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9 ottobre 2016 7 09 /10 /ottobre /2016 19:56

La grande fuga dall’Italia

CRISTINA NADOTTI- LaRepubblica

LE CLASSI DI ETA’

10-34 anni    39.410      35-40 anni   27.692     0-9 anni  13.807     50-64 anni  11.471

 

LE PRIME 5 REGIONI DI PARTENZA         20.088                  Lombardia

                                                                      10.374                    Veneto

                                                                         9.823                     Sicilia

                                                                         8.436                    Lazio

                                                                         8.199                    Piemonte    

GIOVANI (18-34)  Regioni di partenza

                           Lombardia                             6.985

                           Sicilia                                      4.092

                           Veneto                                    3.481

                          Campania                               3.003

                           Piemonte                               2.804  

GIOVANI 818-34)  Paesi di destinazione 

                            U.K.                                       7.837   

                           Germania                              7.004

                           Svizzera                                 4.202

                           Francia                                  3.188

                           Brasile                                    1.931

LA RELAZIONE: il rapporto italiani nel mondo è stato elaborato da Migrantes, la fonazione della CEI.

IL REGISTRO: chi non è in Italia più di 12 mesi deve iscriversi all’Aire, amagrafe degli italiani residenti all’estero.                     

    Nell’ultimo studio della Fondazione Migrantes la fotografia di un fenomeno che ha assunto ormai i connotati di un vero e proprio esodo

Dati sottostimati: sono in molti a non cambiare residenza per non perdere l’assistenza sanitaria Mattarella: creare le condizioni per il rientro.

SONO I CITTADINI ITALIANI ISCRITTI ALL’AIRE NELL’ULTIMO ANNO PER SOLO ESPATRIO

Continua a crescere il numero di nostri connazionali che decide di lasciare il paese per stabilirsi all’estero. Nel 2015 sono stati oltre 100mila, 6mila in più dell’anno precedente. E a fare le valigie sono soprattutto i giovani: un terzo delle persone che si sono trasferite ha tra 18 e 34 anni. Meta preferita: la Germania

ROMA – Via da casa, spinti dal bisogno, non solo da quello economico, talvolta anche dalla voglia di provare a se stessi e agli altri che si può far meglio di quel che l’Italia ha reso possibile. Soltanto nell’ultimo anno sono 107.529 gli italiani che si sono trasferiti all’estero, la maggior parte in Germania (16.568), il 36,7 per cento ha tra i 18 e i 34 anni, non è sposato (il 60,2 per cento) e per il 56,1 per cento è maschio. Il Rapporto italiani nel mondo

elaborato da “Migrantes”, la fondazione della Conferenza episcopale italiana, racconta un abbandono progressivo del nostro Paese basandosi sui dati dell’Aire, l’Anagrafe italiana residenti all’estero.

E se è sconfortante leggere che hanno lasciato l’Italia 6.232 persone in più rispetto al 2014, è ancor peggio considerare che i dati dell’Aire descrivono il fenomeno in modo parziale, perché il numero di chi lascia l’Italia ma non si iscrive, contravvenendo a un obbligo di legge, è molto alto. A provarlo è il confronto con le statistiche dall’estero: alla Germania risulta un numero quattro volte maggiore di italiani residenti per lavoro nel Paese rispetto a quelli iscritti all’Aire.

È una migrazione che ha come meta soprattutto l’Europa, Germania in testa, poi la Svizzera, la Francia, il Belgio e il Regno Unito. Il 69,2 per cento degli iscritti all’Aire nel 2015 ha preferito restare nel cuore del Vecchio Continente. Anche perché chi parte non si sposta più sulla base di informazioni ottenute da persone già emigrate, che garantiscono un punto d’appoggio, ora, sottolinea il rapporto, «molti iniziano a conoscere le opportunità che il mercato del lavoro internazionale offre già durante gli anni della laurea mentre altri decidono di emigrare dopo essersi formati », una perdita enorme per l’Italia, che investe sull’istruzione di chi poi metterà a frutto le sue competenze all’estero.

Nel 2015 è stata la Lombardia a vedere partire più persone, 20.088, e a Bergamo si registra il maggior numero di iscritti all’Aire in totale (47.332). Ma se si considera il rapporto tra popolazione residente ed emigranti è sempre il Sud (in totale 30.999 nel 2015) ad aver perso più giovani. Spiccano i numeri di Licata, in provincia di Agrigento, 37.797 abitanti in paese a cui si aggiungono i 15.903 iscritti all’Aire. Negli ultimi dieci anni, insomma, la mobilità italiana è aumentata del 54,9 per cento, un dato che il presidente Mattarella ha commentato così: «I flussi talvolta rappresentano un segno di impoverimento.

I  NUMERI

4,8  mln  Gli iscritti all’anagrafe degli italiani residenti all’estero

48%  Sono 75.158 in più (il 48% in totale) le donne all’estero dal

          2014 all’inizio 2016

47.998  Gli studenti universitari italiani negli atenei stranieri,   

             soprattutto nel Reno Unito

57.832  I cittadini italiani che hanno usufruito del progetto

             Erasmus plus nel 2014

382.113  I pensionati residenti all’estero, 182.599 in Europa

               100.650 in America del nord     

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29 settembre 2016 4 29 /09 /settembre /2016 15:53

 

Non é una lamentela, né un'invettiva, ma per intervenire, chi governa, deve conoscere e sapere come funziona il mercato delle derrate agricole(ndr.)

Dopo l’operazione Bayer-Monsanto l’agricoltura nelle mani di tre colossi.

Il Grande fratello dei semi si prepara a ridisegnare il futuro dell'agricoltura mondiale. Il suo mantra ideologico — basta leggere i siti dei colossi del settore — è sempre lo stesso. «Una persona su otto va a letto affamata — recita quello della Dupont — . Se vogliamo garantire cibo a tutti nel 2050 dobbiamo aiutare i contadini a rendere più produttivi i campi». Come è sotto gli occhi di tutti: le 7mila aziende sementiere attive nel 1981 sono quasi sparite. Un'ondata di fusioni e acquisizioni ha concentrato il 63% del mercato nelle mani di tre colossi (Dow-Dupont, ChemChina- Syngenta e Bayer-Monsanto). Le stesse società — guarda caso — che controllano il 75% del business di pesticidi e diserbanti in un groviglio di conflitti d'interessi in cui «l'industria è costretta a vendere i semi assieme ai prodotti agrochimici per non fare harakiri», come accusa Vincenzo Vizioli, presidente dell'Associazione italiana agricoltura biologia. Ultimo e più famoso esempio: il discusso ed efficacissimo glifosato (unico neo, è un sospetto cancerogeno) promosso in rigorosa abbinata con i semi hi-tech modificati per resistere ai suoi effetti.

L'era del seme unico — dicono i critici — ha già avuto effetti devastanti: la Fao ha certificato che nel ventesimo secolo, a forza di specializzare le colture, abbiamo perso il 75% della biodiversità e che un altro terzo se ne andrà entro il 2050. Uno scotto da pagare, dice l'industria: sviluppare un seme super efficiente (e spesso transgenico) può costare 136 milioni di dollari, un nuovo pesticida può arrivare a 250 milioni. «Solo le imprese di grandi dimensioni hanno i soldi per la ricerca necessaria alle sfide del futuro — spiega Lorenzo Faregna, direttore di Agrifarma, l'organizzazione degli imprenditori di settore — E la fanno con controlli rigidissimi. In Italia, per dire, siamo monitorati da tre ministeri: Ambiente, Salute e Agricoltura».

I risultati, assicura la European seed association, la potentissima lobby di settore, si vedono: incroci e selezioni usciti dai laboratori dei big dei semi «contano per il 74% degli aumenti di produttività in campo agricolo e hanno garantito carboidrati, proteine e oli vegetali per 100-200 milioni di persone aggiungendo 7mila euro di reddito agli agricoltori».

Chi lavora davvero la terra la pensa in un altro modo: «Stiamo creando un oligopolio pericoloso per contadini e consumatori — dice Roberto Moncalvo, presidente Coldiretti — . Il modello proposto dai big del settore, semi standardizzati e omologati assieme ai fitofarmaci, non funziona più. Le grandi aziende controllano i prezzi, ovviamente a loro uso e consumo. E vanno controcorrente in un mondo dove le coltivazioni Ogm stanno calando e dove la tendenza è rilanciare la biodiversità e ridurre, come si fa con successo in Italia, l'uso di pesticidi e diserbanti».

La natura, in effetti, ha imparato a difendersi dall'assalto della chimica di sintesi. Il 98% delle coltivazioni di soia e il 92% di quelle di mais negli Usa sono seminati con Ogm. Ma le erbe infestanti sono riuscite in poche stagioni a sviluppare resistenza ai fitosanitari con cui vengono trattate. E molti contadini a stelle e strisce — complice pure il crollo dei prezzi delle materie prime — iniziano a dubitare che il gioco (vale a dire il prezzo altissimo di sementi e agrochimica hi-tech) valga la candela.

La "triade" del seme, ovviamente, non ha nessuna intenzione di cedere le armi facilmente. Il modello delle sementi ereditarie — quello che funziona da millenni e prevede la conservazione di parte di un raccolto per piantarlo l'anno successivo — è un pericolo per i profitti.

E un paio di pionieri dell'Ogm hanno già brevettato "Terminator" (il nome dice tutto) un seme autosterile, che genera frutti e semi che non sono in grado di riprodursi, obbligando il contadino a rifornirsi da loro a ogni stagione. L'arma finale cui nessuno — per fortuna — ha dato ancora l'autorizzazione al commercio. L'ingegnerizzazione e la privatizzazione delle piante segue però anche altre strade. Come quella, più tortuosa ma più efficace, del brevetto. L'industria ha depositato all'Ufficio europeo brevetti 1.400 richieste di autorizzazione per usare in esclusiva varietà di piante selezionate con metodi naturali, come fanno da millenni contadini e natura senza accampare diritti monetari. E 180 sono stati approvati come il Broccolo Monsanto (Ep1597965), una pianta normalissima il cui fusto è stato indebolito naturalmente solo per favorire la raccolta meccanica.

Il risiko dei semi del resto, assicurano i guru della finanza, è solo l'inizio e tra poco darà il via all'integrazione verticale tra i ricchissimi produttori di macchine (come Deere e Cnh) e i big nati dalle fusioni degli ultimi mesi. Con nel mirino le meraviglie dell'agricoltura hi-tech a base di droni e satelliti. Sarà davvero il modo per dare da mangiare a tutti? «Tutt'altro — conclude Moncalvo — . La strada è un'altra. Già oggi un terzo di quello che viene prodotto in campagna viene sprecato e non consumato. Basterebbe recuperarlo e già oggi ci sarebbe cibo per tutti i 10 miliardi di persone che abiteranno il pianeta nel 2050».

Un risiko che secondo i guru della finanza porterà all'integrazione con i produttori di macchinari Il presidente Coldiretti: "Stiamo creando un oligopolio pericoloso per contadini e consumatori"

L’offensiva dei colossi

La notizia dell’acquisto di Monsanto da parte della Bayer fa tremare i polsi ma è solo un tassello importante di un vertiginoso processo di fusioni e aquisizioni in atto nell’industria sementifera-agrochimica e in altri settori strategici del business della catena agroalimentare. I nuovi colossi accrescono il loro potere nei mercati chiave e si aprono la strada per un incontrollabile aumento dei prezzi dei mezzi di produzione. Avranno inoltre più facilmente le leggi e i regolamenti necessari alla loro guerra contro la sovranità alimentare e l’agricoltura contadina. L’enorme concentrazione in corso non mira tuttavia al solo controllo dei mercati, vuole quello digitale e satellitare dell’intera agricoltura del pianeta. L’offensiva dei colossi dell’agro-business va fermata con ogni mezzo possibile.

Mercoledì 14 settembre, infine, Monsanto ha accettato la terza offerta di acquisto della Bayer. Oltre ad essere una delle maggiori aziende farmaceutiche, adesso Bayer sarà la più grande impresa mondiale nella produzione di sementi e agrotossici. Malgrado abbia grandi dimensioni e conseguenze di ampia portata, questa è solo una delle fusioni recenti tra le imprese transnazionali dell’agro-business. Ci sono movimenti anche tra le imprese di fertilizzanti, tra quelle che producono macchinari e tra quelle che possiedono banche dati che influiscono nei processi agricoli. E’ una battaglia per il controllo non solo dei mercati ma anche delle nuove tecnologie, per il controllo digitale e satellitare dell’agricoltura.

Diversi fattori influiscono nell’accelerazione dei processi di fusione cominciati nel 2014. Uno di essi è che le coltivazioni transgeniche si stanno imbattendo in molti problemi, cosa che spinge i giganti dei transgenici a cercare posizioni più solide di fronte a ciò che sembra essere una fonte di vulnerabilità crescente. E’ significativo che un giornale conservatore come The Wall Street Journal riconosca che il mercato è stato debilitato dai “dubbi” degli agricoltori degli Stati Uniti sulle coltivazioni transgeniche, visto che, dopo 20 anni nel mercato, esse mostrano ancora numerosi svantaggi: “erbe super-infestanti” resistenti agli agro-tossici, rendimenti che non si equiparano agli alti costi dei semi transgenici, né al costo dell’applicazione di agrotossici in maggior quantità e concentrazione per uccidere erbe infestanti e parassiti resistenti, né all’aumento del lavoro per controllare le erbe. Il crollo dei prezzi delle commodity agricole ha accelerato il malessere facendo sì che gli agricoltori che seminavano transgenici tornassero a cercare sementi non transgeniche, più convenienti e con maggior rendimento. (The Wall Street Journal, 14/9/16).

Se verrà autorizzata la fusione con Monsanto, Bayer passerà a controllare circa un terzo del commercio globale di agrotossici e di sementi commerciali. L’operazione fa seguito a quella di Syngenta-Chem-China e DuPont-Dow, in un vertiginoso processo di fusioni e aquisizioni nell’industria sementifera-agrochimica. Monsanto, Syngenta, DuPont, Dow, Bayer e Basf insieme controllano il cento per cento del mercato dei semi transgenici, che adesso resterebbe nelle mani di tre sole imprese. Queste fusioni sono sottoposte al vaglio di varie agenzie anti-monopolistiche, visto che costituiscono blocchi che avranno enorme potere nei mercati chiave e produrranno certamente un aumento dei prezzi dei mezzi di produzione. Forzeranno, inoltre, le leggi e regolamenti a loro favore, contro la sovranità alimentare e le sementi contadine. Soltanto il fatto che tre imprese controlleranno tutte le sementi transgeniche dovrebbe essere argomento sufficiente a qualasiasi paese per rifiutare queste coltivazioni, a causa dell’inaccettabile dipendenza che comportano.

Però il contesto delle operazioni nella catena agroalimentare è più complesso, e include pure gli anelli vicini della catena, così come spiega in modo dettagliato il Gruppo ETC nella sua nalisi della fusione Bayer- Monsanto, (link) Sebbene il consolidamento del settore dei semi e degli agrotossici esiste da decenni e sta toccando il suo apice, questi due settori hanno una vendita molto inferiore a quella delle imprese che producono fetilizzanti e macchinari, gruppi che da alcuni anni hanno cominciato a fare incursioni nel mercato dei primi, stabilendo alleanze strategiche. Anche quelle industrie, inoltre, sono in un processo di consolidamento. Poco prima dell’accordo tra Monsanto e Bayer, due delle maggiori imprese di fertilizzanti, Agrium e Potash Corp. haanno deciso di fondersi trasformandosi nella maggiore impresa di fertilizzanti a livello mondiale. Cosa che, secondo gli analisti dell’industria, ha spinto Bayer ad aumentare l’offerta per Monsanto.

Contemporaneamente, nel settore delle macchine rurali – non si tratta solo di trattori e mietitrebbiatrici, ma anche di droni, robot e sistemi Gps che permettono di raccogliere i dati della campagna con i satelliti – è andato sviluppando alleanze con tutti i giganti dei transgenici, che comprendono l’accesso alle banche dati agricole, del suolo, del clima, delle malattie, eccetera.

Nel 2015, John Deere, con la maggior impresa di macchine al mondo, si era accordato con Monsanto per comprarle la succursale Precision Planting LLD, azienda di dati agricoli, l’acquisto è stato però sottoposto al Dipartimento della Giustizia, che ha sospeso la vendita perché John Deere sarebbe andato a “dominare il mercato dei sistemi di coltivazione di precisione e avrebbe potuto alzare i prezzi e rallentare l’innovazione, a spese degli agricoltori statunitensi che dipendono da quei sistemi”, giacché Precision Planting LLD e Deere sarebbero passati a controllare l’85 per cento del mercato delle coltivazioni di precisione.

Siccome questo accordo non è stato concluso, la succursale continua ad essere proprietà di Monsanto e quindi all’interno del pacchetto della nuova fusione, cosa che potrebbe favorire un nuovo ruolo della Bayer nel tema del controllo digitale e muovere tutti pezzi della scacchiera. Ancora una volta, il trattamento dei dati sul suolo, il clima, l’acqua, la genomica delle coltivazioni, le erbe e gli insetti relazionati, sarà ciò che decide chi controlla tutti i primi passi della catena agroalimentare industriale. In questo schema, gli agricoltori sono solo un semplice strumento nella corsa delle imprese per produrre guadagni – non alimenti – cosa che condiziona gravemente la sovranità dei paesi, e non solo quella alimentare.

 

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26 settembre 2016 1 26 /09 /settembre /2016 20:56

 

http://ineteconomics.org/ysi/events/YSI-Paris-2015

INET è l’istituzione fondata da Georges Soros a cui hanno partecipato Piketty e il nobel Stiglitz . E’ il pensatoio tra l’altro dei riformisti, quelli che propongono soluzioni diverse dall’attuale gestione della crisi economica.  

Economisti contro il mondo diseguale

Federico Fubini  - La repubblica

Capitalismo, crisi finanziaria, nuove teorie economiche: il confronto tra George Soros, Thomas Piketty e il premio Nobel Joseph Stiglitz

Stampa|PDF

FEDERICO FUBINI - la Repubblica

PASSATI gli anni del crash finanziario, passata anche la recessione che ne è seguita, l’Occidente resta ferito dalle conseguenze di ciò che è successo negli ultimi anni: un aumento delle diseguaglianze che mina la credibilità delle istituzioni e della politica. Al punto da diventare il punto centrale delle riflessioni di economisti come Thomas Piketty o Joseph Stiglitz. O persino di finanzieri come George Soros. Quando esplose la grande crisi dei mutui ipotecari nel 2007 e poi quella delle grandi banche di Wall Street nel 2008, Soros aveva già accumulato un patrimonio di oltre 20 miliardi di dollari e donato in varie imprese filantropiche almeno sette miliardi.

In quel biennio, a ottant’anni passati, tornò ad occuparsi personalmente del suo fondo speculativo. Ma anche mentre cercava di proteggere il Quantum Fund nello tsunami dei mercati finanziari, un’idea non abbandonava Soros: con il crash di Lehman Brothers e il salvataggio pubblico di quasi tutte le grandi banche americane e di un gran numero di banche in Germania, Gran Bretagna, Irlanda o Spagna, era venuto brutalmente a galla il fallimento di un modello. Non erano più difendibili le teorie economiche fondate sulla certezza che i mercati agissero in modo razionale, fossero in grado di auto-regolarsi e dare sempre un prezzo corretto agli attivi finanziari sulla base delle informazioni disponibili. Nasce così l’idea di fondare l’Institute for New Economic Thinking (Inet), un “pensatoio” newyorkese che Soros incoraggia e finanzia con centinaia di milioni di dollari. Il suo compito è riunire e sostenere i progetti di studi di sempre nuovi economisti e ricercatori. Uno dei primi a raccogliere il sostegno anche finanziario di Inet è quello animato fra gli altri da Thomas Piketty, per la raccolta di dati in decine di Paesi del mondo sulle diseguaglianze di reddito e di patrimoni nella società. Il libro di Piketty nato da quel piano di studi si intitola Il capitale nel X-XIesimo secolo , è uno studio delle disparità sociali e delle loro dinamiche, ed è diventato un best-seller globale nel 2014.

Ieri sera l’Inet ha aperto a Parigi la sua sesta conferenza annuale, dedicata proprio al tema delle crescenti disparità che fratturano le società occidentali. Su questo tema si sono confrontati, uno dopo l’altro, Soros stesso, Piketty, il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz e il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria.

George Soros : Come filantropo Inet è il progetto di maggior successo che io abbia mai sostenuto. Non si trattava solo di demolire il monopolio di vecchie dottrine economiche, che sono ancora molto influenti. Dobbiamo anche contribuire a far capire meglio come funziona il mondo. Abbiamo iniziato a proporre nuove visioni su come i mercati reagiscono agli eventi esterni e come si comportano, che non sarebbe stato possibile senza confutare e demolire le vecchie idee ancora in auge. Ora dobbiamo sperare di andare avanti nell’elaborare nuove proposte e conto che lo faremo finché a nostra volta non resteremo senza idee. Quando questo accadrà, vorrà dire che sarà stato il nostro turno e saremo noi l’ortodossia. Allora probabilmente ci sarà bisogno di qualcun altro che demolisca le nostre dottrine, per poi andare avanti.

Thomas Piketty : La mia ricerca è stata finanziata da Inet negli ultimi 5 o 6 anni, ma in realtà non è solo mia. È un lavoro di gruppo con decine di ricercatori che hanno raccolto dati storici e attuali sui redditi e i patrimoni. Quello che abbiamo voluto fare, è stato rimettere al centro dello studio dell’economia il tema delle diseguaglianze. È stato uno sforzo collettivo e vorrei presentarne alcuni dati riguardo alla ricchezza patrimoniale in Europa e negli Stati Uniti. Tra il 1900 e il 1910 la disuguaglianza dei patrimoni era più accentuata in Europa, ma cento anni più tardi è molto più marcata in Nord America. Qui le disparità di reddito fra gli abitanti hanno iniziato a crescere negli anni ‘70, mentre anche in Europa è successo, ma in Paesi come Francia, Germania, Spagna o Italia il fenomeno prende piede dall’inizio degli anni ‘80 e lo fa in modo meno intenso. Il Giappone si colloca invece a metà strada fra Europa e Stati Uniti. La diseguaglianza di reddito si sviluppa in modo diverso fra i vari Paesi avanzati e questo ci dice già qualcosa: non può essere dovuta solo alla globalizzazione o all’avvento delle tecnologie. Dev’essere dovuta anche alle istituzioni del mondo del lavoro e ai sistemi educativi. Le stesse premesse danno infatti risultati diversi negli Stati Uniti, in Europa o in Giappone.

Joseph Stiglitz: Visto le cose dette da Thomas, voglio concentrarmi proprio sugli Stati Uniti. Vengo dall’Indiana e mi hanno detto che sono cresciuto durante l’età dell’oro del capitalismo, ma a me non sembrava affatto l’età dell’oro. Mi sembrava un disastro. I Paesi che oggi hanno imitato le istituzioni degli Stati Uniti stanno avendo un aumento delle disuguaglianze come gli Stati Uniti. E in questo si dice che l’aumento delle differenze è come l’erba che cresce, non lo puoi notare a occhio nudo. Ma negli ultimi anni nel mio Paese è stato cataclismico. Non è questione di capitalismo, il problema sono le istituzioni politiche che gestiscono il capitalismo e come esse favoriscono le rendite di chi ha i patrimoni. Negli ultimi 25 anni il reddito mediano in America è sceso in termini reali benché la produttività sia raddoppiata.

Thomas Piketty : I problemi non sono solo negli Stati Uniti. Prendete il caso dell’Italia. Fra gli otto Paesi più ricchi del mondo è quello che ha la quota più alta di patrimoni privati in proporzione al reddito del Paese, intorno al 700%. Ma è anche quello che ha la quota più bassa di patrimonio pubblico, al punto che non potrebbe ripagare il suo debito se vendesse i suoi ospedali o le sue scuole. Non dico che dovrebbe farlo, per pagare poi un affitto a chi compra le scuole. Dico però che è tutto molto curioso: anche Germania e Francia avevano debiti fuori proporzione nel 1945, ma nel 1955 se ne erano liberati con il perdono dei creditori e con l’inflazione. Solo così sono potute tornare a investire nel futuro. Ora questi stessi Paesi esigono che l’Italia paghi tutti i suoi debiti per un tempo indefinito.

 

Una puntata molto interessante de IL TEMPO E LA STORIA. Non la conoscevo (ndr).  (dopo la pubblicità)

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-1e974384-6a02-406f-8ff9-46a25af6c3bd.html#p=

“La grande scommessa” narra le vicende degli sciacalli arricchiti dalla crisi, di chi ha deciso di puntare tutto sul disastro finanziario. Quando c’è il crollo delle borse non è che si bruciano i soldi, si trasferiscono di mano. I flussi finanziari sono gestiti per il 90% in automatico da batterie di computers che registrano ed entrano in azione con  la minima variazione di valore dei titoli e del valore dei cambi monetari . Niente scambi reali solo pura speculazion(e chi se ne frega delle conseguenze sociali). C'é chi guadagna, e molto, anche al ribasso. adattato da un formidabile libro inchiesta di Michael Lewis, "La grande scommessa"

 Il valore dei titoli monetari in possesso delle banche e dei centri della finanza è in realtà 11 volte il PIL mondiale (ndr).

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16 settembre 2016 5 16 /09 /settembre /2016 20:42

 

Massimo Riva  - La Repubblica
NON bastavano gli inglesi di Brexit, i lepenisti francesi, i tedeschi dell'Afd, leghisti e 5stelle italiani. Ora al funesto albo dei picconatori dell'Europa avanza la sua candidatura anche l'autorevole ministro delle finanze di Berlino, Wolfgang Schaüble. E lo fa con dichiarazioni dall'inequivocabile sapore di attacco frontale a quel pallido simulacro di potere sovranazionale che sta in capo alla Commissione di Bruxelles. Lo si era capito da un pezzo — basti ricordare le sue periodiche frecciate contro la Bce di Mario Draghi — che il Finanzminister non ama le istituzioni in grado di decidere anche contro la sua volontà. Stavolta però il siluro è accompagnato da una minaccia fin troppo esplicita: o Bruxelles si adegua oppure i governi nazionali — leggi Berlino — andranno per la loro strada.

Ne è passata di acqua sotto la roccia di Lorelei da quando Helmut Kohl — per farsi perdonare i danni scaricati sui soci europei dalla scelta di cambio alla pari fra marco dell'Est e dell'Ovest — aveva proclamato di non volere un'Europa tedesca ma una Germania euro- pea.

Herr Schaüble non sente neppure il bisogno di edulcorare le sue pillole velenose. L'unico alibi che mette in campo per argomentare le sue durezze è il proposito di tagliare l'erba sotto i piedi dell'estremismo nazionalista così diffuso anche in Germania. Peccato che la sua strategia si contorca nell'assumere lui stesso di fatto le posizioni politiche degli ultrà antieuropei.

Questa condotta, però, non è solo frutto di protervia. Vi gioca e non poco il timore per alcuni spinosi dossier aperti con Bruxelles. In tema di banche, per esempio, Schaüble è perentorio nel fare la faccia feroce coi guai degli altri paesi. Ma non ignora di essere seduto su una bomba: il maggior istituto tedesco (Deutsche Bank) quota in Borsa ai minimi da 30 anni perché risulta pericolosamente esposto sul versante dei cosiddetti derivati in misura che potrebbe rivelarsi rovinosa — dice il Fondo monetario — a livello globale.

Poi c'è il nodo Volkswagen, simbolo dell'industria tedesca. L'azienda ha chiuso i contenziosi Usa sulle auto manipolate con un esborso di circa 15 miliardi di dollari e sostiene di non poter fare altrettanto coi suoi clienti europei perché ne sarebbe travolta. Per salvare la capra dell'impresa e i cavoli dei clienti truffati si potrebbe ricorrere a una sorta di "bail in", rifondendo almeno in parte i malcapitati con azioni Vw cedute dagli attuali azionisti di controllo. Certo, un trauma per il sistema tedesco, ma non peggiore di quello subito da milioni di acquirenti europei ingannati.

Ciò che più angustia del caso Schaüble, comunque, non è la sua deriva nazionalista, ma il fatto che gli altri soci dell'Unione (a cominciare da Parigi e Roma) non trovino il coraggio politico di smascherare i giochi del governo di Berlino. In particolare, di riconoscere che da tempo la Germania ha rovesciato la lezione di Clausewitz e agisce considerando la politica come prosecuzione della guerra con altri mezzi. Siamo tutti, ovviamente, sollevati di avere a che fare oggi con i diktat del Finanzminister piuttosto che con le Panzerdivisionen.

Ma ciò non ha niente a che vedere con l'Europa pacificata e unita immaginata alla fine dell'ultimo conflitto.

 

Nel 2000 uno scandalo su finanziamenti illegali alla Cdu riguarda Schäuble che ammette in televisione di aver ricevuto una donazione (non registrata) al partito di 100.000 marchi da parte del controverso commerciante di armi Karlheinz Schreiber. (Wikipedia)

 

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16 settembre 2016 5 16 /09 /settembre /2016 20:25

Alberto Bisin – La Repubblica

AL DELINEARSI della situazione economica e finanziaria europea dopo Brexit, si chiarisce anche quello che non riesco a definire altro che il ricatto delle banche nei confronti della politica e dei cittadini. O le banche in crisi sono salvate in toto e senza condizioni, si dice, o sarà il diluvio, nella forma di un panico e una crisi finanziaria globale. Questo ricatto aleggia giornalmente nelle dichiarazioni dei banchieri come in quelle dei politici che lo hanno internalizzato, temendo le ripercussioni politiche di una crisi finanziaria. E non solo in Italia.

L'intervista apparsa ieri ad un alto dirigente di Deutsche Bank sulla stampa tedesca è particolarmente significativa, laddove si quantificano in 150 miliardi di euro gli aiuti pubblici necessari al sistema bancario europeo (di cui, aggiungo io, Deutsche Bank si avvantaggerebbe in modo sostanziale) per evitare di far «precipitare le banche e l'Europa in una crisi». Tutto questo rimanda al 2008 negli Stati Uniti, quando il ministro del Tesoro H. Paulson si presentò al Congresso chiedendo 700 miliardi di dollari e minacciando altrimenti Bancomat senza contante l'indomani.

In Italia questo ricatto ha preso forme particolarmente salienti, sia perché la situazione delle banche italiane è in effetti molto grave, sia perché il governo, esposto al referendum, è particolarmente sensibile ad ogni rischio di caduta dei consensi. Se tutti i governi in Europa sentono il fiato dei movimenti populisti sul collo, nessuno li ha alle porte come il governo Renzi.

Purtroppo però la situazione economica e politica oggi è tale per cui cedere al ricatto, sarebbe suicida, per il governo e per il paese. Questo innanzitutto perché i movimenti populisti si trovano perfettamente a proprio agio a cavalcare una crisi finanziaria così come un salvataggio di banche e banchieri con soldi pubblici. Meglio quindi affrontare il populismo con politiche sane ed efficaci nel medio periodo nella speranza che l'elettorato sappia valutarne la serietà. Se si perdesse la battaglia si avrebbe almeno la speranza di vincere la guerra.

Si tratta quindi di evitare un salvataggio di banche e banchieri in emergenza, legando invece ogni intervento ad un profondo risanamento del sistema bancario. Si tratta di agire sul sistema di governo delle banche, di intervenire con regolamentazioni che ne limitino in futuro la capacità di portare a crisi sistemiche di così grande rilevanza. Ma senza corretti incentivi il sistema politico naturalmente temporeggia, procrastina interventi politicamente costosi a breve anche se vantaggiosi nel medio periodo. E purtroppo l'emergenza peggiora la situazione, accentuando i costi a breve. E qui sta il cuore del problema e l'efficacia del ricatto.

Sono anni che in Italia si dice che il sistema dell'offerta di prodotti finanziari alle famiglie è troppo centrato sulle banche e che queste tendono ad approfittarsene (si pensi ai titoli Cirio o a quelli argentini). È da sempre che si lamenta la collusione tra banche e politica che porta le prime a decisioni più basate sulla logica politico-clientelare che su quella economica. Da quanto poi si discute dell'inefficienza della giustizia civile che rende l'esigibilità dei crediti in sofferenza delle banche particolarmente difficile e costosa? Cedere oggi nell'emergenza al ricatto delle banche significa allontanare di molto tempo ancora ogni risoluzione di queste questioni.

La direttiva Ue sul bail in non è solo una solida piattaforma su cui costituire un sistema bancario efficiente a livello europeo. Essa ha la funzione fondamentale di costringere i governi dei paesi membri alle necessarie politiche di riforma del sistema bancario invece che di protezione di banche e banchieri, verso cui sono appunto rivolti gli incentivi a breve termine della politica. Questo non significa che non si possa provare ad alleggerire l'impatto della direttiva, specie sulle categorie di risparmiatori più deboli, ma farla saltare sfruttando l'emergenza vanifica ogni aspettativa di risanamento del sistema bancario in Italia ed in Europa.

Come non cedere al ricatto allora? Accettare il diluvio della crisi finanziaria alle porte? Certo che no. La chiave è quella di intervenire oggi legandosi le mani per il futuro. Una possibilità sarebbe quella di aderire al Fondo Salva Stati (lo European Stability Mechanism). Il meccanismo ha costi che possono essere oggetto di discussione e trattativa nelle sedi appropriate, ma ha il vantaggio di legare gli interventi per salvare le banche al risanamento del sistema bancario nel suo complesso. La Spagna vi ha aderito nel 2012 con ottimi risultati, senza eccessiva perdita di sovranità. Allo stato delle cose non vedo via d'uscita migliore.

 

" Si tratta di evitare un salvataggio in emergenza legando invece ogni intervento a un profondo risanamento”

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12 settembre 2016 1 12 /09 /settembre /2016 21:20

Marco Patucchi la Repubblica

L' arte di arringare gli studenti. In principio fu il «siate affamati, siate folli» di Steve Jobs. Ieri è toccato a Sergio Marchionne: «Siate come i giardinieri, investite le vostre energie e i vostri talenti in modo tale che qualsiasi cosa fate duri una vita intera o perfino più a lungo». Ma a modo loro hanno lasciato il segno anche l' ironia di Oscar Farinetti e lo straight talk di Francesco Starace, per non parlare dell' allora Ceo di Twitter, Dick Costolo, che nel 2013 vide bene di iniziare il suo discorso alla University of Michigan twittando la foto della platea («Sono un professionista, ci vorrà solo un minuto »).

Dal mitico commencement speech del fondatore di Apple alla Stanford University di Palo Alto (12 giugno 2005), il discorso dei manager ai giovani è ormai un classico. Talvolta spiazzante, come nel caso dell' amministratore delegato dell' Enel, Starace, che qualche mese fa ha spiegato senza mezzi termini agli studenti della Luiss la tecnica per «distruggere» i centri di resistenza al cambiamento in un' azienda.

Ma anche con ironia, come quella del patron di Eataly, Farinetti, che nel maggio scorso davanti ai giovani dell' American University di Roma ha chiuso a braccio il discorso citando Jobs pro domo sua (i manicaretti di Eataly, appunto): «Siate folli, ma non siate affamati… ». Ieri sera, alla Luiss di Roma, l' amministratore delegato di Fca, ha parlato ai ragazzi della Rotman European Trading Competition, gara universitaria internazionale di simulazione finanziaria.

Un discorso che, tra una citazione di Mark Twain e una di Ray Bradbury (è in "Fahrenheit 451" il confronto tra il tocco del semplice tosaerba e quello di un vero giardiniere), ha suonato come mea culpa della globalizzazione finanziaria. «Il potere che il libero mercato assicura in un' economia globale non è in discussione - ha spiegato a scanso di equivoci Sergio Marchionne - . Nessuno può trattenere il mercato o frenarlo, né cambiare le modalità con le quali funziona».

Punto. Ma dietro questa affermazione di principio, anche un super-manager come Marchionne vede incrinarsi tante certezze e scopre gli effetti di quella che l' Economist ha battezzato "la fragilità della perfezione". «Un sistema che per secoli si era basato su integrità, responsabilità e fiducia - ha detto Marchionne - all' improvviso è stato completamente ribaltato da due fattori: l' affermarsi di una cultura egocentrica e guidata dall' avidità, e l' inadeguatezza dei meccanismi di pianificazione e controllo a livello di consigli di amministrazione».

È l' epicentro della grande crisi finanziaria innescata dal crac dei subprime e con la quale stiamo ancora facendo i conti. Un punto di non ritorno, secondo Marchionne, perché «gli eventi hanno sottolineato l' esigenza di rivedere il capitalismo stesso, il ristabilimento dei mercati come struttura portante che disciplina le economie ma non la società ».

Distinzione sottile «ma non irrilevante » che Marchionne ha cercato di spiegare alla platea della Luiss: «Esiste un limite oltre il quale il profitto diventa cupidigia e coloro che operano in un libero mercato hanno anche l' obbligo di agire entro i limiti di ciò che una buona coscienza suggerisce. Tutti noi dobbiamo capire che non potranno mai esserci mercati e crescita razionali e benessere economico se una vasta parte della nostra società non avrà niente da contrattare con l' altra se non la sua stessa vita».

 

Parole ad effetto se pronunciate da chi di quel capitalismo da rivedere è massimo rappresentante. Ancora: «Perseguire il mero profitto, scollegato da qualsiasi responsabilità morale, non soltanto ci sottrae la nostra umanità, ma mette anche a repentaglio la nostra prosperità a lungo termine». Concetti consegnati alla classe dirigente del futuro, alla quale Marchionne raccomanda di «servire uno scopo più alto e nobile, cioè perseguire i nostri obiettivi nel rispetto della dignità umana e delle esigenze della società».

 

Perché in fondo «il valore di un leader non si misura da ciò che ha guadagnato in carriera, ma da quello che ha dato». La parola passa a Mark Zuckerberg: il fondatore di Facebook domani parlerà ai giovani della Luiss. L' epopea dei manager oratori continua

 

PER CHI SI FOSSE DIMENTICATO: LO STIPENDIO 2014 DI MARCHIONNE

Da www.corriere.it 

L’amministratore delegato di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne, ha ricevuto per l’anno 2014 un compenso complessivo di 31,3 milioni di euro. La cifra emerge dal bilancio 2014 di Fiat Chrysler Nv, il primo dopo lo spostamento della sede legale in Olanda, che fornisce in trasparenza una serie di dettagli anche sulla remunerazione futura del top management e del Ceo.

L’importo assegnato a Marchionne è suddiviso in uno stipendio di 6,6 milioni, composto da 2,5 milioni di retribuzione fissa e 4 milioni di variabile, più una tantum per «specifiche transazioni ritenute eccezionali in termini di importanza strategica e di effetto sui risultati aziendali». Il riferimento è alla «visione e alla guida di Marchionne nel processo di formazione di Fca che ha creato enorme valore per l’azienda,i suoi azionisti, i suoi dipendenti e i suoi stakeholders».

Dal bilancio emerge inoltre che il consiglio ha deciso di sottoporre all’assemblea degli azionisti, convocata per il 16 aprile ad Amsterdam, l’assegnazione a Marchionne di un’ulteriore una tantum, pari a 1,62 milioni di azioni («restricted stock units»), il cui valore ai prezzi attuali di mercato sarebbe pari a 23 milioni di euro. E questo porterebbe la retribuzione complessiva incassata del ceo di Fca nel 2014 a 54 milioni di euro.

Nella retribuzione di Marchionne rientra infine anche un bonus da 12 milioni di euro, deciso dai consiglieri indipendenti di Fca, spiega l’annual report depositato dal gruppo automobilistico, che verrà però percepito dal manager solo nel momento in cui lascerà l’azienda.

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12 settembre 2016 1 12 /09 /settembre /2016 20:57

La repubblica

Alcuni dati aiutano a inquadrare il fenomeno degli stranieri irregolari in agricoltura. In Puglia e Calabria, per esempio, permangono realtà di braccianti immigrati sottopagati: agli extracomunitari irregolari si applica il pagamento “a cottimo”, che li spinge ad accettare paghe fino a 3 euro l’ora, per dodici-sedici ore di lavoro al giorno. Una situazione non solo eticamente inaccettabile, ma economicamente inefficiente: da un lato non si premia la qualità del lavoro, dall’altro si frena l’integrazione, volano di sviluppo economico.
Al centro di tutto c’è il fenomeno del caporalato, un “sistema di reclutamento della manodopera attuato nel Meridione a opera dei caporali”, secondo la definizione dei dizionari – ed è preoccupante il legame fra caporalato e Meridione. Un esempio significativo: nel ghetto di Rignano Scalo, a circa 20 chilometri da Foggia, si stima che durante l’estate siano presenti 2mila-2.500 braccianti africani. Lo strumento su cui si fonda il caporalato è il trasporto sul luogo di lavoro, in assenza di un sistema di trasporto pubblico o privato alternativo: per usufruirne l’immigrato deve accettare di trasferire al caporale 5 euro del suo già misero guadagno giornaliero. In media, dunque, il ricavo giornaliero del lavoratore è di soli 18 euro netti.
Facciamo l’esempio di una superficie di circa 27mila ettari coltivata a pomodoro: nel 2014, la produzione territoriale complessiva è stata di circa 9 milioni di cassoni da tre quintali (quelli utilizzati per il trasporto del pomodoro). Ogni lavoratore migrante raccoglie mediamente un cassone all’ora, con un dato medio giornaliero di dieci cassoni, il che equivale a circa 900mila giornate lavorative. Il periodo di raccolta del pomodoro dura sostanzialmente due mesi (giugno-luglio) e per ogni giornata di raccolta abbiamo almeno 10-15 mila lavoratori, quasi esclusivamente migranti, in parte non regolari.
Il caporale prende da 1 a 2 euro a cassone, a seconda del livello di produttività del campo, per una mole di illeciti legati alla sola raccolta fra i 9 e i 18 milioni di euro. Se aggiungiamo che per 60 giorni (900mila giornate) il caporale riscuote 5 euro per ogni viaggio verso il luogo di lavoro, totalizziamo altri 9 milioni di euro. In più, i caporali gestiscono il ghetto e riscuotono circa 200 euro al mese a testa per l’alloggio: per la sola Rignano si stimano altri 500mila euro. I caporali speculano anche sul pasto che forniscono, con circa 2-3 euro di rincaro medio: considerando circa 15mila migranti al giorno per 60 giorni di lavoro significa altri 2,7 milioni di euro. Inoltre il caporale può lucrare sulla ricarica elettrica di ogni telefono cellulare (circa 3 euro a ricarica): con una stima media di una ricarica ogni due giorni, si desume un ulteriore ricavo di un milione di euro.
Dalla semplice somma matematica si ricava che la quantità di denaro che ruota attorno al caporalato nel periodo della raccolta del pomodoro oscilla fra i 21 e i 30 milioni di euro. Dunque sui 27-36 milioni di euro di ricavo dalla raccolta, circa 6-7 milioni di euro sono intercettati dai braccianti, mentre oltre l’80 per cento alimenta l’economia sommersa, è profitto per il sistema del caporalato.
A livello nazionale il bilancio è pesante: con un volume d’affari di circa 17 miliardi di euro, il caporalato pesa sull’economia per oltre 600 milioni di euro di mancato gettito fiscale.
L’attenzione politica per contrastare il caporalato è forte, ma molto ancora resta da fare: l’integrazione è presupposto fondamentale per lo sviluppo del nostro territorio e la presa di coscienza dell’entità del fenomeno è il primo passo. 

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4 settembre 2016 7 04 /09 /settembre /2016 17:04

DISUGUAGLIANZA SOCIALE: LA RICCHEZZA È NELLE MANI DELL'1% DELLA POPOLAZIONE MONDIALE 

  • Scritto da Lisa V.

La profezia lanciata da Oxfam appena un anno fa sembra proprio essersi avverata, e con dodici mesi di anticipo: stando al nuovo rapporto della ONG, infatti, nel corso del 2015, l’1% della popolazione mondiale è diventato più ricco del restante 99%.

Il report An Economy for the 1%, pubblicato oggi, a pochi giorni dall’apertura dei lavori del World Economic Forum di Davos, l’appuntamento annuale che coinvolge le élite della finanza e della politica internazionale, mostra come la forbice tra ricchi e poveri si stia ampliando rapidamente, inasprendo le disuguaglianze e rendendo ancora più urgente l’adozione di misure per arginare la povertà a livello globale.

Secondo il rapporto, tra il 2010 e il 2015 chi era già ricco lo è diventato ancora di più: a riprova di tale trend, il report sottolinea che, nel 2010, 388 persone possedevano la medesima quantità di ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, mentre nel 2015 tale numero è sceso a 62. Un gruppo sparuto di persone, che potrebbe essere comodamente contenuto su un autobus,ha in mano la stessa ricchezza di ben 3,6 miliardi di individui.

Secondo il rapporto Oxfam, che utilizza i dati raccolti da Forbes per stilare la classifica dei più ricchi del pianeta, i patrimoni dei 62 super-ricchi (tra i quali si contano solo 9 donne) sono cresciuti del 44% tra il 2010 e il 2015 e ammontano complessivamente a 1.760 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, le ricchezze in mano alla metà più povera del mondo si sono contratte del 41%, nonostante un incremento demografico di 400 milioni di individui.

“È semplicemente inaccettabile che la metà più povera della popolazione mondiale possieda quanto qualche dozzina di super-ricchi, così pochi che potrebbero stare tutti su un unico autobus.” – è il commento di Winnie Byanyima, Direttore esecutivo di Oxfam International, che sarà presente al WEF di Davos per il secondo anno consecutivo – “La preoccupazione dei leader mondiali nei confronti dell’aumento delle disuguaglianze finora non si è tradotta in azioni concrete: il mondo è diventato più disuguale e la tendenza è in accelerazione. Non possiamo continuare a permettere che centinaia di milioni di persone soffrano la fame mentre le risorse che potrebbero essere utilizzate per aiutarli vengono aspirati da quelli in alto.”

"Sfido i Governi, le imprese e le élite che si riuniranno a Davos a fare la loro parte per porre fine all'era dei paradisi fiscali, che alimentano la disuguaglianza economica e impediscono a centinaia di milioni di persone di uscire dalla povertà." - continua Byanyima - "Le multinazionali e le élite ricche stanno giocando con regole diverse rispetto agli altri, si rifiutano di pagare le tasse di cui la società ha bisogno per funzionare. Il fatto che 188 delle 201 aziende leader al mondo siano presenti in almeno un paradiso fiscale dimostra che è tempo di agire.”

E in Italia? Il nostro Paese conferma il trend rilevato a livello globale: i dati sulla distribuzione nazionale di ricchezza del 2015 evidenziano come l'1% più ricco degli Italiani possieda il 23,4% della ricchezza nazionale netta, una quota pari a 39 volte la ricchezza del 20% più povero del Paese. Se si osserva il periodo che va 2000 al 2015, inoltre, si nota come l’incremento della ricchezza non si sia distribuito equamente: oltre la metà è andata a beneficio del 10% più ricco del Paese.

"L'elusione fiscale delle multinazionali ha un costo per i Paesi in via di sviluppo stimato in 100 miliardi di dollari all'anno, e ha un impatto importante anche nei paesi OCSE come l'Italia.” – ha commentato Roberto Barbieri, Direttore generale di Oxfam Italia - "Il Governo italiano può agire per porre fine all'era dei paradisi fiscali, sostenendo a livello nazionale e in Europa una serie di misure. Per le imprese multinazionali sono necessari maggiore trasparenza e approcci comuni da parte degli Stati. Sosteniamo quindi l'obbligo di rendicontazione pubblica in ogni paese in cui le multinazionali UE operano (country-by-country reporting), e un modello vincolante di tassazione unitaria nella UE, perché le tasse siano pagate laddove l'attività economica si svolge realmente. "

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4 settembre 2016 7 04 /09 /settembre /2016 16:48

Mariana Mazzucato - La Repubblica

MOLTE delle nostre politiche fiscali sono pressoché inutili, e le società multinazionali ne approfittano. Ma queste società fanno anche di più: lavorano per indebolire i nostri sistemi fiscali. Apple ha cominciato negli Stati Uniti a mettere i singoli stati federali in competizione l'uno contro l'altro. Nel 2006 la società basata a Cupertino, in California, ha fondato una sussidiaria di investimento in Nevada per non pagare tasse sulle sue plusvalenze finanziarie. La stessa strategia che ora sta mettendo in campo nel resto del mondo. Dopo la decisione dell'Unione europea contro l'Irlanda, Apple ha minacciato di ritirare i suoi investimenti dal Paese, verso altri Stati che offrano garanzie migliori dal punto di vista fiscale.

QUESTO ha stimolato una concorrenza al ribasso tra governi il cui effetto è penalizzare l'innovazione e creare nuova disuguaglianza, anziché ridurla. Le politiche fiscali infatti non dovrebbero puntare a preservare i profitti delle società, ma a incoraggiare gli investimenti privati, che sono la parte più volatile del prodotto interno lordo. L'evidenza mostra che il modo giusto con cui uno Stato può stimolarli è investendo in prima persona sui settori più innovativi, a maggiore rischio e più alta intensità di capitale. Questo può attrarre su quelle tecnologie gli operatori privati, aumentando la loro percezione di opportunità. Gli incentivi indiretti, come quelli fiscali, sono efficaci solo se si accompagnano a simili politiche di spesa pubblica. Negli Stati Uniti Obama ci è riuscito con il suo programma per l'economia verde. Si parla spesso dell'insuccesso di Solyndra, la società dell'energia alternativa che ha dichiarato bancarotta dopo aver ricevuto 535 milioni di dollari in fondi governativi. Ma lo stesso pacchetto ha sostenuto anche Tesla, che è un grande successo, e per decenni il governo ha finanziato il fracking prima che arrivassero i privati.

Molte delle tecnologie alla base dei prodotti che fanno la fortuna di Apple e Google, come di quelli di tante altre società tecnologiche e farmaceutiche, sono state sviluppate all'origine grazie a programmi di investimento pubblici. Ma ora le multinazionali stanno usando il loro potere per avere trattamenti fiscali più favorevoli, abbassando il gettito fiscale degli Stati e costringendoli così a tagliare la spesa pubblica. Nel lungo periodo questo riduce la quantità di fondi pubblici per l'innovazione, mettendo a rischio le future Apple. Nonostante gran parte del valore della società di Cupertino sia stato creato dai suoi centri di ricerca della California, negli ultimi dieci anni il deficit dello Stato è aumentato e il suo sistema scolastico, che era di eccellenza, negli ultimi venti anni ha perso qualità.

Dove vengono creati i profitti delle imprese? Non ci sarà mai una risposta precisa a questa domanda. Ma se la tassa sulle imprese è una tassa sul reddito è ragionevole collocare le imposte lì dove il valore viene generato. Nel caso di Apple, non ci sono dubbi che crei la maggior parte del suo valore negli Stati Uniti. Questi schemi di rimescolamento fiscale a livello globale non sono certo una sua peculiarità, altre società tecnologiche come Google, Oracle e Amazon li mettono in atto. Una strategia simile permette a Google di beneficiare di incentivi fiscali garantiti dagli stessi Paesi di Apple. E queste aziende fanno costante pressione sui politici per ottenere una tax holiday, una finestra di esenzione dalle tasse che garantisca loro di rimpatriare i miliardi di dollari di liquidità parcheggiati nei paradisi fiscali. Non c'è nessuna garanzia che quei soldi verrebbero impiegati per investimenti, tanto più che Apple e altre grandi società stanno spendendo cifre crescenti in programmi di riacquisto di azioni proprie, per spingerne il valore in Borsa, in stock option o per le retribuzioni dei dirigenti.

Le multinazionali si proclamano creatrici di benessere e occupazione, ma il loro modo di fare impresa in realtà è parassitario e quindi mette a rischio l'innovazione futura che dipende dai fondi pubblici. Lo stesso schema ora lo stanno riproponendo a livello internazionale. L'errore dell'Irlanda è stato accoglierle a braccia aperte, una strategia poco lungimirante perché con la stessa facilità con cui sono arrivate, le multinazionali possono andare verso Paesi che offrono loro qualcosa di più.

La retroattività della decisione europea sull'Irlanda è un po' irrituale, ma è un messaggio forte che certe pratiche fiscali non sono più accettabili, un messaggio che dovrebbe essere mandato anche alle altre multinazionali. D'altra parte però la Ue non è stata in grado finora di varare serie politiche per l'innovazione, puntando su settori strategici e avendo anche il coraggio di finanziare come committente, al pari di quanto fanno gli Stati Uniti o la Cina, le singole società più avanzate. Solo così un ecosistema simile a quello della Silicon Valley potrà nascere da questa parte dell'Atlantico. Peccato che programmi virtuosi di questo tipo nell'Unione siano addirittura vietati come aiuti di Stato.

Allo stesso tempo l'Europa non è riuscita a sbarrare le scappatoie fiscali sfruttate dalle multinazionali, che possono essere contrastate solo agendo a livello sovranazionale. Ecco il vero grande fallimento dell'Unione. È inutile avere grandi ambizioni di crescita se poi non si riesce neppure a disegnare un sistema fiscale che premi la visione di lungo periodo, l'unica in grado di generare investimenti e innovazione, e penalizzi quella finanziaria di breve periodo. Tutte le politiche sui patent box, gli sgravi sui redditi che derivano da proprietà intellettuale, sono un esempio di questa distorsione negativa e sono frutto del lavoro di lobby di società come Google, Apple e Glaxo Smith Kline. Hanno poco senso perché i brevetti godono di per sé di un regime di esclusiva per molti anni, quello che dovrebbe essere ricompensato non è il profitto che se ne trae, ma la ricerca che li ha prodotti. La diffusione di questi strumenti testimonia che il mondo della finanza ha ancora le mani strette al collo della politica. E che la grande industria, sempre più finanziarizzata, riesce a dettare molte delle nostre politiche economiche.

Docente di Economia, Sussex University, e autrice di " Lo Stato Innovatore" ( Laterza)

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17 agosto 2016 3 17 /08 /agosto /2016 20:39
Per saperne di più: www.mckinsey.com  www.government.se
La SVEZIA: è il paese el nord europa con i maggior numero di abitanti (quasi 10 milioni, l'1,9 % dell'UE) e i terzo più grande per superficie (438.574 kmq). Tra i settori più importanti dell'economia l'amministrazione pubblica, la difesa, l'istruzione, la sanità e l'assisenza sociale (24,5%), l'industria (19,7%) e il commercio, i trasporti, l'alberghiero e la ristorazione (17,4%). Il PIL é di 444 miliardi
Equità, welfare e Keynes la ricetta della Svezia felice dove solo il 2% è più povero

 

PARADISO svedese, inferno italiano. Il Rapporto del McKinsey Global Institute sull'impoverimento generazionale, già illustrato sulla Repubblica di sabato, esalta il modello scandinavo come antidoto alla regressione del tenore di vita che affligge le economie più avanzate. E mette il nostro paese all'indice, il peggiore di tutto l'Occidente per la performance economica misurata nell'arco di un decennio. "Ad una estremità c'è l'Italia dove i redditi sono rimasti fermi o sono diminuiti per la quasi totalità della popolazione. Al polo opposto c'è la Svezia dove solo il 20% della popolazione ha avuto i propri redditi bloccati o ridotti". Così si legge nella recente indagine intitolata "Poorer than their parents? A new perspective on income inequality" (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull'ineguaglianza dei redditi). Questa citazione si riferisce peraltro ai "redditi di mercato", cioè prima di calcolare l'impatto degli ammortizzatori sociali, delle tasse, di tutte le politiche pubbliche sui bilanci delle famiglie. Quel che interessa ancora di più, è il risultato finale in tasca ai cittadini, sono i "redditi disponibili": quelli che rimangono dopo l'intervento del fisco e l'eventuale aiuto del Welfare. Ebbene, alla fine il divario tra Svezia e Italia si accentua ancora di più. Il ristagno o impoverimento decennale passa dal 97% fino a quasi il 100% degli italiani. Mentre per gli svedesi si scende dal 20% al 2% della popolazione "bloccata o impoverita". Eppure tutti i paesi esaminati nell'indagine (Nordamerica ed Europa occidentale) hanno subito lo stesso shock esterno: dopo la crisi finanziaria globale del 2008 il Pil si è ridotto in tutte le economie senza eccezione.

Il Rapporto McKinsey è molto dettagliato su ciò che fa la differenza tra i due estremi di Italia e Svezia. Il modello svedese si fonda su una serie di ricette originali. A cominciare dai rapporti di forze sociali. "Il 68% dei lavoratori svedesi sono sindacalizzati", un record in tutto l'Occidente.

Questo li ha resi capaci di spostare in loro favore la distribuzione nazionale del reddito, la ripartizione della "torta" fra profitti e salari. E' un tema centrale, perché nell'insieme dell'Occidente questo è un periodo dominato da una dinamica del tutto opposta: "I profitti delle imprese sono saliti ai livelli record dagli ultimi tre decenni, +30% rispetto al 1980". Torna in primo piano la battaglia distributiva, che era stata al centro dell'attenzione negli anni Settanta, poi fu contrastata dal liberismo che dava la priorità alla crescita. Da Ronald Reagan e Margaret Thatcher in poi, si è imposto il dogma secondo cui non conta la diseguaglianza tra i ricchi e il resto della società, perché "quando sale la marea alza tutti i battelli, grandi e piccoli". Più di trent'anni dopo, lo studioso delle diseguaglianze Thomas Piketty sconfigge il padre del neoliberismo Milton Friedman. Un eccesso di diseguaglianze contribuisce alla "stagnazione secolare", bloccando la crescita. Lo stesso Rapporto McKinsey è generoso di riconoscimenti verso Piketty: a conferma che ormai l'attenzione alle diseguaglianze è trasversale, non è un tema "ideologico". (La società McKinsey, nota soprattutto per le consulenze d'impresa, non ha fama di essere un think tank radicale).

Il modello Svezia, così come lo illustra questa indagine, contiene vari altri ingredienti che si riconducono all'importanza dell'intervento pubblico. Sono state messe in opera "normative per proteggere i salari". Dopo la crisi finanziaria globale il governo svedese "ha operato d'intesa con i sindacati per raggiungere accordi di riduzione temporanea degli orari di lavoro, in alternativa ai licenziamenti, in modo da mantenere alti livelli di occupazione". Sono state "aumentate le assunzioni con contratti a tempo determinato nei servizi pubblici", sempre al fine di contrastare l'aumento della disoccupazione. "Sono stati ridotti gli oneri sociali e il cuneo fiscale per le imprese. Sono stati offerti incentivi fiscali per le assunzioni di giovani e disoccupati di lungo periodo". Qui va precisato che, almeno in parte, l'Italia ha cambiato il suo mix di ricette in tempi recenti, ma questo non appare nel Rapporto McKinsey che si fonda prevalentemente su dati dal 2005 al 2014.

Le lezioni dalla Svezia comunque non mancano; insieme con le difficoltà ad esportarle da Stoccolma a Roma. Da una parte il "paradiso svedese" è la conferma della bontà delle ricette keynesiane: in una recessione o in una prolungata stagnazione, lo Stato è l'unico ad avere la capacità di rianimare un'economia esangue. La Svezia ha più autonomia nel decidere politiche di bilancio neo-keynesiane, in quanto non fa parte dell'Eurozona e quindi non è sottoposta alle stesse rigidità (rifiutò di entrare nell'euro con il referendum del 2003).

La Svezia parte anche da una situazione di bilancio molto più florida della nostra: il suo debito pubblico era inferiore al 40% del Pil prima della grande crisi, è aumentato da allora, ma rimane ben inferiore ai livelli italiani. Ha un'evasione fiscale tra le più basse del mondo; e una spesa pubblica notoriamente efficiente, poco viziata da clientelismi e sprechi.

Un modello davvero, in tutti i sensi.

 

Il 100% delle famiglie del Bel Paese, invece, ha meno soldi disponibili rispetto a 10 anni prima

Per Piketty il problema dell'Occidente sono le diseguaglianze che creano stagnazione

Stoccolma contro la crisi ha agevolato assunzioni, difeso i salari e ridotto oneri sociali  e cuneo

 

PERCENTUALE DI FAMIGLIE CON REDDITI PIù BASSI RISPETTO A 10 ANNI PRIMA

Valori in % decennio 2005-2014

 

Federico Rampini

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