresa) gli omosessuali sono presenti in tutti gli Stati (blue rossi), in tutte le classi economiche e (quasi) in tutte le famiglie. Quindi anche politici ultraconservatori come il vice presidente Dick Cheney e Newt Gingrich hanno visto la figlia (nel caso di Cheney) e la sorella (nel caso di Gingrich) uscire dall' ombra ponendo un problema politico. Anche un politico "superduro" come Cheney ha dovuto dimostrarsi un po' più morbido sui diritti degli omosessuali per non perdere sua figlia. L' ex capo della campagna elettorale di George Bush e Dick Cheney nel 2004, Ken Mehlman, si è dichiarato gay nel 2010 - segno dei tempi - e ha appoggiato la causa del matrimonio gay. Anche nel mondo dello sport professionistico - per lungo tempo baluardo dell' omofobia - molti hanno cominciato a professare tolleranza verso i gay. Quando un tifoso del grande giocatore di basket, Kobe Bryant, ha twittato il termine "frocio" la stella dei Lakers ha risposto rapidamente "not cool". Non è un caso, quindi, che l' appoggio ai diritti gay aumenti in tutti e due i principali partiti mentre la politica razziale diventi una questione sempre più polarizzata. In alcuni Stati del profondo Sud il 90% dei bianchi ha votato contro Obama sia nel 2008 sia nel 2012. Mentre iniziative per il matrimonio gay hanno avuto successo in Stati piuttosto moderati come Iowa e Maryland. Forse perché molte famiglie conservatrici hanno scoperto di avere figli e cugini gay, ma non succede tanto spesso con il colore della pelle. Questo aiuta a spiegare come mai la Corte suprema abbia smantellato uno dei pilastri dei diritti civili per i neri (il Voting Rights Act) nella stessa settimana in cui ha annullato la legge in difesa del matrimonio tradizionale. Nel 1901, il noto scrittore satirico Finley Peter Dunne scrisse che «la Corte Suprema segue le urne». È ancora vero.

ALEXANDER STILLE

La nostra vergogna

di MICHELA MARZANO

L’abolizione da parte della Corte suprema degli Stati Uniti del Defence of Marriage Act è molto più che una vittoria storica per l’affermazione dei diritti degli omosessuali. Come ha giustamente commentato il presidente Obama, si tratta di una vittoria collettiva, la vittoria della libertà di tutti. È solo nel momento in cui tutti i cittadini vengono trattati nello stesso modo, infatti, che la libertà di ognuno diventa reale ed effettiva. Tutti liberi di essere se stessi e di amare una persona dello stesso sesso, indipendentemente dalle aspettative sociali, dai dogmi religiosi e dagli stereotipi culturali. Senza più vergogna. Senza più doversi nascondere o fingere. Perché la legge, ormai, non solo non tollera l’omofobia e la transfobia, ma non può nemmeno più imporre ai cittadini di accettare l’ordine simbolico della “famiglia tradizionale”.

Che pensare allora dell’Italia, ormai ultima della classe in Occidente in tema di diritti e libertà individuali, che non ha neppure un ministro delle Pari opportunità? Come giustificare l’assenza di una legge non solo sui matrimoni gay e le unioni civili, ma anche sui reati di omofobia e transfobia? Come si fa a tollerare ancora l’odio nei confronti di chi non ha altra colpa che quella di amare una persona dello stesso sesso?

Il vero problema dell’Italia, in cui alcuni diritti non sono ancora accessibili a tutti, è proprio quello della mancanza di libertà e di uguaglianza. Nel nostro paese, nonostante le grandi dichiarazioni di principio, i cittadini continuano di fatto ad essere distinti in due categorie: da un lato quelli di serie A, ossia gli eterosessuali che, in quanto conformi alle norme vigenti, vengono considerati e trattati come “normali”, “adeguati” e “degni”; dall’altro lato quelli di serie B, ossia gli omosessuali che, proprio perché non-conformi alle norme, vengono considerati e trattati come “anormali”, “devianti”, “indegni”.

Un popolo di “quasi adatti”, per utilizzare le parole dello scrittore Peter Hoeg, che dovrebbero smetterla di domandare gli stessi diritti di tutti gli altri. Non si può mica volere tutto e il contrario di tutto – pensano ancora taluni, spiegando che non si può al tempo stesso voler essere liberi di non conformarsi alle aspettative altrui e voler essere trattati come tutti gli altri. Non si può mica essere al tempo stesso diversi e uguali – cercano di argomentare altri, senza capire che l’uguaglianza dei diritti è proprio l’uguaglianza nella diversità.

L’Italia è arretrata. Nonostante gli sforzi fatti in questi ultimi decenni dalle associazioni Lgbt e dai difensori delle pari opportunità per tutti i “diversi”, i pregiudizi persistono. La differenza continua a far paura. Rimette ancora troppo in discussione quello che si conosce, o che si pensa sapere, spingendo a rifiutare ciò che è “altro” rispetto a sé, ai propri codici, alle proprie abitudini. Ecco perché c’è tanta urgenza di leggi che riconoscano i diritti degli omosessuali e dei trans, e che permettano di dire in modo chiaro da che parte stanno la libertà e l’uguaglianza, e da che parte invece continua a stare la vergogna: in un paese democratico e liberare non ci si può vergognare di quello che si è o di chi si ama; ci si dovrebbe piuttosto vergognare di non permettere a tutti, nonostante le differenze, di essere uguali e liberi.

 

Paul Harding vincitore del premio Pulitzer con il libro "L'ultimo inverno"

Lo scrittore USA:”Molti cittadini pensavano già da tempo che fosse giunta l’ora”

Harding: “Una decisione politica, ora la nazione è più democratica

 

“Questa è una decisione importante per tutti, ha a che vedere con la crescita e il miglioramento della società americana. L’intera nazione ne esce più democratica.”

Lo scrittore Paul Harding che con il suo L’ultimo inverno ha vinto il Pulitzer tre anni fa non trattiene la gioia. “Sono eterosessuale, ma che vuol dire? La data è storica per tutti noi americani. La corte suprema ci appena tolto il Voting  Act che proteggeva le discriminazioni razziali, ma or ci regala un passo in avanti per i diritti omosessuali”

Crede che la decisione sarà apprezzata da tutti?

Per quel che vedo io, almeno la metà dei cittadini degli Stati Uniti pensa che sia giunta l’ora che le coppie gay abbiano tutto ciò che hanno le coppie eterosessuali, dal sistema di sicurezza sociale al diritto di non pagare le tasse di successione, per non parlare dei diritti dei loro bambini. Certo ci sarà chi  sarà sconvolto, ma si andrà avanti lo stesso.

La Corte ha citato il quinto emendamento.

Giustissimo, di quello si tratta: uguale libertà e uguali diritti per tutti davanti alla legge. Dal 1996, quando fu varato il Defense of Mariage Act,era sancito un abuso  dell’autorità del governo sui cittadini. Ora  è finita. E abbiamo un presidente che ha twittato”Lovelslove” E’ il primo a fare una cosa molto bella del genere. Ora ci saranno più coming out, più omosessuali che si sentiranno liberi di esserlo. Se penso ai miei nonni, ai miei stessi genitori: avevano visioni più ristrette, su certi argomenti. E adesso invece  quello che so di poter sperare è che i miei figli e i miei nipoti avranno amici di ogni genere e inclinazioni senza problemi. E’ proprio la formalizzazione dei valori in cui ci riconosciamo, e che riconosciamo a gay, lesbiche, bisessuali, transgender, a essere importante. Ognuno può sentirsi più liberi di esprimere se stesso  e la sua sessualità.

Che cosa pensano i suoi amici gay?

Che nel futuro ognuno potrà essere libero anche di non sposarsi, se non lo desidera. Fra loro c’è anche chi considera il matrimonio un’istituzione legata all’eterosessualità e al dominio dell’uomo sulla donna. Ma vuole ugualmente avere il diritto di farlo. Questo finora perché per la comunità gay si è trattato anche di un gesto politico, un atto di affermazione. Si è trattato di chiedere di potersi sposare per essere accettati. Adesso il mondo gay perderà il connotato forte dell’emarginazione, diventerà qualcosa di diverso, di più incluso nella società. E il matrimonio potrà essere fino in fondo anche per loro quello che è  per tutti un gesto d’amore.

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17 giugno 2013 1 17 /06 /giugno /2013 16:30

 Articolo di Stefano Rodotà (Repubblica 16.6.13)

Niente riesce più a rimanere riservato, non solo i dati personali dei cittadini, ma nemmeno le decisione segrete degli stati.

I nostri sembrano i tempi della scomparsa degli arcana imperii del sovrano e dei segreti dei privati. È vero, esistono segreti ben custoditi e considerati inviolabili – la formula della Coca Cola, l’algoritmo di Google. Ma, guardando ad altri casi, dobbiamo invece dire che siamo ormai entrati nell’impero della trasparenza senza confini, di una luce abbagliante che illumina qualsiasi cosa? Partiamo da tre nomi – Daniel Ellsberg, Bradley Manning, Edward Snowden. Sono i tre giovani americani che hanno consentito al mondo intero di conoscere aspetti essenziali e riservati della politica degli Stati Uniti. Ellsberg rese pubblici nel 1969 i “Pentagon Papers”, i documenti che riguardavano la politica americana negli anni della guerra del Vietnam. Manning, nel 2010, passò a Wikileaks di Julian Assange centinaia di migliaia di comunicazioni riservate relative alla politica estera del suo paese. E le informazioni fornite da Snowden hanno permesso di scoprire la rete di controllo stesa dagli Stati Uniti sull’intero pianeta. Non siamo di fronte alle classiche e limitate fughe di notizie, ma all’applicazione estrema del detto di un grande giudice della Corte Suprema americana, Louis Brandeis, divenuto quasi un proverbio democratico: «la luce del sole è il miglior disinfettante». Non è certo un caso, allora, che tutte queste vicende abbiano avuto il loro epicentro negli Stati Uniti, dove continua a manifestarsi una robusta tradizione di consapevolezza civile che vede nei cittadini, in ogni cittadino, il depositario e il responsabile di un potere di controllo che deve essere esercitato per garantire gli equilibri democratici, anche a costo d’essere processati (com’è puntualmente accaduto). La trasparenza, dunque, come irrinunciabile risorsa della democrazia. Guardando più da vicino quelle diverse vicende, che riassumono emblematicamente la condizione che viviamo, si possono subito fare due considerazioni generali. Vi è una tesi, non nuova, che esalta la società della trasparenza totale, sostenendo che in essa può essere eliminata l’asimmetria di potere generata dall’impiego delle tecnologie del controllo, perché queste sono disponibili sia per i sorveglianti che per i sorvegliati. Una tesi ottimistica, o ingenua, visto che i sorvegliati, come dimostra appunto il Datagate, possono svelare le caratteristiche di un sistema che viola su scala planetaria i diritti dei cittadini, ma non riescono con le sole loro forze ad impedire che le violazioni siano eliminate. Più importante è sottolineare che, cogliendo l’opportunità tecnologica per far crescere quasi senza limiti la raccolta delle informazioni e la loro conservazione in banche dati sempre più gigantesche, gli Stati non si sono resi conto che in questo modo crescevano, insieme, trasparenza e vulnerabilità.La funzionalità di questi database, infatti, è strettamente legata alla loro connessione, alla condivisione, alla possibilità di ampi e molteplici accessi. Ma soprattutto non si è avvertito che lì si stava depositando un nuovo sapere sociale, della cui importanza e utilizzabilità si rendevano conto più i cittadini che i detentori delle informazioni. Questo solo fatto redistribuiva potere, ed era evidente che una così inedita opportunità prima o poi sarebbe stata colta. È quello che è avvenuto, e continua ad accadere.Ma può la democrazia essere identificata con l’assoluta trasparenza, con l’obbligo di dire la verità in ogni caso e ad ogni costo? Kant poneva il divieto di mentire dei governanti come un imperativo. Ma anche i regimi democratici conoscono casi in cui il segreto è ammissibile, anzi può essere considerato necessario e doveroso. Qual è, allora, il tasso di segretezza, e di insincerità, che un sistema democratico può sopportare senza mutare la propria natura?Proprio il caso Wikileaks ci fornisce elementi per cominciare a rispondere a questo interrogativo. Affidato ad alcuni grandi giornali il compito di selezionare il materiale pubblicabile, vennero escluse tutte le informazioni che potevano mettere a rischio la vita e la sicurezza di singole persone o lo svolgimento di operazioni in corso. Qui cogliamo una traccia di quello che, in polemica con Kant, sosteneva Benjamin Constant: «nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia ad altri». Ma chi è l’altro che deve essere tutelato, il singolo violato nella sua sfera privata o un potere pubblico che vuole agire al riparo d’ogni controllo? La distinzione è essenziale. Si dice che ognuno di noi deve potersi sottrarre ad un continuo e implacabile scrutinio pubblico, deve poter conservare il diritto di “ritirarsi dietro le quinte”. Che cosa accade, però, quando si passa dalla sfera privata a quella pubblica, quando la persona diventa figura pubblica, quando un potere pubblico o privato vuole innalzare altissime mura per sottrarsi, attraverso il segreto, ad ogni forma di controllo? La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo “in pubblico”. Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l’inammissibilità della menzogna in politica, che è cosa diversa dalla necessità di individuare i casi in cui la segretezza non è fondata sulla necessità di arcana imperii, sull’esistenza di una sfera in cui il potere si trasforma nella pretesa dell’incontrollabilità. Rovesciata la logica che muoveva dal principio di un potere politico sottratto dall’occhio del pubblico, è possibile individuare casi in cui la riservatezza è necessaria per raggiungere un obiettivo democraticamente rilevante, dunque radicalmente all’opposto di quelli legati a ben diverse e opposte finalità. Anche per i primi, tuttavia, non sono ammissibili chiusure più o meno assolute. La riservatezza può essere necessaria nello svolgimento di un negoziato, di cui poi si deve rendere pienamente conto. Il segreto deve cedere di fronte al controllo di commissioni parlamentari o di istituzioni specifiche (in Italia, ad esempio, il Garante per la privacy). In un preciso quadro di garanzie, la trasparenza torna così ad essere condizione per la partecipazione dei cittadini, senza che la democrazia venga ridotta all’uso ossessivo e indiscriminato dello streaming."

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16 giugno 2013 7 16 /06 /giugno /2013 15:58

La Corte Suprema degli Usa frena il business biogenetico

L’Europa ha già deciso in questo senso anni fa. Ma evidentemente la decisione negli USA ha un’influenza generale.

NEW YORK - È una vittoria per i pazienti di cancro, per i ricercatori, per la scienza medica. Il gene umano non può essere brevettato: lo stabilisce da ieri una storica sentenza della Corte suprema americana. Lo stop alla "privatizzazione" del gene dà ragione a tutti coloro che si sono battuti contro questa pratica, denunciandola come una restrizione alla libertà di ricerca e al progresso nelle cure. Il "mattone con cui si costruisce la vita umana", com' è stato definito il gene, non può diventare l' oggetto di un business circondato da barriere impenetrabili. La sentenza è considerata una delle più importanti nell' era della biogenetica e della medicina molecolare, farà giurisprudenza in altre situazioni analoghe. Il caso specifico su cui il tribunale costituzionale si è pronunciato riguarda la società Myriad Genetics, con sede nello Utah. Titolare di brevetti su due geni, designati in codice come Brca1 e Brca2: possono rivelare se una donna ha un elevato rischio ereditario di essere colpita dal cancro al seno o alle ovaie.

La concorrenza farà scendere i costi sulle diagnosi precoci delle malattie

I geni in questione sono stati al centro del "caso" di Angelina Jolie, la celebre attrice che annunciò il mese scorso la sua decisione di sottoporsi alla mastectomia (asportazione dei seni) dopo avere appreso che per motivi ereditari aveva elevate probabilità di tumore. Ma i test diagnostici precoci, proprio in conseguenza del brevetto sui geni, costano cari: anche oltre i tremila dollari a paziente. Solo in certi casi questi test sono rimborsati dalle assicurazioni private, certo non per tutte le potenziali pazienti. Ora che i brevetti di Myriad sono stati dichiarati illegittimi, la speranza è che questi test siano più accessibili e che nessuna donna debba rinunciarvi solo per ragioni economiche. E' quel che ha dichiarato il medico Harry Ostrer, che si era presentato fra le parti lese nel ricorso finito davanti ai giudici costituzionali. «La tariffa di un test - ha detto ieri Ostrer - dovrebbe scendere in modo sostanziale. Questa sentenza avrà un effetto immediato e benefico sulla salute delle donne». Le ramificazioni della sentenza possono essere ancora più ampie. Farà giurisprudenza in altri campi, dà un segnale importante al mondo della ricerca medica, e al business biogenetico che punta sullo sfruttamento privato di queste scoperte. L' alta Corte si è attenuta da vicino a un parere espresso dall' Amministrazione Obama: la linea del governo è che un singolo elemento del nostro Dna non può essere brevettato, mentre possono esserlo quelle "costruzioni artificiali" chiamate Dna complementari (in sigla cDna). In questo senso non viene sconfitta del tutto la privatizzazione dei geni: non a caso in Borsa ieri il titolo Myriad ha reagito positivamente. La sentenza costituzionale è stata adottata all' unanimità. Il dispositivo è stato scritto da un giudice repubblicano molto conservatore, Clarence Thomas. «Un segmento naturale del Dna - si legge nella motivazione - è un prodotto della natura e pertanto non può essere brevettato solo perché qualcuno lo ha isolato. Myriad non ha creato né alterato l' informazione contenuta nei geni Brca1 e Brca2. Una scoperta, per quanto innovativa e brillante, di per sé non basta a soddisfare il criterio della sua brevettabilità». Resta invece, nel testo di Thomas, la possibilità di brevettare la manipolazione di un gene finalizzata a creare qualcosa che non esiste in natura; oppure di brevettare i metodi originali usati per isolare questo o quel gene. Tuttavia nell' immediato la vittoria per la libertà di ricerca, e per la tutela dei pazienti, è notevole. Decaduti i brevetti, Myriad non potrà più far causa contro chi usa questi geni per le diagnosi precoci del rischio tumorale. La concorrenza farà scendere i costi. Il verdetto della Corte suprema - che sconfessa un precedente pronunciamento di una corte d' appello - rappresenta anche un chiaro ammonimento rivolto allo U. S. Patent and Trademark Office. Dagli anni Novanta questo ufficio federale dei brevetti ha accettato di registrare molte migliaia di scoperte relative alla genetica. Da tempo questa sua politica è bersaglio di critiche. Vuoi perché dotato di mezzi insufficienti rispetto agli eserciti di avvocati delle imprese, vuoi perché troppo "comprensivo" verso gli interessi del business, l' ufficio brevetti è stato molto generoso nelle sue concessioni. Ora avrà un ostacolo insormontabile: chiunque potrà appellarsi alla sentenza costituzionale, per difendere la propria libertà di ricerca o il proprio diritto alle cure.

FEDERICO RAMPINI

 

Non si brevetta il Dna umano, stop ai giganti del biotech

di Piergiorgio Odifreddi da La Repubblica del 14 giugno 2013

E’ l’eterno duello fra natura e interessi

La natura non si brevetta. Con questo slogan si può tradurre la decisione che arriva dagli Stati Uniti. D’altra parte per semplificare un po ‘, ma non troppo, la biologia contemporanea può essere considerata come uno scontro fra Titani. Da una parte, ci sono gli scienziati “duri e puri”, interessati alla ricerca per scoprire com’è fatta la Natura, per il bene dell’umanità.
Dall’altra parte, gli scienziati “duri e impuri”, interessati alla ricerca per scoprire com’è fatta la Natura, per il bene del loro conto in banca.
I vessilliferi di questi due gruppi sono i due biologi più famosi del mondo: rispettivamente, James Watson e Craig Venter. Entrambi sono stati degli enfant prodige, e sono diventati degli enfant terrible. Ed entrambi hanno legato il loro nome al Progetto Genoma, che nel 2000 ha portato alla sequenziazione del genoma umano. Watson fu il primo direttore del Consorzio pubblico fondato nel 1988 dall’Istituto Nazionale della Sanità degli Stati Uniti, che coordinò una ricerca internazionale in cui parti diverse del genoma furono sequenziale da nazioni diverse. Venter fu invece il presidente della compagnia privata Celera, che nel 1998 si affiancò al Consorzio pubblico nella corsa al traguardo. La sua entrata in gara accelerò la corsa, che però in parte fu truccata dal fatto che la Celera usò molti dei dati del Consorzio pubblico, che erano essi stessi pubblici.
La corsa si concluse con una dichiarazione di parità il 26 giugno 2000, quando il secondo direttore del Consorzio pubblico, Francis Collins, annunciò insieme a Venter alla Casa Bianca il raggiungimento dell’obiettivo. Il presidente Clinton dichiarò che l’uomo aveva appreso il linguaggio della vita, ma rimaneva da leggerne il libro: cioè, identificare i geni che ne costituiscono i capitoli. E già prima di quel momento era sorta la questione se i geni identificati si potessero “brevettare”: parola che, naturalmente, è solo un sinonimo di “privatizzare”.
Come si può immaginare, Watson era assolutamente contrario. E così era Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina e primo ideatore del Progetto Genoma, che in un’intervista per Repubblica del 2002 mi disse: “Per me un brevetto è un prodotto ottenuto con mezzi non banali, e che abbia dimostrata utilità. Brevettare un gene da cui si è ottenuto un prodotto utile, va bene. Ma non so perché si debba concedere il brevetto a un gene soltanto perché lo si è identificato, senza sapere né dove agisce, né cosa fa”.
Come si può di nuovo immaginare, Venter era al contrario assolutamente favorevole. Il premio Nobel per la medicina Hamilton Smith, che è la mente dei progetti di cui Venter è il braccio, prese una posizione intermedia, così testimoniata in un’altra intervista che gli feci per Repubblica nel 2005: “Non ho problemi coi brevetti provvisori, che congelino ad esempio per un anno i diritti su un gene che è stato appena trovato, nell’attesa che se ne scopra qualche uso immediato”.
In realtà, messi da parte gli interessi, la non brevettazione dei geni era semplicemente una questione di buon senso. Anche perché si può facilmente immaginare cosa succederebbe se si brevettassero geni umani: tutti gli esseri che li hanno potrebbero essere costretti a pagare, per il solo fatto di averli. Si istituirebbe così una tassa sull’esistenza, ancora peggiore di quelle per l’aria che si respira. l’acqua che si beve, o il Sole che ci riscalda. Una vera follia, che solo l’avidità di un Dottor Stranamore poteva immaginare e difendere.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ora ha finalmente dato ragione a Watson e Dulbecco, oltre che agli uomini di buon senso, a proposito dei geni umani. Ma ha lasciato aperta la questione dei geni artificiali, ai quali si stanno dedicando da anni Venter e Smith: la guerra continua.

 

Ora ci saranno nuove e avvincenti scoperte

 Craig  Venter

La decisione della Corte Suprema sulla validità dei brevetti sui geni Brca 1 e Brca 2 è una buona notizia per la biotecnologia, perché chiarisce le norme e riduce le incertezze. Il campo della genetica e in particolare della genetica sintetica (in cui l’uomo interviene per modificare il Dna) è molto promettente e fa sperare in nuove, avvincenti scoperte. Nel caso della genetica  sintetica, è chiaro che i progressi sono un risultato diretto dell’intervento umano e della costruzione del Dna da parte dell’uomo. Questi costrutti genetici realizzati in laboratorio sono già usati per creare nuovi vaccini, carburanti ecologici e prodotti destinati all’alimentazione. La possibilità di tutelare questa proprietà intellettuale è una componente necessaria per una scienza e un’industria biotecnologica vitali e solide.

Ma i geni artificiali restano protetti questa sarà la vera scommessa del futuro

ROMA - «Leggere il Dna è diventato così facile oggi. Concedere brevetti sulle sequenze dei geni non era solo sbagliato, era diventato ormai anacronistico». Fulvio Mavilio non è stupito: la sentenza della Corte Suprema Usa prende atto dell' avanzamento prepotente della tecnologia nel campo della genetica. Lo scienziato che oggi dirige Genethon (l' equivalente francese di Telethon) ha insegnato biologia molecolare all' università di Modena e  Reggio e fondato due aziende biotech a Milano. Alla doppia elica sa dunque guardare a tutto tondo.

 Cosa cambia per noi europei? « Praticamente nulla. L' Europa ha deciso anni fa che il genoma non è brevettabile. Il caso americano era un paradosso e la decisione della Corte Suprema era molto attesa. Quando la Myriad ottenne il brevetto, sequenziare un gene come Brca era un' impresa d' avanguardia. Oggi un mio studente saprebbe farlo».

 Perché allora i test della Myriad da noi costavano come negli Usa? «Perché nessuno ha mai prodotto un test concorrente. In Europa il brevetto non era riconosciuto, d' accordo. Ma la paura di finire in tribunale con spese legali enormi aleggiava comunque».

 La ricerca ora sarà più libera? «I brevetti riguardavano la commercializzazione dei test genetici. Non avevano impatto sulla ricerca di laboratorio. La nostra libertà non era in ballo perché siamo diventati da tempo bravi e veloci nel sequenziare il Dna, senza bisogno della Myriad».

 Perché le azioni della Myriad sono salite? «Perché la Corte da un lato ha cancellato i brevetti su una tecnologia del passato. Ma dall' altro ha sancito la possibilità di chiederli sulla tecnologia del futuro: la genetica che interviene sul Dna modificandolo. Si tratta di tecniche con cui possiamo produrre farmaci, piante, semi o animali per curare le malattie. E lì l' elemento di innovazione è innegabile. Per questo la decisione della Corte non ha stupito i mercati, e i guadagni delle azioni si spiegano con un normale sospiro di sollievo. La sentenza ha rispettato le attese e sventato il timore di prese di posizione oscurantiste».

 Giusta o sbagliata, la brevettabilità dei geni ha fatto da ombrello per anni a un enorme settore della scienza. Ha forse drogato un mercato? «È vero, l' industria investe dove intravede guadagni e i brevetti hanno reso attraente questo settore in anni cruciali per la sua crescita. Ma il fattore essenziale per la scienza resta la conoscenza, non la brevettabilità. Al progresso della genetica ha contribuito infinitamente di più il Progetto Genoma Umano. I cui dati sono da sempre pubblici».

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14 giugno 2013 5 14 /06 /giugno /2013 15:37

Usa, spiati milioni di telefoni bufera sugli 007 di Obama

NEW YORK - Le telefonate di milioni di americani sono segretamente controllate per anni. La notizia è emersa solo ora grazie a uno scoop del britannico Guardian. Le associazioni Usa per la difesa dei diritti civili gridano allo scandalo. E l' amministrazione Obama cerca di gettare acqua sul fuoco affermando che si tratta di «uno strumento fondamentale» nella lotta al terrorismo.

ORWELL ALLA CASA BIANCA

NEW YORK IL GRANDE Fratello ha le sembianze di Barack Obama. Nello stillicidio di scandali che segnano l' inizio del suo secondo mandato presidenziale, le libertà individuali e il Primo emendamento vacillano sotto l' avanzata di uno Stato che sembra sempre più invasivo. Tutto cominciò con le rivelazioni sulla sorveglianza telefonica dei giornalisti di Associated Press e Fox. Il Dipartimento di Giustizia voleva smascherare le loro fonti, le "gole profonde" che dall' interno dell' Amministrazione erano sospettate di fornire ai reporter notizie riservate, tali da nuocere alla sicurezza nazionale. Su un piano diverso, c' è l' affaire dell' Internal Revenue Service (Irs): l' agenzia delle entrate ha compiuto degli accertamenti molto "mirati", verso organizzazioni politiche di destra. Ora arriva il botto più grosso: milioni di utenze telefoniche sotto sorveglianza, un' intrusione massiccia nella privacy dei cittadini. «Uno strumento cruciale per prevenire minacce terroristiche», è la giustificazione fornita dalla Casa Bianca. Già a proposito dello spionaggio sui giornalisti, l' ex direttore del New York Times Bill Keller aveva detto di Obama che ha prima "ereditato" e poi "rafforzato uno Stato dominato dalla sicurezza". Per i garantisti non è la prima volta che questo presidente delude le aspettative. Nel suo primo mandato c' era la macchia di Guantanamo. Obama aveva promesso nel 2008 che il supercarcere militare sarebbe stato chiuso. È tuttora in funzione. E di fronte allo sciopero della fame che molti detenuti hanno avviato per protesta (sono in carcere da anni senza processo) Obama ha autorizzato l' alimentazione forzata, che alcune organizzazioni dei diritti civili equiparano a una forma di tortura. Su Guantanamo, Obama ha delle giustificazioni: quando provò a chiuderlo e a trasferirne i prigionieri in penitenziari civili, il Congresso oppose un netto rifiuto. Ma anche nelle battaglie contro WikiLeaks, o nell' uso massiccio di droni per "esecuzioni dall' alto", il presidente democratico aveva mostrato di dare la priorità alla sicurezza nazionale. Con un' ossessione particolare, quando si tratta di dare la caccia ai "whistelblowers" che si annidano nella stessa funzione pubblica, le gole profonde che rivelano notizie riservate. Di fronte agli ultimi scandali Obama è apparso sulla difensiva. A proposito della sorveglianza sui giornalisti, il presidente ha detto: «Abbiamo tutti bisogno della libertà di stampa, ne ho bisogno io per primo, per essere controllato dall' opinione pubblica, sono questi i valori che mi hanno spinto a fare politica». Si è detto favorevole a una "legge scudo", che definisca meglio il segreto professionale, il diritto dei cronisti a tacere l' identità delle proprie fonti. La destra lo ha attaccato in maniera poco convincente. E non solo perché il gigantesco apparato di sorveglianza interna a fini di anti-terrorismo, sotto il superministero della Homeland Security, fu costruito da George W. Bush dopo l' 11 settembre. Sulla vicenda dei controlli fiscali, la destra ha i suoi scheletri nell' armadio: tra le organizzazioni politiche indagate dall' agenzia delle entrate, alcune hanno davvero abusato del generoso regime di deducibilità fiscale delle donazioni. Nona caso, finoa pochi giorni fa i sondaggi indicavano che l' opinione pubblica è poco attenta a questi scandali. È a sinistra che la sofferenza si fa più acuta, soprattutto dopo l' ultima rivelazione sui milioni di cittadini spiati a loro insaputa. Si riapre un' antica spaccatura, fra garantisti e "realisti", che ha sempre attraversato il partito democratico. È significativa la posizione della senatrice Dianne Feinstein: democratica di San Francisco, ultraprogressista su altri temi valoriali (come i matrimoni gay), ma un falco sulla sicurezza nazionale. Sapevamo della sorveglianza sulle utenze telefoniche, dice in sostanza la Feinstein, è un programma necessario e va continuato. Guai a lasciare che siano i repubblicani a impugnare la bandiera della sicurezza nazionale. Non nella nazione ferita dall' 11 settembre, e ancora di recente dall' attentato di Boston. Ma davvero il presidente che ha eliminato Osama Bin Laden deve continuamente ribadire le sue credenziali sulla sicurezza? L' anima liberal del suo partito la pensa come Keller quando scrive che "bisogna ritrovare un equilibrio, nell' eterna lotta tra i segreti necessari e la responsabilità democratica; la segretezza va controbilanciata dal nostro bisogno di sapere ciò che il governo sta facendo".

 FEDERICO RAMPINI

Le porte aperte al Grande Fratello

SI PUÒ e si deve essere indignati e scandalizzati dalla notizia di una rete elettronica di sorveglianza con la quale gli Stati Uniti hanno avvolto il mondo. Ma non ci si può dire sorpresi. Da anni, infatti, si assiste ad una convergenza tra sottovalutazione della privacy, crescita degli strumenti elettronici di controllo, enfasi posta sulla lotta al terrorismo ed alla criminalità. E non sono mancate le informazioni che mostravano come soggetti pubblici e privati avessero adottato, con diversi gradi di intensità, la logica secondo la quale la semplice esistenza di tecnologie sempre più penetranti e pervasive legittimava il ricorso ad esse in qualsiasi situazione.

Si stava abbattendo sull'intero pianeta quello che, già nel 2008, un gruppo di ricerca dell'Unione europea definiva un "digital tsunami", destinato a travolgere gli strumenti giuridici che garantiscono non solo l'identità, ma la stessa libertà delle persone, aprendo la strada a una radicale trasformazione delle nostre organizzazioni sociali, che vuol far diventare la sicurezza l'unico criterio di riferimento. Soggetti pubblici e privati si sono impadroniti di questa nuova opportunità, mentre rimanevano deboli o inesistenti le reazioni politiche.

Evenivano dileggiati o trascurati gli allarmi delle associazioni dei diritti civili e del "popolo della rete". Sempre nel 2008, il rapporto di una di queste associazioni, Statewatch, criticava duramente l'abbandono del principio secondo il quale le raccolte private di informazioni sulle persone devono essere garantite contro l'accesso generalizzato da parte dello Stato a favore dell'opposto principio, che legittima l'accesso a qualsiasi dato personale con l'argomento, appunto, della sicurezza.

Questo scivolamento verso forme di democrazia "protetta" è ormai davanti ai nostri occhi, ed è stato descritto con i dettagli che ormai conosciamo bene e che mettono in evidenza come i tabulati telefonici, gli accessi a Internet, l'uso delle carte di credito, il passaggio quotidiano davanti a telecamere di sorveglianza, e via elencando, compongano un paesaggio all'interno del quale si muove una persona che lascia continue tracce, implacabilmente seguite, che consentono un ininterrotto "data mining", una possibilità di sottoporre ogni individuo ad una sorveglianza continua attingendo all'universo sterminato delle banche dati come ad una miniera a cielo aperto. Non più la "folla solitaria" delle metropoli, dove la persona poteva scomparire, ma persone "nude", spogliate d'intimità e di diritti. Questo è il mondo nuovo che descrive il "Datagate". Un mondo pazientemente costruito anche con iniziative costituzionali, che negli Stati Uniti sono state definite con nomi come Patriot Act e, oggi, Prism. Iniziative che hanno una lunga storia e che, in altri momenti, si è cercato di contrastare. Vorrei ricordare che, proprio all'indomani dell'11 settembre, il Gruppo dei garanti europei per la privacy, per iniziativa dell'Italia, sollevò con molta forza il problema e ingaggiò un vero braccio di ferro con l'amministrazione americana che, per la prima volta nella sua storia, si dotava di un ministero dell'Interno, il Department of Homeland Security. I termini del conflitto furono subito chiarissimi. Si partiva dai dati dei passeggeri delle linee aeree, di cui si voleva conoscere ogni minuto dettaglio, dal modo in cui era stato acquistato il biglietto alla eventuale dichiarazione di abitudini alimentari. Non si dava nessuna vera garanzia sul modo in cui quei dati sarebbero stati utilizzati e sulle concrete possibilità di ricorso a un giudice nel caso di violazioni. Compariva con chiarezza la cancellazione tra dati raccolti da soggetti pubblici o da soggetti privati, e si creava un gigantesco conglomerato all'interno del quale le varie agenzie per la sicurezza avrebbero potuto muoversi liberamente. La questione assumeva una rilevantissima importanza politica, perché implicava la capacità dell'Unione europea di difendere efficacemente il diritto d'ogni persona alla protezione dei dati personali, la cui rilevanza e autonomia erano state appena riconosciute dalla Carta dei diritti fondamentali del 2000.

Emerse allora una sorta di schizofrenia istituzionale, con un'alleanza tra Parlamento europeo e Gruppo dei garanti, mentre la Commissione finiva troppo spesso per comportarsi più come portavoce che come controparte delle pretese degli Stati Uniti. Ci accorgiamo oggi del fatto che, in quel conflitto, erano presenti tutti gli elementi che oggi ritroviamo nel Prism. Mancanza di tutele effettive (la corte di garanzia agisce in segreto), accesso all'enorme serbatoio offerto da soggetti privati come Googleo Facebook, nessun rispetto dei diritti dei cittadini degli altri paesi, ai quali si negano i diritti esercitabili da quelli americani. Allora si riuscì ad ottenere qualche risultato non trascurabile. Ma oggi? Che cosa si intende fare di fronte a una situazione assai più grave di quelle del passato? La Commissione europea, dopo essere stata reticente di fronte alle interrogazioni dei parlamentari che chiedevano informazioni perché già circolavano notizie sulla rete americana di sorveglianza, non ha reagito con l'immediatezza e la decisione che sarebbero state necessarie, confermando una sorta di subalternità di fronte agli Stati Uniti, evidente in molti casi degli anni passati in cui assai debole è stata la sua difesa della privacy. Dal Parlamento si dovrebbe attendere una reazione non ispirata alle reticenze con le quali, all'inizio del 2000, venne affrontato il caso allarmante della rete di sorveglianza più nota all'epoca, Echelon. E gli Stati europei? Un segnale sembra venire solo dalla Germania. Inquieta la passività degli altri, prigionieri tutti della logica di una sicurezza insofferente d'ogni limite, tanto che più d'un paese europeo si esercita anch'esso in spericolate iniziative di sorveglianza. Il Governo italiano rimarrà parte di questo coro silenzioso? Bisogna ripetere che, di fronte a vicende come questa, la parola privacy è inadeguata o, meglio, deve essere sempre più intesa come un riferimento che dà fondamento concreto a questioni ineludibili di libertà e democrazia. L'erosione della privacy, la sua negazione come diritto e come regola sociale, non avviene soltanto all'insegna della sicurezza, ma anche di una pressione economica di tutte quelle imprese che vogliono considerare i dati personali come proprietà loro, come una tra le tante risorse liberamente disponibili. Espropriata dei suoi dati, la persona si fa merce tra le altre. Libertà e democrazia, dunque, rischiano d'essere schiacciate nella tenaglia di sicurezza e mercato.

Terra di diritti, regione del mondo dove più alta è la tutela comune della privacy, proprio in questo momento l'Europa deve essere consapevole di avere la responsabilità di poter essere un attore decisivo in questa grande partita politica. Nel momento drammatico del conflitto seguito all'11 settembre, nel febbraio del 2002, la più grande organizzazione americana per la tutela dei diritti civili, l'American Civil Liberties Union, pubblicò un documento con il quale invitava l'amministrazione americana ad abbandonare la pretesa di imporre all'Europa le proprie regole, facendo propri, invece, i principi di libertà che in quel momento gli europei difendevano. Oggi dovremmo avere memoria di quelle parole, creando le condizioni perché possano ancora essere pronunciate.

STEFANO RODOTÀ

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