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27 novembre 2016 7 27 /11 /novembre /2016 16:47
19 ottobre 2016
Euroeccesso: perché il surplus commerciale dell’Europa è un pericolo per il mondo
 

Il surplus europeo delle partite correnti è il più grande surplus mai generato nella storia dei mercati finanziari globali. Un recente rapporto di Deutsche Bank spiega perché questo rappresenta un serio pericolo, per l’Europa e per il mondo.

Per la Germania, il suo enorme surplus commerciale – il più alto al mondo – è un motivo di orgoglio nazionale. La dimostrazione della superiorità del suo modello economico. Ma, come ormai sostengono anche vari economisti tedeschi (vedi il nostro recente articolo Germania: il vero malato d’Europa), si tratta di una pericolosa illusione: il “miracolo” delle esportazioni tedesche non è tanto da imputare a una maggiore “produttività” o “efficienza” del sistema tedesco, quanto piuttosto a una ferrea politica di compressione dei salari e della domanda interna che ha permesso al paese di acquisire un vantaggio competitivo rispetto ai suoi partner europei. E al fatto che gli altri paesi del continente non hanno seguito la stessa politica salariale, ma hanno invece mantenuto un livello di domanda tale da poter assorbire le esportazioni tedesche, accumulando così ampi disavanzi commerciali. Anche in virtù di bolle speculative alimentate proprio dal settore finanziario tedesco, che hanno permesso ai consumatori di questi paesi di continuare ad importare prodotti della Germania.

Da cui si evince quanto sia fallace l’idea che il “modello tedesco” possa rappresentare un modello per l’eurozona o per l’Europa nel suo complesso, poiché risulta evidente che esso può funzionare solo se c’è qualcuno che si fa carico di trainare le esportazioni, stimolando la domanda interna. Eppure uno degli scopi, più o meno espliciti, delle misure di austerità imposte ai paesi della periferia in questi anni – che non hanno agito solo sul fronte della domanda pubblica per mezzo di tagli alla spesa statale ma anche sul fronte della domanda privata per mezzo di politiche di flessibilizzazione dei mercati del lavoro e compressione/riduzione dei salari reali (-23% in Grecia, -7% in Spagna, ecc.) – è stato proprio quello di imporre a tutta l’Unione, e in par­ti­co­lare all’eurozona, un modello stret­ta­mente neo­mer­can­ti­li­sta in cui la cre­scita è trai­nata in primo luogo dalle espor­ta­zioni (sulla base, appunto, del modello tede­sco).

Come era facilmente prevedibile, il risultato è stato un crollo della domanda aggregata in tutta l’area monetaria – a cui è da imputarsi il protrarsi della depressione nel continente – e, di conseguenza, del volume degli scambi intra-europei, a danno anche della Germania, che è però riuscita negli ultimi a riorientarsi con notevole successo verso il mercato extra-europeo. Questo ha determinato un riequilibrio piuttosto drastico della bilancia dei pagamenti intra-europea (soprattutto a causa del calo degli import nei paesi della periferia), ma ha visto aumentare enormemente il surplus dell’eurozona nel suo complesso – imputabile in buona parte alla Germania, seguita dall’Olanda, dall’Italia (in positivo dal 2013) e dall’Irlanda –, determinando uno squilibrio ancor più destabilizzante tra l’Europa e il resto del mondo.

Proprio questo squilibrio è l’oggetto di un recente report di George Saravelos di Deutsche Bank che lancia il modello dell’“euroeccesso”, che si riferisce al “gigantesco avanzo delle partite correnti dell’eurozona”, causato da una “mancanza di domanda interna” e dall’“enorme eccesso di risparmio dell’Europa”. Come si legge nel report:

La migliore evidenza dell’euroeccesso è l’alto tasso di disoccupazione associato a un surplus delle partite correnti di livello record. Sono entrambi un riflesso dello stesso problema: un eccesso di risparmio rispetto alle opportunità di investimento. L’euroeccesso è particolare per una sola ragione: è molto, molto grande. Con un valore di 400 miliardi di dollari all’anno, il surplus europeo delle partite correnti è superiore a quello della Cina negli anni 2000. Se mantenuto, sarebbe il più grande surplus mai generato nella storia dei mercati finanziari globali. L’euroeccesso significa che, in quanto principali risparmiatori al mondo, gli europei determineranno i flussi di capitali internazionali per il resto del decennio. L’Europa diventerà il più grande esportatore di capitali del 21esimo secolo. Questo perché un surplus delle partite correnti implica un deflusso di capitali verso l’estero. Per questo il quantitative easing non servirà a niente se non a rinforzare questo squilibrio globale.

saravelos1

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Secondo Saravelos, questa politica non è sostenibile nel medio-lungo termine perché 1) l’enorme deflusso di capitali dall’Europa determinato dall’euroeccesso rischia di avere effetti destabilizzanti sull’economia globale e di deprimere ulteriormente la domanda europea; e 2) il contesto dell’economia mondiale, caratterizzato da una stagnazione generalizzata di lungo periodo (ulteriormente aggravata dalla mortificazione della domanda europea causata dalle politiche di austerity), non è adatto a una crescita trainata dall’export. “L’Europa deve affrontare un problema di domanda interna, non di domanda estera”, è la conclusione di Saravelos, che non possiamo che condividere.

L’implicazione del report è chiara: così come la politica mercantilista tedesca non è sostenibile su scala europea, lo è ancor meno su scala globale, soprattutto se applicata all’eurozona nel suo complesso. Il motivo è semplice: la carenza di domanda nell’eurozona significa meno crescita nel resto del mondo e dunque meno esportazioni per l’Europa. A dimostrazione di ciò, di recente anche la Germania ha registrato un crollo delle esportazioni (come era stato previsto da molti). Come ha scritto di recenteWolfgang Münchau sul Financial Times: “Il problema principale della Germania è la sua eccessiva dipendenza dagli export, che la rende dipendente da bolle speculative in altre parti del mondo”. A fine 2013, anche il dipartimento del Tesoro statunitense ha criticato duramente il rifiuto della Germania di incrementare la domanda interna (attraverso aumenti salariali e maggiori investimenti) e di contribuire così a un riequilibrio degli squilibri commerciali europei e globali. Riportiamo quello che dice il documento del Tesoro americano:

Per facilitare il processo di aggiustamento all’interno dell’eurozona, i paesi con un persistente surplus nella parte corrente della loro bilancia dei pagamenti (BDP) dovrebbero agire per aumentare la domanda interna e così abbassare il loro surplus. La Germania ha mantenuto un alto surplus nella BDP dall’inizio della crisi finanziaria e nel 2012 ha addirittura avuto un surplus superiore a quello della Cina. L’anemico tasso di crescita della domanda interna della Germania e la sua dipendenza dalle esportazioni hanno impedito, a loro volta, un riaggiustamento nello stesso periodo negli altri paesi dell’eurozona, costretti a ridurre la domanda e comprimere le importazioni per ritrovare un equilibrio. Il risultato netto è stato quello di innestare una fase deflazionistica sia all’interno dell’euro che nell’economia mondiale. Una crescita più forte nella domanda interna dei paesi in surplus dell’eurozona, soprattutto in Germania, aiuterebbe tutta l’area dell’eurozona a un duraturo riequilibrio. La Macroeconomic Imbalances Procedure (MIP) dell’Unione europea sviluppata per tenere sempre più sotto controllo le economie europee dovrebbe segnalare questi squilibri, anche se la procedura rimane in qualche modo asimmetrica e non presta nessuna attenzione a paesi con un ampio e stabile surplus come la Germania.

Purtroppo, ad oggi, la Commissione europea – forse perché troppo presa a lanciare strali contro paesi come l’Italia o Francia, rei di non ridurre abbastanza rapidamente i loro deficit pubblici (nonostante nel caso dell’Italia esso sia al di sotto del limite di Maastricht, al cui posto oggi vigono le regole molto più stringenti del Fiscal Compact) – non ha ancora avviato nessuna procedura contro quei paesi come Germania e Olanda che registrano un surplus, rispettivamente del 7.5% e del 10.5% del Pil, ben al di sopra del “tetto massimo” del 6% del Pil stabilito dalla Commissione. Anzi: proprio l’accordo di libero scambio che gli Usa stanno negoziando con l’Ue, il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip), rischia di acuire ulteriormente questi squilibri. Come spiega Werner Raza, direttore dell’Öfse, uno dei più autorevoli centri di ricerca austriaci:

Il Ttip è un tassello fondamentale della strategia “Global Europe” della Commissione europea, che sottolinea la necessità di rendere l’Ue più “competitiva” sui mercati internazionali e punta ad imporre a tutta l’Unione, e in particolare all’eurozona, un modello strettamente neomercantilista in cui la crescita è trainata in primo luogo dalle esportazioni (sulla base del modello tedesco). Nella misura in cui il modello neomercantilista è strettamente legato alla flessibilizzazione e alla precarizzazione dei mercati del lavoro, alla detassazione delle imprese e alla compressione dei salari in quanto elementi chiave delle cosiddette “riforme strutturali”, direi che c’è un chiaro legame tra il Ttip e lo smantellamento dello stato sociale a cui abbiamo assistito in questi anni. Il Ttip favorisce e acuisce questo processo alterando ulteriormente l’equilibrio di potere tra le forze sociali e le grandi imprese, ovviamente a favore di queste ultime, e istituzionalizzando definitivamente le riforme neoliberiste introdotte negli ultimi vent’anni, soprattutto in materia di privatizzazione dei servizi pubblici.

George Saravelos, in conclusione al suo report, dice che perseverando su questa strada l’Europa si avvia a diventare “la nuova Cina”. Non è proprio una cosa di cui andar fieri. Ma è la conseguenza inevitabile di una competizione globale giocata tutta al ribasso su costi e salari, in cui il “modello cinese”, come sappiamo bene, è superiore anche a quello tedesco.

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27 novembre 2016 7 27 /11 /novembre /2016 16:35
2 febbraio 2015
I dati del debito pubblico italiano

#prideandprejudice 1/6 Roma, 18 novembre

- Da oggi e fino a domenica prossima il Ministero dell’Economia e delle Finanze pubblicherà ogni giorno un dato sulle dimensioni dell’Italia che risultano virtuose nel panorama economico internazionale. Sei dati contro alcuni pregiudizi che circolano dentro e fuori i confini nazionali tra operatori e istituzioni economici e finanziari. Oggi pubblichiamo la serie storica dell’avanzo primario (il saldo del bilancio nominale al netto degli interessi sul debito pubblico) degli ultimi vent’anni, dal 1995 al 2014. In questo periodo l’Italia registra un avanzo di bilancio per ben 19 anni su 20, mentre le altre principali economie europee hanno registrato un disavanzo almeno 7 volte. I dati vengono pubblicati in forma di infografica su Twitter con l’hashtag #prideandprejudice. Chi vuole segnalare un dato che rappresenta una dimensione economica nella quale l’Italia fa meglio di altri può scrivere a ufficio.stampa@tesoro.it La serie dei dati pubblicati progressivamente è disponibile sul sito al seguente collegamento #prideandprejudice. 1/6 Avanzo primario          (Fonte: Ameco - Commissione Europea)

Tesoro, Italia tra primi per avanzo primario da 20 anni

"Italia immobile: è da 20 anni in cima a graduatoria avanzo primario". Lo twitta il Tesoro con il nuovo hashtag #prideandprejudice. E' il primo di "sei dati" che saranno pubblicati fino a domenica sulle dimensioni "virtuose" dell'Italia nel "panorama economico internazionale" contro "alcuni pregiudizi dentro e fuori i confini nazionali".

I dati del debito pubblico italiano

L' "orgoglio" di un Paese che ha performance virtuose che spesso non vengono messe in primo piano, contro il "pregiudizio" che circola fuori (ma anche dentro) i confini nazionali su un'Italia "immobile" che non riesce a superare i suoi limiti strutturali. E' l'operazione varata dal Tesoro che, citando Jane Austin, lancia su Twitter il nuovo hashtag #prideandprejudice e comincia pubblicando la serie storica dell'andamento dell'avanzo primario che vede l'Italia al top tra i principali Paesi Ue negli ultimi vent'anni. Una operazione per ridare smalto alla reputazione un po' ammaccata del Paese, considerata invece un 'asset' su cui investire per migliorare la percezione che degli italiani vizi e virtù si ha sia tra i connazionali sia sul piano internazionale. E che cade solo per coincidenza, assicurano al Mef, a sei giorni dal giudizio europeo sulle leggi di Stabilità, anche perché, si sottolinea, lo scambio di informazioni con la Commissione e con i tecnici di Bruxelles è costante e quotidiano, mentre l'obiettivo di questa campagna è di medio periodo e punta a dare maggiori elementi di valutazione ai media, e alle opinioni pubbliche, all'estero. Suddivisa in sei step, la comunicazione del Tesoro è stata avviata su uno dei punti di forza sempre citati dell'Italia, l'avanzo primario, registrato "per ben 19 anni su venti mentre le altre principali economie europee (il confronto viene fatto con Germania, Francia, Spagna e Regno Unito) hanno registrato un disavanzo almeno 7 volte". L'operazione vedrà la pubblicazione di un nuovo dato comparativo al giorno, da qui a domenica, per mostrare "le dimensioni dell'Italia che risultano virtuose nel panorama economico internazionale", spiega il Mef. Dati che andranno dal profilo di rischio della finanza pubblica più basso della media Ue, alla dinamica del debito pubblico (il 'tallone d'Achille' italiano) che, si fa notare, in altri Paesi ha avuto aumenti più rapidi, fino a un confronto sul rispetto del 'famoso' parametro del 3%. Tutte dimostrazioni, con tanto di tabelle tradotte in inglese, si spiega ancora, del fatto che l'Italia non è poi così "immobile" come viene dipinta e che oltre alle ombre, che restano tante e su cui il governo sta lavorando, ci sono anche molte luci che in particolare all'estero non sempre vengono colte. L’avanzo primario: la differenza tra spese dello stato e costi, al netto degli interessi sul debito, è un punto forte del comportamento del governo nella gestione del bilancio dello stato. Sono gli interessi sul debito che fanno volare l’indebitamento che è arrivato a un livello tale che procedendo così l’Italia non è più in grado di onorare. Allora prendiamo in considerazione la vicenda del debito pubblico Italiano: Interessi sul debito pubblico italiano http://1.bp.blogspot.com/-3uwYHZr8jCU/T5ahyWmNAgI/AAAAAAAABLY/w6EPL4m_8zw/s1600/debitopubblico.gif

 

I dati del debito pubblico italiano

Debito pubblico, Istat: in quattro anni spesi per interessi 318 miliardi di euro

 RQuotidiano | 23 aprile 2014

L'istituto di statistica ha trasmesso alla Commissione Europea la notifica sull'indebitamento netto e sul debito delle amministrazioni pubbliche. Da Bruxelles "non sono state espresse riserve". Anche Eurostat ha diffuso dati sui conti pubblici Ue: in Germania debito cala al 78,4% del Pil, per la Grecia primo avanzo primario in 10 anni.

Più di 300 miliardi in quattro anni. E’ quanto l’Italia ha speso, dal 2010 al 2013, per pagare gli interessi sul proprio debito pubblico. Il dato arriva dall’Istat, che ha trasmesso alla Commissione Europea la notifica sull’indebitamento netto e sul debito delle amministrazioni pubbliche italiane, in applicazione del protocollo sulla procedura per i deficit eccessivi annesso al Trattato di Maastricht. Da Bruxelles, ha fatto sapere l’istituto di statistica, “non sono state espresse riserve” su conti.

Nel 2010, su un debito che era di 1.851,26 miliardi, gli interessi passivi – nella versione che considera anche l’impatto delle operazioni sui derivati – sono ammontati a 71,15 miliardi, pari al 4,6% del Pil.

Nel 2013 la cifra è salita a 82,04 miliardi (5,3% del Pil), su un debito cresciuto però a 2.069,21 miliardi.

Il dato dello scorso anno, comunque, rappresenta un calo rispetto al record registrato nel 2012, con 86,47 miliardi di interessi (5,5% del Pil).

Si pongono con forza alcune domande dopo la pubblicazione degli interessi pagati sul debito pubblico(ndr.):

E' possibile per l'Italia, o meglio per i cittadini italiani continuare a caricarsi il fardello degli interessi?

Gli eventuali prestiti della UE non conviene siano fatti allo stato italiano e non dati al mercato secondario, cioé alle nanche (per la Federal Reserve e la banca centrale inglese avviene già così)?

perché i cittadini italiani devono pagare così  il 5-6% di interessi sul bilancio dello stato mentre  spende l'1% per migliorare   scuola e  università vanno ?

Questa cosa non é forse  meglio vada discussa in un dibattito dei media che coinvolga i cittadini che sono quelli che pagano? e poi il governo tira le fila e va a trattare a livello europeo per cambiare la filosofia deli suoi interventi e scaldare con una prospettiva di benessere e futuro per i giovani e cittadini europei?

I resposabili UE parlano di rigore; ma non vi sembra che dietro questa seria parola si nasconda una idea di economia ( In realtà di società - l'economia politica é una scienza sociale le cui misure e decisioni influiscono sula struttura sociale e sulla vita dei cittadini) di cui non si parla  apertamente, ma i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti? Questi sono i signori del dolore che parlano di rigore (che nessuno esclude come comportamenteo responsabile) per favorire le loro economie, ma cacciano nei guai i cittadini degli altri paesi con meno servizi, meno lavoro, meno ricchezza e meno futuro per i giovani. Negli anni della crisi gli interventi della UE   hann portato un maggior divario di reddito, di ricchezza, minor occupazione all'interno delle singole nazioni.

Nel mondo: L'1% della popolazione mondiale possiede una ricchezza uguale al rimanente  99% delle persone)

Alcuni principi affermati dall'ONU ci possono aiutare nella scelta:

L’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite non lascia dubbi: “In caso di contrasto tra obblighi contratti da membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto”. Tra gli obblighi contenuti nella Carta compaiono quelli definiti agli articoli 55 e 56 che impegnano gli stati a promuovere “un più elevato tenore di vita, il pieno impiego della mano d’opera, e soluzioni di progresso e di sviluppo economico e sociale [….] il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di sesso, razza, lingua o religione”. I rapporti delle Nazioni Unite ricordano costantemente l’imperativo di proteggere i diritti umani fondamentaliLa risoluzione n. 18 adottata nel 2004 dalla Commissione pr i diritti umani dell’ONU afferma: ”L’esercizio dei diritti fondamentali delle popolazioni residenti nei paesi indebitati, diritti come quelli dell’alimentazione, all’alloggio, al vestiario, al lavoro, all’istruzione, alla sanità, a un ambiente salubre, non possono essere subordinati all’applicazione delle politiche di austerità e di riforme economiche legate al debito.(risoluzione adottata dalla Commissione ONU per i diritti umani del 16 aprile 2004) Un concetto già affermato dalla stessa commissione nel 1980: “non è ammissibile che uno stato chiuda le sue scuole, le sue università, i suoi tribunali, in una parola chiuda i suoi servizi pubblici, gettando la popolazione nel caos e nell’anarchia, semplicemente per risparmiare denaro da utilizzare per rimborsare i creditori nazionali o internazionali. Come per gli individui, anche per gli stati ci sono dei limiti agli obblighi a cui devono essere sottomessi (rapporto annuale Commissione ONU peri diritti umani1980. Vol. I).

Quando il debito supera un certo livello anche se ci sono avanzi di bilancio, come è il caso dell’Italia, gli interessi accumulati superano l’atteggiamento virtuoso e si finisce di pagare il debito più volte nel tempo . E’ il classico meccanismo dell’interesse composto in base al quale si pagano gli interessi sugli interessi. Un meccanismo noto in ambito bancario anatocismo (interesse di usura ndr.), dal greco anà di nuovo, e tokòs, interesse. E quando il debitore ci casca dentro non ne esce più perché il debito si autoalimenta in una corsa senza fine.

Piketty

Qualcosa accadrà, insomma. Ma è sicuro che non sarà qualcosa di dirompente?

«Senta, guardiamo la situazione con realismo. La tensione in Europa è arrivata a un punto tale che in un modo o nell’altro scoppierà, entro il 2015. E tre sono le alternative: una nuova crisi finanziaria sconvolgente, l’affermazione delle forze di destra che realizzano la coalizione di cui stanno mettendo le basi incentrata sul Fronte Nazionale in Francia e comprendente la vostra Lega e forse i 5 Stelle, oppure uno choc politico proveniente da sinistra: Syriza, gli spagnoli di Podemos, il Partito democratico italiano, quel che resta dei socialisti francesi. Finalmente alleati e operativi.

Lei quale soluzione sceglie? Io la terza»

.Ma perché l’Italia deve destinare il 6% del proprio Pil al pagamento degli interessi e solo l’1% al miglioramento delle sue scuole e università? Una politica incentrata solamente sulla riduzione del debito è distruttiva per l’eurozona.

 

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22 novembre 2016 2 22 /11 /novembre /2016 17:02
THOMAS PICKETTY - La repubblica
Una analisi del voto  USA  che tiene  conto dell' aspetto economico (ndr,)
DICIAMOLO subito: la vittoria di Trump si spiega innanzitutto con l’esplosione delle disuguaglianze economiche e territoriali negli Stati Uniti, in atto da vari decenni, e con l’incapacità dei successivi governi di far fronte a questi problemi.
Per lo più le amministrazioni Clinton e Obama non hanno fatto altro che accompagnare l’avanzata delle liberalizzazioni e la sacralizzazione del mercato portate avanti con Reagan e quindi coi Bush padre e figlio — quando non l’hanno addirittura esacerbata, come nel caso della deregulation finanziaria e commerciale approvata sotto Clinton. L’incapacità delle élite politico — mediatiche dell’area democratica di trarre insegnamento dal voto per Sanders e dai sospetti di contiguità con la finanza hanno fatto il resto.
Hillary Clinton ha prevalso di stretta misura nel voto popolare (60,1 milioni di voti contro 59,8 per Trump, su una popolazione adulta totale di 240 milioni), ma la partecipazione delle fasce più modeste e di quelle giovanili è stata di gran lunga insufficiente per consentirle di vincere negli Stati chiave.
Sfortunatamente il programma del nuovo presidente non farà che aggravare la tendenza all’aumento delle disuguaglianze. Trump si prepara a sopprimere l’assistenza sanitaria faticosamente concessa sotto Obama ai lavoratori poveri, e a lanciare il suo Paese in una fuga in avanti nel dumping fiscale — mentre finora gli Usa avevano resistito a questa rincorsa senza fine proveniente dall’Europa — con la riduzione dal 35% al 15% del tasso d’imposta federale sui profitti delle società.
Oltre tutto, la connotazione etnica sempre più marcata del conflitto politico americano non promette nulla di buono per il futuro, se non si troveranno nuovi compromessi: in questo Paese il 60% dei voti della maggioranza bianca va strutturalmente a uno dei due grandi partiti, mentre l’altro ottiene più del 70% dei voti delle minoranze; e la maggioranza si avvia a perdere la sua superiorità numerica (il 70% dei suffragi espressi nel 2016 contro l’80% nel 2000 e il 50% da qui al 2040).
La principale lezione per l’Europa e il mondo è chiara: è urgente riorientare la globalizzazione. Le disuguaglianze e il riscaldamento climatico sono le principali sfide del nostro tempo. Da qui la necessità di stipulare trattati internazionali che consentano di rispondere a queste sfide promuovendo un modello di sviluppo equo e sostenibile.
Questi accordi di nuovo tipo potranno anche contenere, ove necessario, alcune misure volte a facilitare gli scambi commerciali; ma non dovranno più essere centrati sulla loro liberalizzazione. Il commercio deve ridiventare ciò che non avrebbe mai dovuto cessare di essere: un mezzo al servizio di obiettivi più elevati.
Concretamente, bisogna smettere di firmare trattati internazionali di abbattimento dei diritti doganali e di altre barriere commerciali che non includano, fin dai loro primi capitoli, una serie di regole quantificate e vincolanti, per contrastare il dumping fiscale e climatico, ad esempio sotto forma di tassi minimi comuni d’imposizione sui profitti delle società e di obiettivi verificabili per le emissioni di carbonio, con le relative sanzioni. Non è più possibile negoziare trattati di libero scambio in cambio di nulla.
Da questo punto di vista, l’accordo economico e commerciale globale (CETA) tra l’Unione Europea e il Canada è un trattato d’altri tempi, e va quindi respinto. È di natura strettamente commerciale, e non contempla nessuna misura vincolante sul piano fiscale o climatico, mentre dedica alla «tutela degli investitori» un’intera sezione che consente alle multinazionali di citare gli Stati davanti a corti arbitrali private, aggirando così i tribunali pubblici chiamati a giudicare la generalità dei cittadini.
L’inquadramento proposto è palesemente insufficiente, soprattutto riguardo alla questione cruciale della remunerazione dei giudici-arbitri, e condurrà a ogni genere di derive. Nel momento stesso in cui l’imperialismo giuridico americano raddoppia il proprio peso, imponendo alle nostre imprese le sue regole e i suoi tributi, quest’indebolimento della giustizia è più che mai aberrante.
La priorità dovrebbe andare invece alla costituzione di un potere pubblico forte, con un procuratore e un’istanza europea capaci di far rispettare le proprie decisioni.
Che senso aveva firmare gli accordi di Parigi, con l’obiettivo puramente teorico di limitare il riscaldamento a 1,5° — il che richiederebbe la rinuncia all’estrazione di idrocarburi come quelli ricavati dai sali bituminosi dell’Alberta, dei quali il Canada ha rilanciato di recente lo sfruttamento — per stipulare poi, a pochi mesi di distanza, un trattato commerciale realmente vincolante, in cui non si fa il minimo cenno a questo problema?
Un trattato equilibrato tra il Canada e l’Europa, volto a promuovere un partenariato di sviluppo equo e sostenibile, dovrebbe precisare innanzitutto gli obiettivi di emissione per ciascuna delle parti, e gli impegni concreti per raggiungerli.
Sulla questione del dumping fiscale e dei tassi minimi d’imposizione sui profitti delle società, si tratterebbe evidentemente di un cambiamento totale di paradigma per l’Europa, costruita fin qui come zona di libero scambio senza regole fiscali comuni.
Ma questo cambiamento è indispensabile. Che senso ha accordarsi su una base impositiva comune — il solo cantiere in cui l’Ue abbia fatto finora qualche piccolo passo in avanti — se poi ciascun Paese può fissare un tasso vicino allo zero per attirarsi le sedi delle imprese?
È tempo di cambiare il discorso politico sulla globalizzazione: il commercio è un’ottima cosa, ma per uno sviluppo sostenibile ed equo servono anche servizi pubblici, infrastrutture, sistemi di istruzione, formazione e salute, che a loro volta esigono tassi impositivi equi. Altrimenti sarà il trumpismo a prendersi tutto.
Traduzione di Elisabetta Horva
 

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12 novembre 2016 6 12 /11 /novembre /2016 16:36

 

Robot, lavoro e legalità: il miracolo giapponese che fa sperare Cosenza

Una startup calabrese ha affiancato Tokyo e Palo Alto come centro di ricerca del gigante Ntt. Assume i laureati locali. Ma resta un’eccezione

 MARCO PATUCCHI  -  La Repubblica

OSENZA. Immaginate di essere il manager di una multinazionale giapponese con 240mila dipendenti e 95 miliardi di fatturato nel mondo. Siete partiti da Tokyo e, dopo almeno uno scalo, siete atterrati all'aeroporto di Lamezia Terme. Poi avete percorso settanta chilometri della "Salerno-Reggio Calabria", quasi tutti a corsia alternata causa cantieri, circondati da mare e boschi bellissimi, ma anche da paesi dove spiccano case abusive o costruite a metà. Avete raggiunto Cosenza, l'avete attraversata e avete cercato una stradina di campagna ai piedi della Sila, nascosta da un centro commerciale e da capannoni anonimi. Lì, oltre un cancello senza insegne particolari, c'è la meta del vostro viaggio.

Non è la sceneggiatura di un film, perché quasi ogni mese in questa stradina dissestata della frazione di Rende arrivano davvero manager e tecnici giapponesi di NTT Data (società di informatica del gigante nipponico delle telecomunicazioni) che ha tre centri di ricerca a livello mondiale: uno a Tokyo, uno a Paolo Alto nella Silicon Valley californiana, e uno sorprendentemente a Cosenza. Insomma, una storia che sembra capovolgere molti stereotipi del nostro Paese: il Sud senza speranza, l'assistenzialismo, la fuga dei cervelli, il clientelismo, la malavita organizzata...Ma anche un'eccezione che fatica a diventare esempio, a contaminare il territorio che ha un tasso di disoccupazione del 22,5%.

"Qui a Cosenza abbiamo 200 dipendenti con un'età media di 33 anni, e ne assumeremo altri 150 entro il prossimo anno - racconta Emilio Graziano, vice presidente di NTT Data Italia - . Sono tutti ingegneri informatici usciti dalle università della Calabria e lavorano con contratti a tempo indeterminato, senza jobs act". Graziano (53 anni) è calabrese, come i coetanei Giorgio Scarpelli, anche lui vice presidente, e Roberto Galdini, senior manager: tutto è iniziato da loro e da un bilocale di Rende dove, nel 2001, avviarono una startup specializzata nella sicurezza informatica, trasferita poi ad un gruppo italiano di consulenza manageriale e, infine, alla NTT. Avrebbero potuto passare all'incasso, tra azioni e stock option varie, invece hanno scelto di rimanere nell'azienda che avevano creato: "Volevamo fare qualcosa per la nostra terra, ma senza l'alibi dei problemi del Sud - spiega Graziano mentre ci accompagna in uno dei reparti dello stabilimento -. Abbiamo rinunciato agli scambi politici e alla finanza agevolata puntando sull'università e sulla voglia di riscatto dei giovani calabresi. Un'alchimia, quella con l'ateneo, che funziona e che piace anche ai giapponesi: ormai ci considerano uno dei loro fiori all'occhiello. Abbiamo dimostrato che si può creare lavoro anche in Calabria. Ora tocca agli altri, ma mi sembra che intorno si stia muovendo poco".

L'università di Cosenza, fondata da Beniamino Andreatta e Paolo Sylos Labini, è qui vicino con i suoi cubi architettonici disegnati da Vittorio Gregotti e spalmati lungo i due chilometri del pontile sul fiume Crati. "La nostra offerta cresce - ci dice Domenico Saccà, docente al dipartimento di Ingegneria informatica - però la domanda innovativa del territorio è ferma. È un peccato, perché proprio così si battono mafia e arretratezza". Malavita che probabilmente resta alla larga da NTT anche perché l'azienda i profitti li fa fuori dalla Calabria. Quanto alla classe politica locale, Graziano assicura che sta migliorando, dopo che per decenni ha solo alimentato il bisogno: "Comunque se anche ci segnalano persone, noi assumiamo solo chi è bravo. Ce lo possiamo permettere perché ci siamo sottratti da sempre a certi meccanismi".

Così l'innovazione, per adesso, resta confinata dentro le mura dello stabilimento dove i team di giovani ingegneri lavorano ai vari progetti. Come i sistemi di cyber security per la comunicazione in gruppi ristretti di persone, utilizzati ad esempio dai consigli di amministrazione di società quotate o da aziende esposte allo spionaggio industriale e all'hackeraggio. "Sistemi di sicurezza - racconta Giorgio Scarpelli - che stiamo studiando anche per l'internet delle cose e per i filtri dei social network, un tema sul quale collaborano con noi sociologi, psicologi e legali". Poi la rete di pagamento attraverso smartphone realizzata per lo Stato di Malta, e le ricerche applicative sula Blockchain, piattaforma alla base della cripto-moneta Bitcoin, destinata ad allargarsi a molte altre reti. E ancora, lo sviluppo di "Sota", il robot interattivo arrivato dal Giappone dove viene usato per l'assistenza agli anziani e che alla NTT di Cosenza stanno sperimentando per ulteriori funzioni. "Hitoe", la t-shirt con sensori nel tessuto che misurano e trasmettono attraverso una app i parametri vitali del corpo: sarà testata dai piloti McLaren in Formula Uno, e servirà soprattutto per le emergenze in lavori tipo quelli dei pompieri, degli autisti, dei tecnici delle centrali elettriche, delle forze dell'ordine al centro di manifestazioni violente. La possibile estensione della realtà virtuale alla sensibilità tattile e alla percezione del peso e del movimento: uno sviluppo che, incrociato alla indoor navigation, potrà aiutare in situazioni di allarme come l'incendio in uno stabilimento o in ambienti disastrati ("Pensiamo a cosa è successo, ad esempio, in piena notte nel naufragio della Concordia", spiega Scarpelli).

Vedere tutti questi lavori è come il balzo in un futuro a portata di mano. Lo stesso futuro possibile avvistato dai neolaureati (ma sono stati assunti anche 15 giovani ancora impegnati nel percorso universitario) che incontri qui a Rende. "Appena laureata pensavo di dovermene andare dalla Calabria - racconta Annalisa, trentatre anni -. Era una scelta obbligata, qui chiudevano tante aziende. Poi sono entrata nella NTT che all'inizio mi ha mandato tre anni a Milano, in Germania e in Inghilterra: ora eccomi di nuovo a Cosenza, dove mi sono portata dietro anche il contatto con il cliente che curavo in Gran Bretagna". Francisco ha meno di 30 anni ed è nato in Argentina dove si era trasferita la famiglia calabrese: dopo esperienze in Sud America e ad Oxford è voluto tornare in Calabria. È lui che sta seguendo la sperimentazione nella Blockchain: "Qui ho trovato la situazione ideale: faccio ricerca e innovazione, ho uno stipendio stabile e ho recuperato le radici della mia terra". Più o meno gli stessi concetti espressi da Colomba, 22 anni: "Ho fatto uno stage appena diplomata, nel frattempo ho iniziato l'università a Cosenza. Terminata la formazione, sono stata assunta".

Lasciando lo stabilimento, dopo aver ascoltato le storie dei ragazzi, la sensazione "sliding doors" è forte. È come uscire da un'enclave condannata a rimanere isolata per sempre. "Guardi quella cartella - dice Roberto Galdini prima di congedarci indicando un faldone sulla scrivania - lì dentro c'è l'intero piano di investimenti pubblici progettato per la Calabria. Ce lo stiamo studiando, ma è tutto fermo per le lungaggini della burocrazia. Pensi che abbiamo aspettato sei mesi per avere qui allo stabilimento la fibra ottica, poi il giorno dopo hanno inavvertitamente tranciato un cavo e abbiamo dovuto sistemarlo da soli...>>

E' ora di andare nelbuioe sotto la sottile pioggiadella Sila, ci attende la Salerno Reggio Calabria.

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9 novembre 2016 3 09 /11 /novembre /2016 17:22
Stefano Masini torna sui banchieri della sua "trilogia": un romanzo del Capitale dell'ultimo secolo.
Un romanzo che non é la realtà, ma interessante (ndr.)
Massimo Giannini  - La Repubblica

Centonovantasette miliardi andati in fumo in Borsa. Otto volte la manovra economica appena varata dal governo Renzi. Più gli aumenti di capitale e i salvataggi. Per le banche, e quindi per i nostri portafogli, il conto di questi primi nove anni di Grande Recessione è devastante. In quel maledetto 2008 abbiamo perso, per sempre, un'innocenza che forse non abbiamo mai avuto. L'immagine plastica del crack sono i dipendenti licenziati dalla Lehman, che escono dal grattacielo della grande banca d'affari appena fallita con gli scatoloni in braccio. Il sogno americano diventato un incubo, e rinchiuso dentro un cubo di

cartone. Poche cose, per un viaggio verso un incognito nulla che, da allora e a vario titolo, ci accomuna tutti. Non solo sul piano economico e politico, ma anche su quello esistenziale e morale.

Quando la finanza si è mangiata l'industria? Perché siamo affogati nel gorgo dei debiti? Quanto pesa l'avidità dei banchieri, e quanto la cecità di noi clienti? Come sono potute esplodere tante disuguaglianze? Dov'e lo "Stato regolatore", di fronte alla Mano Invisibile del mercato? Nulla è più come prima, lo sappiamo e lo viviamo ogni giorno sulla nostra pelle. La letteratura della Crisi è sterminata. Ma chi l'ha indagata di più, e meglio, è Stefano Massini. La sua Lehman Trilogy di due anni fa (una sintesi strana ma perfetta tra sceneggiatura, saggio e racconto) è stata un evento, non solo drammaturgico, che non per caso ha acceso l'ultima fiamma di talento del compianto Luca Ronconi. Ora Massini torna sul luogo del delitto. Qualcosa sui Lehman ricalca le orme della Trilogia, ma la amplia e la arricchisce con nuovi capitoli e nuove digressioni, trasformando definitivamente il testo teatrale in un romanzo epico.

I Lehman raccontati da Massini, come i Karamazov di Dostoevskij nella seconda metà dell'Ottocento o i Buddenbrook di Mann ai primi del Novecento, sono i protagonisti di un'epopea familiare che ruota intorno a tre fratelli ebrei, ai figli e ai nipoti, ma la trascende in una dimensione simbolica infinitamente più grande. La parabola dei Lehman è l'epitome del capitalismo occidentale, della finanza globale del Terzo Millennio, che cresce a dismisura, sforna denaro, lo mangia, lo vomita, lo rimangia, e finisce per divorare se stessa. È la filosofia del nostro tempo, e del nostro universo economico irrimediabilmente banco-centrico. Il primo dei tre fratelli, Henry, sbarca a New York l'11 settembre 1844 (gli altri due lo seguiranno poi). Arriva da un villaggio della Germania, dopo una lunga traversata in mare a bordo del Burgundy. Da lì, materialmente, i Lehman entrano «dentro il carillon chiamato America». E da lì, idealmente, comincia il grande Libro del Capitale moderno, come il grande Libro della civiltà contemporanea comincia con lo sbarco del Mayflower dei Padri pellegrini. Un segno del destino, perché quello che noi borghesi dell'emisfero boreale ci siamo abituati a chiamare "progresso", in un modo o nell'altro, ha sempre inizio da una nave.

La ballata dei Lehman, che è anche la nostra ballata, attraversa 160 anni di storia. La piccola storia degli uomini, che incrocia la grande storia del mondo (dalla Guerra di Secessione ai due conflitti mondiali, dall'assassinio di Kennedy al Vietnam). Come nella Trilogia, la narrazione abbraccia tre generazioni, alle quali corrispondono tre fasi della vita della Lehman e dunque tre stadi evolutivi del capitalismo. La prima fase, Tre fratelli, è quella classica, pionieristica, dove lo spirito d'intrapresa di una famiglia askenazita porta i suoi protagonisti a fare ciò che sanno fare meglio: tuffarsi nel vasto mare degli affari. È lo stadio in cui il denaro è ancora importante per il suo valore d'uso, e serve a scambiare merci: cotone, petrolio, caffè.

La seconda fase, Padri e figli, coincide con la modernizzazione industriale: il sistema bancario diventa strumento per finanziare le infrastrutture, a partire dalle ferrovie. Emanuel fiuta la svolta che consentirà alla Lehman di avere «il mondo in palmo di mano: fare, quindi esserci, quindi osare, osare, osare...». Wall Street diventa il luogo dove piazzare obbligazioni, non solo ad altre banche, ma anche alla gente comune. È l'epifania della finanza di carta: il denaro comincia ad allontanarsi dal prodotto, e ad assumere la forma eterea di un fissato bollato. È l'esordio dell'economia del debito, che Philip spiega a suo padre un secolo prima del collasso dei mutui subprime: «Potremmo azzardare che il sistema dell'alta finanza ha solo da sperare che la gente non paghi i debiti: un prestito che fila liscio è certo un buon affare, ma un debito ceduto a un terzo è un'occasione eccezionale... ».

Si arriva così alla terza fase, L'Immortale, nella quale il denaro compie l'ultima metamorfosi: diventa pura astrazione, merce esso stesso, utile solo a creare altro denaro. Attraverso questo processo di contemporanea sacralizzazione e "spersonalizzazione", il denaro si suicida, generando la Grande Crisi del '29. E qui Massini ha la sua intuizione più originale: il gigantesco falò delle vanità di "quegli" anni, così sorprendentemente uguale al fuoco di "questi" anni, nasce certo dalla fame di ricchezza degli speculatori che abitano casa Lehman. Dalla fame dei Sigmund («chi gli sta accanto ha iniziato a sperimentare sulla sua stessa pelle i frutti di un palestra disumana, improntata al cinismo più bieco...»). Dalla fame degli Arthur («ormai non concepiva niente se non come parte di un sistema di costi-ricavi dice tutto, perfino l'aria, altro non era che una voce contabile iscritta nel libro mastro della Suprema Cassa...»).

Ma la fenomenologia di Gordon Gekko e Jordan Belfort non basta a spiegare i collassi finanziari di ieri e di oggi. Nel mare dove hanno nuotato i Lehman ci sono stati e ci sono tanti pesci piccoli che si sono illusi di diventare squali, senza averne il fisico. Quelli che hanno creduto a un miracolo impossibile, chiedendo a Philip «Mister Lehman, ho 10mila dollari nel mio vecchio borsello, ma vorrei che diventassero almeno 20mila, mi hanno detto che voi moltiplicate i soldi, e allora in che cosa posso investire?». Quelli che perderanno tutto. Nel 1929 come nel 2008 o nel 2015. Con i "titoli-salsiccia" della Lehman, o con le azioni di Banca Etruria. Il Grande Crack, in ogni tempo, nasce da questo patto scellerato tra "i lupi di Wall Street", sempre più spregiudicati e ricchi, e gli agnelli sacrificali del ceto medio, che provano a rompere il suo asfittico perimetro di classe cullando «il sogno di sempre: avere subito e pagare dopo». I Lehman, come tutti i banchieri della terra, non fanno altro che vendere quel sogno alla moltitudine anonima in cerca di status. Lo fanno — come spiega il direttore addetto al "lunch del lunedì" tra Bobbie Lehman e i partner — inventando il marketing, e raccontando al popolo che «chi compra ci guadagna e chi vende sta perdendo... solo chi compra vince la guerra e siccome siamo tutti in guerra chi compra sopravvive ». Dunque Bertolt Brecht non aveva poi così ragione, quando crocifiggeva solo i banchieri in Santa Giovanna dei macelli.

Nella ballata dei Lehman orchestrata da Massini un giro di pista tocca anche a noi, poveri cristi. Vittime del credito bancario, ma alla fine anche carnefici di noi stessi e della nostra ansia da "prestazione sociale". La carne è debole, in alto come in basso. E su questa debolezza prosperano, consapevolmente, i vecchi e i nuovi Lehman.

Questa loro storia riflette un mutamento di paradigma religioso. I Lehman che a metà Ottocento affiggono la targa al 119 di Liberty Street sono un nucleo familiare compatto, nutrito dai versetti della Torah. I Lehman che nel 1980, alla vigilia del decennio dorato degli yuppies, cedono la maggioranza ad American Express, sono un pulviscolo familiare disilluso, transitato a un'altra religione. Dal Talmud allo Sherman Act. Dall'ebraismo al capitalismo. Il passo è più breve di quanto si possa immaginare. I riti ebraici finiscono sopraffatti dai miti laici. Ormai un Lehman può morire, e la banca può limitarsi a ricordarlo con «tre minuti di silenzio », perché «chiudere per lutto equivale a un danno di due milioni ». Fin qui arriva la secolarizzazione indotta dalla fede nel dio nuovo. Non più Jahve: Mammona.

La trasformazione non è priva di tormenti. Il botta e risposta tra Philip e il cugino Herbert è magnifico: «Cos'è il mondo, se non mercato? Gli esseri umani non possono vivere senza denaro... Non esiste un solo aspetto dove non regni il vendere-comprare. Dunque non capisco, cos'è che non ti piace?» «Ti ostini a non voler capire il punto... tu non usi il tuo portafoglio personale, usi soldi non tuoi, ma della gente... Non ci nascondiamo: ci danno i loro soldi perché tenerli in casa non è sicuro e noi difatti non glieli chiudiamo in cassaforte... dimmi cos'è se non una commedia: quei soldi che loro non vogliono rischiare non li usi, tu, per puntarli a poker?» «Non mi sono mai seduto a un tavolo verde...» «Puntare sulle azioni non è la stessa cosa? Cosa fate a Wall Street, se non giocare?».

Ma indietro non si torna. L'epilogo è scontato. È proprio quel "gioco" che porta i Lehman alla bancarotta, il pianeta nel baratro e noi, lontani parenti d'Oltreoceano, a pagare appunto quel "conticino" da quasi 200 miliardi. E non è ancora finita. Volendo allargare l'orizzonte spazio-temporale, ci sarebbe da chiedersi dov'erano gli arbitri, mentre il sistema bancario truccava le partite dell'ultimo ventennio, da Cirio a Parmalat, da Popolare di Lodi ad Antonveneta, da Montepaschi a Carige. Ci sarebbe da chiedersi come riscrivere le regole, e come farle rispettare da tutti i giocatori in campo. Ma a questo, giustamente, Massini non arriva. Sarebbe materia per la politica, se ancora avesse dignità di parola. Sarebbe materia per la sinistra, se solo avesse un suo "racconto della crisi".

Sono raccontati come i Karamazov di Dostoevskij nella seconda metà dell'Ottocento o i Buddenbrook di Mann ai primi del Novecento.

Quando la finanza si è mangiata l'industria? Perché siamo affogati nei debiti? È colpa degli speculatori o della cecità dei clienti?

 IL LIBRO Qualcosa sui Lehman

di Stefano Massini ( Mondadori pagg. 780 euro 24)

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6 novembre 2016 7 06 /11 /novembre /2016 21:00
Ferrante Francesco - La Voce-info

Quanto rende il capitale umano

La bassissima crescita italiana degli ultimi venti anni è stata attribuita a varie cause: il peso della fiscalità, l’inefficienza del settore pubblico, gli effetti dell’euro, l’eccesso di regolazione dei mercati, la scarsa qualità del sistema formativo e la conseguente mancanza di capitale umano qualificato. Poca attenzione è stata dedicata agli effetti che sulla produttività hanno le pratiche di reclutamento e gestione delle risorse umane da parte del sistema imprenditoriale. Eppure, la letteratura economica recente ha evidenziato come sia proprio questo uno dei fattori più importanti nel determinare le differenze tra paesi.
Al netto degli effetti del sistema fiscale, che pesa molto nei paesi del Nord Europa dove sono fortemente redistributivi, un indizio indiretto della bontà di questi meccanismi è fornito dal rendimento effettivo delle competenze alfanumeriche della popolazione (figura 1).

Figura 1

Figura1
Il rendimento viene calcolato attraverso l’incremento percentuale delle retribuzioni corrispondente alla variazione delle competenze alfanumeriche, così come misurate attraverso i test somministrati alla popolazione adulta (indagine Ocse-Piaac – Programme for the International Assessment of Adult Competencies).
Il vantaggio dell’indicatore del rendimento del capitale umano è che non risente dei problemi connessi all’utilizzo del titolo di studio (ad esempio, la variazione percentuale delle retribuzioni legata al possesso della laurea rispetto al diploma di scuola media superiore) accusato, soprattutto in Italia, di non essere capace di cogliere le sottostanti abilità effettivamente possedute dai lavoratori.
Il rendimento dovrebbe dunque crescere nei sistemi più efficienti nell’utilizzare le proprie risorse umane e ciò dovrebbe avere effetti sulla crescita. E infatti in un recente esercizio si mostra come vi sia una relazione statisticamente forte tra il rendimento delle competenze misurate attraverso il test Ocse-Piaac e la crescita registrata da 32 paesi. Non sorprende scoprire che l’Italia si trova nelle ultime posizioni in classifica: ha fatto registrare un rendimento tra i più bassi che sembra spiegare il più basso tasso di crescita, tra il 1990 e il 2011, all’interno dei 32 paesi (figura 2).

Figura 2

Figura2

Aziende piccole e poco meritocratiche

Le distorsioni nelle pratiche di reclutamento e di gestione delle risorse umane nel settore pubblico sono un dato spesso richiamato e per certi versi assodato. Minore consapevolezza si riscontra, invece, sul contributo che il settore privato dà a quest’esito negativo.
Per legittimare questa lettura delle possibili cause della mancata crescita italiana è necessario fare un passaggio logico: occorre verificare cosa sia cambiato rispetto al passato – prima del 1990, quando l’Italia cresceva – che possa spiegare il mutato ruolo del capitale umano. Le chiavi del cambiamento sono rispettivamente la globalizzazione e la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Entrambi i processi hanno reso centrale nell’economia il ruolo delle risorse umane e della capacità di valorizzarlo. Una capacità, quest’ultima, che deve essere presente soprattutto nelle classi dirigenti dei paesi, sia in ambito pubblico sia in ambito privato.
Bruno Pellegrino e Luigi Zingales hanno attribuito la mancata crescita italiana proprio alla scarsa meritocrazia nel reclutamento del personale da parte delle piccole imprese italiane. Questa lettura trova conferme in alcuni contributi che mostrano come uno dei tratti distintivi del nostro sistema imprenditoriale sia la prevalenza di piccole e medie aziende a gestione famigliare che si caratterizzano per stili, sia nelle pratiche di reclutamento che di gestione, poco adatti alla valorizzazione delle risorse umane: in particolare, la tendenza a utilizzare meccanismi di reclutamento informale e a selezionare i manager all’interno della famiglia, l’adozione di modelli organizzativi molto centralizzati, lo scarso uso di sistemi retributivi premiali. Ulteriore sostegno alla tesi proviene dal lavoro di Fabiano Schivardi e Roberto Torrini dove si mostra che un imprenditore laureato – in un paese come l’Italia che ne ha una ridotta quota – assume il triplo di laureati rispetto a uno non laureato.
Tutto ciò dovrebbe indurci a pensare che riforme del sistema d’istruzione, motivate dall’idea che la causa della mancata crescita sia l’inadeguatezza del capitale umano, sono destinate al fallimento o ad accentuare il fenomeno della “fuga dei cervelli” se non sono accompagnate da politiche industriali volte a riqualificare il sistema imprenditoriale e la sua capacità di valorizzare la conoscenza.

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20 ottobre 2016 4 20 /10 /ottobre /2016 20:37

Il tracollo delle nascite

L’Istat certifica un calo senza precedenti: da gennaio a giugno i nuovi nati sono diminuiti del 6%, il triplo rispetto a un anno fa

Questo fatto avrà delle conseguenze economiche sul PIL. Con meno lavoratori come si sosterrà l'aumento dei pensionati ? (ndr.)

MICHELE BOCCI  - La REpubblica

È come se dal primo gennaio al 30 giugno di quest'anno a Roma non fosse nato neppure un bambino. Sale parto sbarrate, consultori vuoti, ecografi spenti negli ambulatori dei ginecologi: tutto chiuso. E ancora non basta. Nella capitale infatti in sei mesi vengono al mondo circa 12mila bambini, e nell'intero Paese durante lo stesso lasso di tempo del 2016 ci sono state 14.600 nascite meno dell'anno prima. Cioè si è avuto un calo mai registrato in epoca recente, del 6%. In numeri assoluti significa 221.500 nuovi nati contro i 236.100 di un anno fa.

La riduzione della natalità già andava a passo sostenuto, ora sta diventando una corsa e i dati pubblicati ieri dall'Istat riguardo alla prima parte del 2016 disegnano un futuro davvero fosco dal punto di vista demografico. Certo, sono i primi sei mesi, teoricamente da luglio a dicembre potrebbe cambiare qualcosa in meglio ma appare molto difficile che si risalga troppo la china, vista la tendenza avviata ormai da molti anni. E del resto potrebbe anche accadere il contrario, cioè esserci una riduzione più sostenuta. Se si analizza quanto accaduto nel 2015, ad esempio, il calo rispetto al 2014 dopo i primi sei mesi era di circa il 2% e alla fine dell'anno è arrivato al 3, portando il dato assoluto a 485mila nati, per la prima volta nella storia d'Italia sotto il mezzo milione. Ebbene, se si proiettano i numeri disponibili per il 2016 su tutto l'anno ci si ferma tra i 450 e i 460mila nuovi italiani. Sono solo stime ma danno l'idea di cosa possa succedere nel giro di un lustro se si continua ad andare avanti di questo passo.

Il 2015 era stato anche l'anno del boom della mortalità, con ben 49mila decessi in più rispetto al 2014 (+8,2%). Un aumento mai registrato che i demografi hanno spiegato dicendo che probabilmente freddo, influenza e poi caldo avevano portato al decesso moltissimi anziani fragili. Persone che in condizioni più favorevoli sarebbero vissute un po' di più. A guardare i dati del primo semestre 2016 la teoria sembrerebbe azzeccata. Si osserva infatti una forte riduzione rispetto all'anno precedente, di ben 24.600 morti, cioè il 7%. I valori tornano così in linea con quelli del 2014, cioè prima del picco, anche se restano un po' superiori.

Il cosiddetto "saldo naturale", cioè la differenza tra nati e morti, l'anno scorso aveva toccato il rosso record di 162mila persone perché i decessi erano stati 647mila. Quest'anno il valore negativo sarà dovuto piuttosto al calo delle nascite, e potrebbe attestarsi tra i 120 e 130 mila cittadini in meno. Il secondo valore più alto da quando questa voce è finita in rosso, cioè dal 1983.

Saranno gli esperti a dire cosa sta succedendo nel 2016. Di certo gli allarmi sulla denatalità lanciati da più parti, dai demografi come dai medici, dagli economisti come dal ministero della Salute, che poi ha completamente sbagliato la campagna con la quale voleva porre all'attenzione di tutti il problema, erano molto fondati. I dati finali faranno comprendere anche quale ruolo hanno avuto gli stranieri nel nuovo, marcatissimo calo.

A fronte di coppie italiane che ormai da tempo hanno iniziato a fare sempre meno figli, gli immigrati avevano in qualche modo impedito il tracollo e ormai negli ultimi anni rappresentano almeno il 20% di chi dà alla luce un bambino

in Italia. Il timore dei demografi è che anche loro stiano cambiando abitudini in fatto di maternità e parto, perché interessati da un fenomeno che almeno dal 2008 ha origine anche nella crisi economica e quindi riguarda tutti coloro che vivono in Italia, da ovunque provengano.

I PRIMI  6 MESI DELL'ANNO  A CONFRONTO
2014         44.969            37.808          40.289           38.480             40.026           39.940

2015         41.861            36.853          39.727            38.238             39.329          40.084        

2016        38.649            37.823            38.338           32.824            36.573           37.295

                GENNAIO    FEBBRAIO        MARZO       APRILE           MAGGIO       GIUGNO

IL TASSO DI FERTILITA'    (Numero medio dei figli per donna)

2005            1,34

2006                1,37

2007                   1,40

2008                      1,45

2009                      1,45

2010                       1,46

2011                      1,44

2012                     1,42

2013                    1,39

2014                1,37

2015              1,35

 

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10 ottobre 2016 1 10 /10 /ottobre /2016 08:39
Cuochi, creativi e studiosi in cerca di opportunità Ritratto dei nuovi immigrati

Tonia Mastrobuoni – La Repubblica

Alla stazione di Wolfsburg la statua di un uomo con una valigia accoglie le migliaia di viaggiatori e di pendolari che arrivano ogni giorno nella città-fabbrica della Volkswagen. La statua si chiama "L'emigrante". Il titolo è in italiano. E non perché sia italiano lo scultore, Quinto Provenzani. Ma perché la città della Bassa Sassonia ha voluto rendere omaggio alla più grande comunità straniera di "Gastarbeiter", di operai venuti qui a spaccarsi la schiena alle catene di montaggio del marchio- simbolo della Germania. Wolfsburg è un luogo tipico dell'emigrazione "vecchio tipo", degli italiani che dagli anni '50 partivano alla volta del Paese più ricco per garantire un sostentamento alla famiglia. Qui ci sono persino un'Agenzia consolare e un Istituto italiano di cultura.

Complice la Grande crisi, i nostri connazionali stanno tornando: nel 2013 a Wolfsburg ne sono arrivati in 331, l'anno successivo 480 e l'anno scorso 413. Negli anni precedenti, spiega Edith Pichler, professoressa dell'Università di Potsdam, tra le maggiori studiose dell'argomento, gli arrivi a Wolfsburg si erano quasi azzerati. Secondo la sociologa italiana, al ritorno degli italiani nella città della Volkswagen potrebbero aver contribuito i servizi andati in onda anche in Italia sui 50 anni della presenza della comunità italiana a Wolfsburg, nel 2012: «le testimonianze raccolte parlavano di una città con ottime possibilità di lavorare e di stipendi da 2000 euro al mese». Un miraggio, per molti giovani.

Wolfsburg è una metonimia, la pars pro toto di una tipologia di migrante italiano in Germania. Pichler continua a distinguerli in diversi gruppi. Da un lato ci sono i lavoratori che arrivano nelle aree industriali come Wolfsburg, ma anche nel Baden-Wuerttenberg o nella Ruhr, nelle zone delle fabbriche, del manifatturiero. Ma poi c'è una "nuova" migrazione che preferisce le grandi città come Berlino e che spesso ha caratteristiche molto diverse.

Gli ultimi anni hanno mostrato in generale che c'è un enorme boom di arrivi di italiani in Germania. Secondo l'Ufficio federale di statistica (Destatis) ben 57.191 italiani si sono trasferiti in Germania nel solo 2015, in crescita dai 56.700 dell'anno prima e il doppio dai flussi del 2010, che ammontavano a 23.894 (i 16mila del rapporto Migrantes sono quelli iscritti all'Aire, Destatis registra anche gli italiani domiciliati o residenti in Germania). E il quadro generale, secondo l'Ufficio federale del Lavoro (Bundesagentur fuer Arbeit) ci dice che a settembre del 2015, il 68% della comunità italiana presente in Germania era impiegata nel terziario: il 15,9%, in particolare, nella gastronomia e un altro 14% nel commercio.

Ma dai dati dell'Ufficio federale del lavoro contenuti in un saggio che uscirà a breve emerge anche che gli italiani sono spesso precari e che spesso guadagnano poco. Nel paper si legge che «i nuovi migranti italiani sono impiegati spesso in lavori che non richiedono una particolare qualifica. Sono precari e guadagnano poco. Lavorano nell'industria delle pulizie, nei call center, in alcuni segmenti della ristorazione o nella cura». Ma il destino del precariato colpisce in generale gli stranieri. Sostiene il saggio che «gli stranieri lavorano molto più dei tedeschi con contratti a tempo».

Berlino, in questo contesto, è atipica. Pichler spiega che il gruppo di italiani arrivati nella capitale, in crescita costante, «si differenza molto dai gruppi di emigrati verso la Germania, formati in prevalenza da operai. Il carattere politico, economico e sociale ha favorito l'immigrazione di diversi tipi di italiani ». Lavorano nella ristorazione, ma anche nel terziario avanzato, sono creativi, artisti o studiosi. E c'è anche una certa volatilità della loro presenza a Berlino, come se sperimentassero, spesso. Di conseguenza, la loro probabilità di fallire e tornare in Italia è più alta che altrove. A fronte di 3.700 persone arrivate in città nel 2015, ad esempio, 2.000 persone hanno lasciato la capitale per tornare in patria.

Anche nella capitale si registra un costante aumento degli italiani, negli anni recenti della Grande crisi. Negli anni Ottanta e Novanta i nostri connazionali a Berlino erano circa 9.000. Alla fine del 2015 ne risultavano quasi quattro volte tanti, erano cioè 26.715 gli ufficialmente residenti, cui vanno aggiunte 6.172 persone di origine italiana ma con cittadinanza tedesca. Sono dunque 32.887 gli italiani a Berlino, una piccola città nella città.

 Berlino è ormai una città cosmopolita.

I LAVORI DI IERI E DI OGGI

Secondo i dati, il 68% della comunità italiana presente in Germania è impiegata nel terziario: il 15,9%, in particolare, nella gastronomia e un altro 14% nel commercio. Un ritratto profondamente diverso da quello del passato, quando gli italiani erano soprattutto operai.

 

Fare dell'Italia un paese per giovani è la sfida del futuro.

 

 

 

 

 

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10 ottobre 2016 1 10 /10 /ottobre /2016 08:34
L'agonia di Licata "Il paese muore scappano tutti"

Antonio Fraschilla  - La Repubblica

Entrando in paese un filare infinito di capannoni abbandonati e poi di "vendesi" affissi sulle case accompagna il visitatore. Arrivati in Comune, il sindaco allarga le braccia: «Che volete, scappano tutti: non c'è lavoro e quindi non c'è futuro — dice Angelo Cambiano — Anch'io ho un fratello e una sorella che sono andati a vivere fuori. Io sono rimasto, ma alla fine siamo stati travolti dalla crisi e a Licata non è rimasto nulla».

Benvenuti nel paese di chi va via: secondo l'ultimo report della Fondazione Migrantes oggi nel mondo vi sono 14mila licatesi iscritti all'anagrafe dei residenti all'estero, quasi la metà degli abitanti rimasti, circa 37 mila. «C'è un'altra Licata che è scappata via e non tornerà, se non per trascorrere le vacanze — dice padre Giuseppe Sciandrone, per cinquant'anni parroco della centralissima San Domenico — ma lo sa che quest'estate ho celebrato 52 matrimoni e nel resto dell'anno quasi nessuno? Erano tutti di licatesi andati all'estero ma che vogliono sposarsi nella nostra chiesa. Sembra di essere tornati agli anni del Dopoguerra: io me li ricordo gli abitanti che andavano via con la valigia di cartone, adesso vedo le stesse facce tristi solo che in mano hanno il trolley».

Licata è sempre più povera e qui i giovani, ma anche chi ha perso il lavoro, non hanno alcuna speranza: «Avevamo dei cantieri navali fiorenti, l'agricoltura di qualità, una delle marinerie più importanti del Mediterraneo — racconta Carmela Zangara, insegnante per decenni al liceo — tutto è scomparso in poco tempo e continua a scomparire. I laureati vanno via, ma anche le famiglie povere scappano: il centro storico è sempre più vuoto, le villette in periferia realizzate negli anni Ottanta sono in vendita. D'altronde, chi le deve comprare?».

Già chi le compra? Oggi più di un terzo del licatesi vive all'estero e torna soltanto per rivedere qualche giorno la propria terra, e poi via al Nord, in Francia e soprattutto in Germania. La scorsa estate un parroco di Colonia ha voluto a tutti i costi conoscere padre Sciandrone: «Sì, è venuto da me perché a Colonia ha una comunità di licatesi più grande della mia e tutti parlavano della loro infanzia trascorsa qui», dice il sacerdote da una settimana andato in pensione. I giovani scompaiono, le scuole hanno sempre meno alunni e un tessuto non solo economico ma anche culturale si assottiglia sempre di più: «Soltanto quest'anno ho ricevuto 40 nulla osta di bambini che con le loro famiglie hanno lasciato la scuola per andare all'estero — racconta Maurizio Buccole ri, dirigente dell'Istituto comprensivo Leopardi — da un anno a un altro abbiamo perso quasi cento iscritti. Ma anche chi si diploma poi va via».

Chi rimane fa una vita di sacrifici per sopravvivere. Come Giuseppe Cosentino, pescatore da una vita e padre di due figli ormai grandi che continuano il mestiere: «Hanno oltre 40 anni, cos'altro possono fare? — dice Cosentino — fanno i pescatori perché io gli ho insegnato questo mestiere. Una volta con la pesca a Licata si viveva benissimo, oggi si sopravvive, domani chissà». Per molti è già tardi per andare via da Licata.

AL SUD

A Licata, in provincia di Agrigento, chi risiede all'estero torna soltanto in estate per sposarsi

 

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10 ottobre 2016 1 10 /10 /ottobre /2016 08:23

Bergamo addio "Bella, ma fuori c'è il mondo”

Paolo Berizzi – La Repubblica

Lo sanno anche a Buckingham Palace che i bergamaschi sono "musoni e gran lavoratori": tra i dipendenti addetti alla manutenzione della residenza reale c'è un giovane di Verdellino, 8mila anime nella pianura orobica. Nel Regno Unito è in folta compagnia, perché di emigrati cresciuti nella provincia della "città dei Mille" ce ne sono 6mila (5 mila solo a Londra). Chiaramente non tutti sono iscritti all'Aire, nella cui graduatoria Bergamo occupa la terza posizione in Lombardia: 6.800 espatriati iscritti nel registro dei residenti all'estero in rapporto a una popolazione di 119.381 abitanti. Bergamo-Londra. Ma anche Berlino, Monaco, Parigi, Madrid, Punta Del Este.

Espatriano molto i bergamaschi, lasciano la loro ricca città a conferma che sì, esiste anche un'emigrazione per opportunità e per crescita. Non solo per necessità. «Sono arrivata a Berlino nel 2007 — racconta Roberta Annecchino, 39 anni, dj, laurea al Dams, padre cardiochirurgo, un figlio di 4 anni che si chiama Rocco — Perché ho fatto le valigie? Cercavo una dimensione all'avanguardia che non trovavo a Bergamo e nemmeno a Barcellona, dove ho vissuto un anno. A Berlino c'è tutto quello che mi interessa: uno stile di vita alternativo, attenzione e connessione con la natura, musica elettronica, meditazione». La vita berlinese di Roberta è fatta di molte cose e luoghi diversi: si divide tra la casa in Paul-Lincke- Ufer e un carrozzone del circo che ha acquistato e parcheggiato in un maneggio nel bosco a un'ora dalla città. «Bergamo è bellissima ed è un posto perfetto per tornarci ogni tanto. Ma Berlino è mondo». La sera suona nei locali, di giorno lavora al digital download Beatport e appena può si chiude in una falegnameria che realizza strutture per i kindergarten, le scuole per l'infanzia create dal pedagogista tedesco Friedrich Froebel. Sono più che altro storie al rialzo quelle dei bergamaschi che si sono trasferiti oltre confine. Da Nord a Sud. Ad Altea, provincia di Alicante, comunità autonoma Valenzana, nel forno del suo locale "Costa d'Altea" Gilberto Bresciani sforna pizze di cui i turisti del Nord Europa vanno ghiotti. «Servo anche i casoncelli — piatto tipico della cucina bergamasca — Gli svedesi impazziscono ». Bresciani è arrivato in Spagna 18 anni fa con la moglie Vicenta. Iscrizione all'Aire, lavoro sotto titolare e poi, tre anni fa, l'apertura del ristorante. «Sto bene. Vivo a 50 metri dal mare in un paese dove, su 24mila abitanti, metà sono stranieri. Di Bergamo mi manca la famiglia e l'Atalanta, che seguo in tv. Ma non ci tornerei».

Un altro che al rimpatrio non ci pensa proprio è Emanuele Crotti, ancora Berlino. È conosciuto come "la guida punk". Con il suo "Berlin&out" organizza visite underground. Eccoli i giovani che emigrano in cerca di nuove opportunità. Un «trend molto negativo» ragiona Gaetano Calà, direttore dell'Associazione nazionale famiglie emigrati. Ma molti sono felici. Carlo P., bergamasco, 32 anni, broker, lavora nella City. «Due anni qui e mi auguro di restarci almeno altri venti».

AL NORD

A lasciare Bergamo soprattutto giovani in cerca di migliori opportunità di carriera e realizzazione

 

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