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26 agosto 2013 1 26 /08 /agosto /2013 16:43

Rodotà: Eccome se esiste la differenza fra destra e sinistra

La distinzione con la destra, la difesa dei beni comuni, il welfare, la costituzione. Ecco la carta dei nuovi diritti "indivisibili e non sovversivi" secondo il giurista.

E' il lavoro il tema centrale. il Mercato non può governare le nostre vite.

L'istruzione , come la salute non va vincolata alle risorse economiche.


Intervista a Stefano Rodotà di Simonetta Fiori, da Repubblica

«Perché mi applaudono nelle piazze e nei teatri? In questi anni ho continuato a parlare di eguaglianza, lavoro, solidarietà, dignità. Sì, ho detto delle cose di sinistra, che nel grande silenzio della politica ufficiale hanno provocato un investimento simbolico inaspettato. Una reazione che naturalmente lusinga, ma mi crea anche qualche imbarazzo». Il nuovo papa della sinistra «altra» — quella dei diritti, dei beni comuni, della Costituzione e della rete — ci riceve in una stanzetta della Fondazione Basso, a pochi passi dai palazzi della politica che ha sempre frequentato da irregolare. Ottant’anni compiuti di recente, giurista insigne con esperienza internazionale, Stefano Rodotà ha una biografia che racconta un pezzo importante di sinistra eterodossa. Una storia lunga che dice moltissimo sull’oggi, sulle partite vinte e su quelle perdute.

In molti, anche tra i suoi antichi compagni di battaglia, sostengono che la distinzione tra destra e sinistra non ha più senso.
«È una vecchia storia, che risale ai tempi di Laboratorio politico, la rivista che nei primi anni Ottanta facevamo con Tronti, Asor Rosa e Cacciari. Non ero d’accordo allora, e oggi mi arrabbio ancora di più. Cosa vuol dire che non c’è più distinzione? Vuol dire che dobbiamo essere i fautori della pacificazione? La distinzione esiste, ed è marcata: sia sul piano storico che su quello teorico. Chi non la vuole vedere mi suscita una profonda diffidenza politica».

Proviamo a indicare qualche punto essenziale di distinzione.
«Un principio inaccettabile per la sinistra è la riduzione della persona a homo oeconomicus, che si accompagna all’idea di mercato naturalizzato: è il mercato che vota, decide, governa le nostre vite. Ne discende lo svuotamento di alcuni diritti fondamentali come istruzione e salute, i quali non possono essere vincolati alle risorse economiche. Allora occorre tornare alle parole della triade rivoluzionaria, eguaglianza, libertà e fraternità, che noi traduciamo in solidarietà: e questa non ha a che fare con i buoni sentimenti ma con una pratica sociale che favorisce i legami tra le persone. Non si tratta di ferri vecchi di una cultura politica defunta, ma di bussole imprescindibili. Alle quali aggiungerei un’altra parola-chiave fondamentale che è dignità».

Una parola molto presente nella tradizione cattolica.
«In parte viene da lì. E qui ho dovuto rivedere alcuni miei giudizi giovanili insofferenti al personalismo cattolico, che lasciò una forte traccia sulla Costituzione. Ma la dignità è anche legata al tema del lavoro. C’è un passaggio essenziale della Carta, l’articolo 36, che stabilisce che la retribuzione deve garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La nostra Costituzione, insieme a quella tedesca, rappresentò l’unica vera novità del costituzionalismo del dopoguerra. Noi con il lavoro, i tedeschi con l’inviolabilità della dignità umana, principio reso necessario dai crimini del nazismo».

Le uniche due novità provenivano dai paesi sconfitti?
«Sì, Italia e Germania avvertivano più degli altri il bisogno di uscire da un mondo tragico per rifondarne uno radicalmente diverso ».

In fase costituente, il giurista Costantino Mortati tentò di introdurre una distinzione tra diritti civili e diritti sociali, tra quelli che non hanno un costo e quelli vincolati alle risorse dello Stato, quindi garantendo a priori i primi e impegnando lo Stato a trovare le risorse per i secondi, ma senza assicurarne il pieno godimento. Poi prevarrà un’altra interpretazione, che include i diversi diritti in un’unica categoria. Interpretazione che alcuni oggi vorrebbero rivedere.
«Due obiezioni essenziali. Primo: il ritenere questi diritti indivisibili non è un principio sovversivo, ma viene sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Secondo: esso vale come vincolo nella ripartizione delle risorse. Dire che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro mi costringe a tenerne conto quando distribuisco le voci di bilancio. Lo so che la salute costa, ma quando l’articolo 32 mi dice che è un diritto fondamentale, la politica non può prescinderne. E venendo alla formazione, se la scuola pubblica è un obbligo per lo Stato, finché io non ne ho soddisfatto tutti i bisogni, alla scuola privata non do niente. Troppo brutale?».

No, molto chiaro.
«È evidente che il welfare va rivisto sulla base delle risorse, ma chi agita la bandiera dei “diritti che costano” mi sembra voglia liberarsi dell’ingombrante necessità di discutere di politiche redistributive. Spesso sono gli stessi che dicono che non c’è distinzione tra destra e sinistra».

Lei cominciò nelle file radicali.
«No, in realtà esordii nell’Unione goliardica italiana, che era il movimento giovanile universitario. Lì è cominciata la mia storiella da cane sciolto. Lettore del Mondo ma insofferente alle chiusure anticomuniste di Pannunzio. Compagno di viaggio dei radicali, ma allergico all’autoritarismo di Pannella. Poi molto vicino al Psi guidato da De Martino, ma pronto a litigare con un arrogantissimo Craxi divenuto vicesegretario. Infine nella Sinistra Indipendente, che però era irregolare di suo. Non sono mai stato intrinseco a nessun partito. L’unico mio punto fermo sono stati i diritti».

La «storiella da cane sciolto» ha a che fare con la mancata elezione a presidente ella Repubblica?
«Forse sì, ed è per questo che non ci ho mai creduto. A un certo punto ho avvertito la necessità di metterci la faccia per impedire quello che poi è successo: le larghe intese e la pacificazione nazionale».

L’hanno accusata da sinistra di aver dato una sponda ai grillini.
«Semplicemente puerile. Era stato Bersani a cercare per primo l’intesa con loro, e allora mi apparve la cosa giusta».

Ma i Cinquestelle sono di sinistra?
«Non è facile rispondere. Dentro il movimento ho trovato dei contenuti che si possono riferire a una cultura di sinistra: diritti, ambiente, beni comuni. Ma quando s’è trattato di dare uno sbocco parlamentare a queste idee è arrivato l’alt di Grillo».

Che è tra quelli che dicono che non c’è distinzione tra destra e sinistra.
«Appunto. Non è di sinistra. Ma ha saputo intercettare un desiderio di cambiamento diffuso nella società civile. L’ha interpretato sul piano della protesta, però non ha saputo dargli una traduzione politica, con l’effetto di sterilizzarlo ».

Perché il Pd non l’ha sostenuta nelle elezioni presidenziali?
«È un partito dall’identità debole, gli è parso troppo arrischiato affidarsi a una personalità fuori dalle righe. Sì, capisco che la scelta di fare una trattativa con i grillini avrebbe richiesto un po’ di azzardo. Ma il cambiamento richiede coraggio. E la sinistra è cambiamento».

Nessun risentimento?
«No, il mio giudizio è esclusivamente politico: hanno sbagliato nel rinunciare alla strada del cambiamento. E hanno sbagliato nel silurare Prodi. Quando seppi che Romano era il nuovo candidato del Pd, feci subito una dichiarazione pubblica in cui mi dicevo pronto al passo indietro. Sul treno per Reggio Emilia mi chiamò lui dal Mali. “Come mi dispiace Stefano, noi così amici e ora contrapposti”. Quando gli dissi del mio passo indietro, lui mi ringraziò per avergli tolto un peso».

Che effetto le fa essere acclamato in piazza come il nuovo papa rosso?
«Sono un po’ imbarazzato, e non so come uscirne. Naturalmente sono grato a tutte queste persone. Però il problema della sinistra non può stare sulle mie spalle. Dalle manifestazioni sulle leggi-bavaglio a quelle delle donne, dalle piazze studentesche al referendum sull’acqua, esiste un’altra sinistra che la politica istituzionale si ostina a non vedere. Intorno a questo mondo è possibile costruire».


 

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26 agosto 2013 1 26 /08 /agosto /2013 15:04

SCANDICCI (Firenze) Date retta a Bobo, non a Brecht. Si può essere gentili. Anzi si deve essere gentili, per fare qualcosa di sinistra. Sergio Staino non ha bisogno che gli reciti la citazione, la sa a memoria, e sospira: «Quanti danni ci hanno fatto quei versi: "Noi che volevamo preparare il terreno per la gentilezza / noi non potemmo essere gentili...". Ma va' ... E così, dispensati in partenza dall' essere gentili, abbiamo avuto Pol Pot...». I dolci colli fiorentini punteggianti d' ulivi sono di sinistra: indulgono alla gentilezza. Il disegnatore satirico più organicamente irrequieto della sinistra, il padre del personaggio disegnato che da trent' anni è il più amato dai militanti, lo intuisce più che guardarlo dalle finestre della sua casa sul poggio. Staino, a 73 anni, ormai vede pochissimo con gli occhi del corpo, per disegnare tuffa il naso nel grande luminoso touch screen «che mi ha salvato la vita». Ma vede bene con gli occhi dell' anima. Staino, la sinistra è un sentimento allora? «Sinistra è una grande naturale sensibilità, una tendenza dell' animo umano. Sinistra è una disposizione mentale ed etica che viene prima della scelta politica, è la base, la condizione necessaria della politica. È un atteggiamento di fondamentale bontà verso l' uomo e il mondo, un intimo personale senso di bontà. Ogni altra considerazione viene di conseguenza. Per essere di sinistra devi essere luminoso nel modo in cui stai su questa terra». Fratello sole sorella luna...? Pensa a una sinistra francescana? «Grande uomo di sinistra, San Francesco. Come padre Balducci, del resto. Averlo incontrato mi mise in crisi. Possiamo dividerci sulle cose da fare, ma chi è di sinistra lo vedi in faccia, don Gallo ad esempio, io mica ero del tutto d' accordo con lui, era un grillino, uno spericolato, ma era di sinistra sicuro, era uno con cui potevi discutere, litigare, abbracciarti». Non ci vuole anche un po' di critica dello stato di cose presente? «Non è la prima cosa. Chi ne fa la prima cosa finisce per uscire di strada. La ricerca della giustizia condotta senza bontà l' abbiamo già vista, purtroppo, nella storia della sinistra. Quanti inquisitori "giusti" e spietati, quanti Saint-Just... Non è di sinistra essere l' accusatore pubblico che parla solo con gli atti giudiziari, l' implacabile che considera qualsiasi cosa capiti sotto la sua lama come un nemico personale da distruggere». Non bisogna avere nemici? «Non bisogna essere ossessionati dal nemico. "Alle Cascine un albero t' aspetta", si cantava una volta nei movimenti che frequentai pure io. Finiva che il tuo obiettivo era più che altro costruire una forca. Se mitizzi il cinismo, quel che ti resta è integralismo. E poi perdi. Quando l' unico elemento che ti fa sentire un uomo di sinistra è distruggere Berlusconi o mandarlo in galera, allora mi preoccupo assai. E penso sia chiaro a tutti come la penso io su Berlusconi». Bisogna essere più gentili con Berlusconi? «Non ho mica detto indifferenti o ingenui. Il buono si indigna, s' arrabbia di fronte a quel che non è buono. E allora certo che gli avversari li trovi. Ma questo accade dopo, quando arrivi all' azione politica. Lì non ti basta più essere "di sinistra", perché ti viene chiesto di fare. Allora ti serve un altro aggettivo, più specifico, l' aggettivo della prassi. Il mio aggettivo della prassi, si sa, per tanti anni è stato "comunista". Ma quando ho capito a cosa aveva portato quella prassi, non mi sono più definito comunista. Questo dovrebbe chiarire la differenza fondamentale fra sentirsi di sinistra e fare politica, fra essere e appartenere». Ha trovato un nuovo aggettivo della prassi? «Avrei scelto socialista, che è un "fare" meno compromesso dalla storia, ma in Italia socialista vuol dire Craxi e Cicchitto, e francamente come si fa... Allora, in attesa di qualcosa, io risalgo di un livello e rimango "di sinistra"». Insomma un' identità provvisoria, da completare. «Be' , sono in grande e nobile compagnia su quel piano, da papa Francesco a Mandela... Mentre lì non ci troverò mai il carrierista, il professionista della politica, lo stalinista, il terrorista: nessuno di questi ha un atteggiamento luminoso verso il mondo. Il criterio è molto chiaro». Non ci sono brave persone di destra? «Eccome, ne conosco tante, generose, piene di valori. Sono di destra perché non hanno ancora capito cosa ci stanno a fare con la destra». Pare invece che essere di sinistra oggi sia adeguarsi a un piccolo manuale di istruzioni pratiche: pagare le tasse, fare la raccolta differenziata... Non potendo cambiare il mondo, ci si accontenta di cambiare pattumiera? «Che c' è di male? Chi fa la differenziata va bene anche lui, dimostra attenzione al mondo, sincerità e apertura. Se a questa disponibilità però non offri uno strumento per fare, non succederà mai nulla, e allora la sensibilità resta nascosta e inutile. E alla fine la crisi ti intristisce e ti distrugge». Ma è sicuro che basterebbe uno strumento buono per rimettere in piedi la sinistra? Non è andato in crisi il concetto stesso? «Questa cosa del "né di destra né di sinistra" è vera, ma riguarda i partiti, ormai non si capisce più da che parte stanno, ci si può alleare con chiunque... Ma non riguarda le persone. La maggioranza degli italiani è di sinistra, non è vero che "la gente è di destra", è la scusa della politica incapace per giustificare i propri fallimenti. Io sono ottimista, siamo seduti su una cassa d' oro, c' è un tesoro di volontà, se solo si potesse organizzarlo...». Ha nostalgia del partito? «Questo è il problema, la politica è diventata un mostro che beve il sangue che lo dovrebbe far vivere. Non ho nostalgia di quel partito, ma di un partito c' è bisogno. I partiti di adesso sono professioni istituzionali, percorsi di carriera...». La casta... «Chi sta in un partito dovrebbe sapere che si impegna per una cosa perché ci tiene a fare quella cosa, che fa il sindaco per fare il sindaco e non per diventare appena può consigliere regionale, deputato e ministro, anzi bisognerebbe proprio impedire per regola, vietare esplicitamente la carriera nei partiti». In quel caso, non vedo la fila davanti alle sezioni di partito... «Ma perché? Ma chi l' ha detto? I missionari esistono e non sono dei santi o degli asceti. Sono persone che hanno a cuore la terra madre, che vedono un orizzonte planetario, che tengono al bene comune. Sono quelli che non credono che la rivoluzione sia prendersi le fabbriche del padrone per produrre le stesse cose che faceva lui... Il socialismo non può essere "il capitalismo gestito da noi" come pensavano i compagni emiliani...». Anche a Bobo oggi basta questa definizione di sinistra? «Bobo ha fatto una cosa molto di sinistra, ha liberato l' autoironia del militante dalla gabbia plumbea che accompagnava la parola "comunismo". Quell' autoironia c' era già, ed era più forte di quel che pensassi io stesso, Tango travolse i dirigenti perché piaceva ai militanti, e Bobo ha avuto una fortuna e una longevità che non mi sarei mai aspettato. Se la sinistra in Italia ha resistito alle macerie del Muro di Berlino, è anche un po' merito suo». Forse è stato un grande consolatore... «Forse, ma non si è adeguato mai, e non s' è rassegnato mai». L' ha fatto impiccare per disperazione, e poi l' ha resuscitato, come Collodi con Pinocchio, il burattino che aspettava la sua rivoluzione, cioè diventare un bambino vero. Cosa sta aspettando Bobo? «Forse un partito che dica: non voglio i voti della paura e della rabbia, voglio i voti della bontà e della gentilezza. Sono un po' un prete, dice?».

MICHELE  MARGIASSI

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24 agosto 2013 6 24 /08 /agosto /2013 19:30

di Stefano Rodotà, da Repubblica, 20 luglio 2013

Molti fatti, in questi giorni, hanno destato scandalo, suscitato proteste, acceso qualche fuoco d' indignazione. Ma non sono il frutto di una qualche anomalia, non rientrano nella categoria delle eccezioni o degli imprevisti. Appartengono a quella "normalità deviata" che caratterizza ormai da anni il funzionamento del sistema politico.

Ha corroso il costume civile, accompagna il disfacimento del sistema industriale e la terribile impennata della povertà. Il caso Alfano è davvero una illustrazione esemplare del modo in cui questa normalità deviata è stata costruita, fino a divenire l' unica, riconosciuta forma di normalità istituzionale. Lasciando da parte la responsabilità oggettiva per fatti di cui non avrebbe avuto conoscenza, bisogna chiedersi quale ruolo giochi la responsabilità politica. 

Dove va a finire questa specifica forma di responsabilità quando si adotta questo tipo di argomentazione? Scompare, anzi è da tempo scomparsa, creando una zona di immunità nella quale i titolari di incarichi istituzionali si muovono liberi, quasi estranei alle strutture che pure ad essi fanno diretto riferimento, anche quando il funzionamento di queste strutture produce gravi conseguenze politiche. La responsabilità politica, anzi, finisce con l' essere considerata come una insidia, un rischio. Guai a farla valere se così vengono messi in pericolo la stabilità del governo, gli equilibri faticosamente o acrobaticamente costruiti. 

Questo particolare tassello della normalità deviata finisce con il rivelare la più profonda distorsione del nostro sistema politico - l' essere ormai prigioniero di uno stato di emergenza permanente. Questo è divenuto l' argomento che inchioda il sistema politico alle sue difficoltà, negandogli la possibilità di sperimentare soluzioni diverse da quelle che, via via, mostrano i loro evidenti limiti, fino a sottrarre alla politica ogni legittimo margine di manovra. Di nuovo la normalità deviata, di fronte alla quale vien forte la tentazione di pronunciare un "elogio della follia politica", che spesso consente di cogliere i tratti reali di una situazione assai meglio del realismo proclamato.

Era davvero imprevedibile quello che sta accadendo, l' intima fragilità delle "larghe intese" che, prive di qualsiasi collante politico, sono in ogni momento esposte a fibrillazioni, ricatti, strumentalizzazioni? È la mancanza di coraggio politico a produrre instabilità. Così non soltanto l' orizzonte dell' azione di governo si accorcia sempre di più, fino a ridursi al giorno dopo. Soprattutto si perde la capacità di operare in modo adeguato alle situazioni di crisi e di ripartire le risorse rispettando le vere priorità, le emergenze effettive.

Infatti, si accettano come variabili indipendenti quelle che, invece, sono pretese settoriali o prepotenze di parte. Problemi procedurali a parte, com' è possibile ripartire le scarse risposte disponibili assumendo come tabù intoccabile l' acquisto degli F-35, mentre premono altre e più drammatiche necessità? Com' è possibile inchiodare fin dal primo giorno l' azione del governo intorno alla questione dell' Imu, condizionando l'intera strategia economica per soddisfare una promessa elettorale di Berlusconi, mentre svaniscono quelle del Pd?

In questa normalità sempre più deviata non riescono a trovare posto le vere, grandi emergenze. Mentre si dissolve l' apparato industriale, non vi sono segni di una vera politica industriale. Neppure questa è una novità, perché si tratta di una eredità dei governi Berlusconi e pure del governo Monti, dove quelle due parole venivano liquidate quasi con disprezzo come si facesse cenno a una inammissibile interferenza nel mercato.

E da questa ulteriore assenza di politica viene un contributo all' aggravarsi della situazione economica, che ormai deve essere letta partendo dalle cifre impressionati sulla povertà. Le ha analizzate efficacemente e impietosamente Chiara Saraceno, sottolineando pure la necessità di modifiche strutturali, come quelle riguardanti l' avvio di forme di reddito garantito. Un governo blindato, dunque, non è necessariamente sinonimo di governo forte e efficiente. Ma la normalità deviata non la ritroviamo solo nel circuito istituzionale. È dilagata nella società, con effetti perversi che verifichiamo continuamente osservando il degradarsi delle regole minime della convivenza civile.

So bene che il caso Calderoli è vicenda miserevole. Ma bisogna ritornarci perché si sono ricordati i precedenti di questo eminente rappresentante della Lega, dalla maglietta contro l' Islam all' annuncio di passeggiate con maiali dove si pensava di costruire una moschea. Nulla di nuovo, allora. Gli insulti alla ministra Kyenge appartengono a questa perversa normalità, accettata e addirittura premiata con incarichi istituzionali. Ma Calderoli non era e non è solo, è parte di una schiera che ha fatto del linguaggio razzista, omofobo, sessista un essenziale strumento di comunicazione, per acquisire consenso e costruire identità. E infatti, per giustificarlo, si è detto che le sue erano parole da comizio, dunque legittime, senza rendersi conto dell'enormità di questa affermazione: la propaganda politica può travolgere il rispetto dell' altro, negandone l' appartenenza stessa al comune genere umano, pur di arraffare un miserabile voto. 

Ma era una battuta, si è detto. Lo sentiamo dire da anni, senza che questa pericolosa deriva sia mai stata contrastata seriamente da nessuno. Anzi, è stata sostanzialmente legittimata da due categorie - i realisti e i derubricatori. Innocue quelle battute, derubricate a folklore, a modo per avvicinare il linguaggio della politica a quello dei cittadini. Ma il linguaggio è strumento potente e impietoso, e oggi ci restituisce l'immagine di una società degradata, nella quale sono stati inoculati veleni che l' hanno drammaticamente intossicata. Inutili moralismi, ribattono i realisti, che guardano alla Lega come forza politica, addirittura come una "costola della sinistra". Ma una cosa è considerare la rilevanza politica di un fenomeno, altro è accettarne ogni manifestazione, rinunciando a contrastare proprio ciò che frammenta la società, ne esaspera i conflitti. Altre deviazioni potrebbero essere ricordate. E tutto questo ci dice che, per tornare ad una decente normalità, serve una innovazione politica profonda, che esige altre idee e altri soggetti.

(22 luglio 2013)

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22 agosto 2013 4 22 /08 /agosto /2013 07:29

LE SI CAPISCONO GUARDANDO I BAMBINI GIOCARE: QUESTO VALE ANCHE PER LA DEMOCRAZIA

Non servono nuovi linguaggi ma restituire dignità e valore alle parole usate.

Fabrizio Gifuni ha restituito agli italiani lo sguardo e la voce di Franco Basaglia in un magnifico film per la televisione, C'era una volta la città dei matti ". È "diventato" Basaglia. Poi con Giuseppe Bertolucci ha portato in teatro Pasolini e Gadda, spettacoli vertiginosi frutto di dieci anni di lavoro. Ha registrato il Pasticciaccio per Emons, tredici ore di audiolibro che sembra un'orchestra, ha preparato una lezione spettacolo con testi preziosi e dimenticati: è "diventato" Gadda. Alla fine del monologo che chiudeva lo spettacolo erano talmente tanti gli spettatori che andavano a chiedere se il testo non fosse stato riscritto da lui e riferito al presente che nei foyer hanno dovuto affiggere un'avvertenza: «Ogni parola è dell'Autore. Nessuna modifica è stata apportata ai testi di Gadda». È stato Aldo Moro per Marco Tullio Giordana in Romanzo di una strage, quel Moro che a Saragat dice senza dire: io so che tu sai di chi è la mano che arma le bombe. In questi giorni si diverte e si illumina a parlare dei due film che sta girando per due maestri della commedia italiana: Paolo Virzì e Francesco Bruni. Ride dell'altrui stupore, di quelli che «ma come, un interprete così serio e impegnato, cosa c'entra con la commedia?».

Ci volevano due livornesi per risolvere finalmente questo equivoco... «Questa faccenda che per essere seri si debba essere severi, possibilmente cupi, è francamente un po' ridicola.

Interpretare la realtà per un attore significa assumere il punto di vista dell'altro, capirne le ragioni e restituirle al pubblico. Vale per Basaglia come per il padre un po' cialtrone e in controtempo del film di Bruni. Per capire chi siamo servono tutte le note dello spartito, tutti gli sguardi. Ma la leggerezza è fondamentale.

Dobbiamo parlare di sinistra? Ecco, la sinistra italiana, fra le tante cose, si è fatta rubare l'allegria. Da gente che ha spacciato per due decenni un carnevale avariato per buon umore. Riuscendoci. È diventata nell'immaginario di molti un luogo cupo, pieno di paure e di divieti. È davvero un peccato. Passa la voglia, così». Passa la voglia di impegnarsi ancora, o di parlare di politica? «Di parlarne, di essere costretti a ripetere stancamente, da anni, le battute di un pessimo film che sembra non finire mai.

Altra cosa è l'impegno, quello non può cessare mai per chi ha la fortuna di fare qualcosa in cui ciò che sei coincide con ciò che fai. L'energia che investo in teatro è il mio primo atto politico. In quel flusso di energia spudorata, in quello che scelgo di fare e ancor più di non fare, nella libertà del corpo, nella possibilità di condividere bellezza e conoscenza e di trasformarle in un felice contagio per la comunità, in questo consiste la mia personale linea politica. Non so se tutto questo possa dirsi di sinistra. Di certo significa occuparsi di polis. Sul piano della politica in senso stretto invece - quella di cui leggiamo sui giornali per intenderci - è lì che come tanti avverto un senso forte di scollamento»

. Delusione? «Qualcosa di più profondo temo, alle delusioni ci siamo abituati. Credo che il distacco dolorosissimo a cui sono state portate un numero impressionante di persone che si sono riconosciute, generazione dopo generazione, nei valori ideali di quella cosa che chiamiamo Sinistra - persone da sempre e radicalmente poco inclini al qualunquismo - ecco, penso che questo senso di lacerazione sarà una delle ferite più difficili da rimarginare, di cui non poche persone porteranno la responsabilità.

Penso ad esempio che lo spettacolo miserabile a cui abbiamo assistito nei giorni delle elezioni presidenziali (quelli in cui si è deciso che non si doveva votare una delle persone più competenti ed equilibrate della sinistra italiana, quelli dei 101 che poi erano anche di più, in cui siè andati in ginocchio dal Capo di Stato a chiedergli di restare perché non sappiamo eleggerne uno nuovo, in cui il PD ha detto ai suoi elettori ci alleiamo con Berlusconi perché il momento lo richiede), ecco penso che l'odore di quelle giornate tanta gente farà fatica a levarselo dal naso per parecchio tempo. E ci terrei a dire che nella vita non sono mai stato schizzinoso».

Si ricorda il suo primo voto? «Si. Dopo la morte di Berlinguer, ho mancato per pochi mesi le europee dell'84. Ho votato alle politiche dell'87. Per Rodotà che si presentava nella Sinistra indipendente. È stata una festa ritrovarlo al Teatro Valle venticinque anni dopo e vederlo governare assemblee piene di ragazzi giovanissimi con la felicità e l'energia di un ventenne. La Costituente sui Beni comuni, rinata in quel teatro per ridare senso e concretezza giuridica a un termine che si stava usurando, è di certo una delle cose più felicemente di sinistra che abbia visto negli ultimi tempi».

Se sua figlia le chiedesse cosa significa essere di sinistra cosa le direbbe? «Le direi significa non avere paura delle cose che cambiano.

Saper accogliere le persone e pensare che i loro diritti valgono più dei soldi. Amare e difendere con tutte le forze la scuola pubblica del nostro paese. Dare spazio a chi ha talento e fantasia, senza toglierlo a chi ha bisogno. Gli leggerei una delle più belle lettere d'addio, quella che Nicola Sacco, il compagno di Vanzetti, scrive a suo figlio: "Ricordati figlio mio, la felicità dei giochi non tenerla tutta per te". Sì, le parlerei del valore della parola e del gioco».

Gioco e parola? «I bambini sanno naturalmente che per giocare bisogna darsi delle regole. Lo sanno da soli. Basta ascoltarli mentre costruiscono le storie. Il gioco è la chiave per conoscere il mondo.

Le regole sono il perimetro dentro cui tanto i bambini quanto gli adulti - con i loro corpi e le loro parole - mettono in scena lo spettacolo della propria vita. Che sia quello della democrazia, della giustizia o del teatro. Il mio ultimo esame all'università è stato procedura penale. Studiavo sui testi di Cordero, immaginavo una tesi sul Processo e il mistero del rito. Poi ho fatto Oreste... Ho preferito affrontare il tema del diritto andando in Grecia, qualche anno, a lavorare sulla tragedia».

Meglio fare l'attore che il magistrato? «Ho preferito il gioco al giudizio, questione di carattere. Non sarei stato un buon giudice, troppo emotivo e passionale. E poi ci sono snodi che ti portano dove devi andare, li vedi dopo come fossero orme. Da piccolo ascoltavo le voci, le parole degli altri, le conservavo e le imitavo. A 14 anni ho visto Volonté in Indagine su un cittadino, un'impressione enorme.

A 20 andavo a vedere Gaber, anche tutte le sere, al momento dei bis dopo gli applausi. Poi ho conosciuto i miei maestri, Orazio Costa, Theo Terzopoulos... Doveva andare così, insomma. Sulla giustizia però continuo a lavorare: con i Fanny e Alexander ne faremo uno spettacolo».

E l'allegria? I maestri di allegria? «Le cose che mi mettono allegria non sono di sinistra, sono di tutti. Bob Marley che gioca a ping pong prima di salire sul palco per cantare "No woman, no cry", Totò quando c'è Peppino, Carmelo Bene, il calcio assoluto di Platinì». E il teatro? «Il teatro assomiglia un po' alla felicità, un luogo in cui - con i corpi e gli sguardi vivi delle persone - si continua a spezzare il pane insieme. Perché questo, per inciso, significa la parola compagni: qualcuno mi sa che o non se lo ricordava o non lo ha mai saputo. Che poi vedi che le parole sono importanti... Non aver paura delle cose che cambiano, però, non significa farsi fagocitare dal tempo. Il tempo è anche un'illusione, una trappola. Non sono così sicuro che la sinistra debba reinventare a tutti costi un nuovo linguaggio per non perdere il passo. Sarebbe già un ottimo risultato ridare dignità a parole che non perderanno mai valore. Una fra tutte, uguaglianza. Che significa uguali diritti, uguali opportunità, uguali davanti alla legge. E se alcuni partiti della sinistra si ricordassero, ogni tanto, di spezzare un po' di pane con la propria gente, magari scopriremmo che non c'è più tanto bisogno di riordinare il senso delle parole. Chissà».

CONCITA DI GREGORIO – La  Repubblica

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9 agosto 2013 5 09 /08 /agosto /2013 17:31

MARCO REVELLI BISOGNA SENTIRE LO SCANDALO DELLA DISEGUAGLIANZA

TORINO «Cosa vuol dire essere di sinistra? È un impulso prepolitico, una radice antropologica che viene prima di una scelta di campo consapevole. Davanti alle disparità di classe o di censo o di condizione sociale, c' è chi si compiace, traendone la certificazione del proprio essere superiore.

E c' è chi si scandalizza, come capitò a Norberto Bobbio quando scoprì da bambino la miseria dei contadini che morivano di fame. Lo "scandalo della diseguaglianza", lo chiamò proprio così. Un' indignazione naturale, che non è comune a tutti».

Nella casa dove visse Gobetti, tra i libri di Antonicelli e i grandi faldoni dell' azionismo, Marco Revelli ci fa strada lungo i segreti cunicoli di un palazzo ottocentesco, da cui forse ha inizio parte della storia. Una storia di sinistra che nel caso di Revelli - classe 1947 e una nutrita bibliografia tra storia, economia e sociologia - s' incarna anche nella figura del padre Nuto, cantore del "mondo dei vinti" e mitico comandante di Giustizia e Libertà. «Una montagna troppo alta da scalare», dice il figlio con la mitezza di chi se lo può permettere. Lo "scandalo della diseguaglianza".

 Lei quando cominciò ad avvertirlo?

«Da bambino, quando facevo le scuole elementari a Cuneo. Negli anni Cinquanta la frattura sociale era molto visibile, e nella mia classe convivevano ceti molto diversi. Una mattina venne chiamata la madre di due miei compagni, a quel tempo alloggiati in una caserma abbandonata. Davanti a tutta la scolaresca fu severamente rimproverata perché i suoi bambini non si lavavano. Io provai un grande disagio. Non dissi nulla a casa».

 E anche oggi, in una realtà nazionale radicalmente mutata, lo scandalo si ripete. «Quello nato dopo la morte del Novecento è un mondo infinitamente più diseguale. Ed è un mondo che non offre alternative a se stesso. Sono queste le grandi sconfitte storiche della sinistra, ossia di una forza politica e culturale che possiede nel Dna il valore dell' eguaglianza e la capacità di immaginare un' alternativa allo stato di cose presente».

 Però ogni volta che ha promesso un mondo più felice ha prodotto grande infelicità. «La catastrofe del socialismo reale è parte della scomparsa della sinistra, che ne è stata paralizzata. Ma una sinistra che rinuncia a proporre un altrove cessa di essere sinistra. È nata proprio per quello. Accadde nel 1789 a Versailles, quando alla sinistra della presidenza dell' assemblea si schierarono coloro i quali erano contro il potere di veto del Re. Così cadde l' ultimo pilastro dell' Ancien Régime. Non c' è bisogno di alzare la ghigliottina. Basta un voto per sancire la fine di un ordine. E l' inizio di un altro».

La sinistra come il Candide di Voltaire, che gioisce del mondo in cui vive ritenendolo il migliore possibile. «Sì, un Candide un po' tardivo, con un risvolto beffardo. La sinistra ha rinunciato a immaginare un' alternativa proprio nel momento in cui il mondo in cui aveva deciso di identificarsi stava entrando in crisi. Mi riferisco all' ultima reincarnazione del capitalismo - il "finanzcapitalismo" secondo la felice definizione di Luciano Gallino - cioè un' economia già provata, che per tenersi in piedi ha bisogno del doping della finanza. Bene, quando la casa cominciava a manifestare le prime crepe, la sinistra s' è seduta alla tavola apparecchiata, contenta di esserci: finalmente siamo come gli altri».

 Finalmente siamo uomini di mondo: le scarpe di buona fattura, le belle case, gli agi borghesi un tempo contestati... «Una sorta di apocalisse culturale, sia sul piano delle filosofie - la fine della ricerca di senso - sia su quello sociale. Più che combattere il privilegio, l' impressione è che si sia cercato di entrare nella sua cerchia. Ma le radici cattive affondano nel Pci, di cui forse andrebbe riscritta la storia». Dalla sua ricostruzione, però, i padri sembrano migliori dei figli. «Gli eredi delle sinistre novecentesche non sono stati all' altezza del compito. È un universo popolato di figure fragili. O perché continuano a proporre categorie che sono morte con il Novecento, con effetti patetici. O perché dalla Bolognina in poi- più che interpretare e governare i processi storici - hanno scelto di galleggiare su un senso comune condiviso». Vuole dire che la sinistra è rimasta senza eredi? «C' è una sinistra radicale che muore volontariamente intestata, ossia senza testamento, ed è quella espressa da Rossana Rossanda. E la sinistra più istituzionale ha seguito altre rotte.

La generazione del ’68 ha fallito e la politica ormai è un buco nero. Abbiamo disperso la nostra storia: le nostre idee sono finite nei supermercati

 La mia generazione - in questo senso - ha completamente fallito. Rappresentiamo nella politica un enorme buco nero. E il fallimento s' acuisce nei confronti delle nuove generazioni, che hanno tutte le ragioni per metterci sotto processo. Abbiamo monopolizzato l' idea della trasgressione senza riuscire a costruire un mondo vivibile e alternativo».

Sta parlando della generazione sessantottina. «Sì, le nostre idee non sono state utilizzate dai poveri del mondo, ma dai supermercati. Vogliamo tutto, lo vogliamo subito. Però ci sono state anche cose buone».

 Come reagì suo padre Nuto alla scelta del figlio di militare in Lotta Continua? «Lo spaventava il nostro estremismo, ma era affascinato dalla diversità rispetto al mondo politico ufficiale. Però vedendomi troppo impegnato al ciclostile una volta mi disse: scegli la professione che vuoi, ma fai in modo di non dover dipendere dalla politica. Non saresti un uomo libero».

 Cosa significò per lei crescere in una famiglia di sinistra? «Mio padre rappresentava il peso della storia. Una volta il maestro disse in classe che i partigiani rubavano le mucche. Tornai a casa un po' turbato e gli raccontai tutto. La sera mi diede un pacchetto con Le lettere dei condannati a morte della Resistenza, e una dedica per il mio insegnante: "Perché sappia come sanno morire i partigiani".

 Passai una notte insonne, stretto tra due autorità. L' indomani consegnai il libro al maestro, che restò in silenzio». Una guida preziosa. «Anche faticosa. Una montagna troppo alta da scalare, come dice Venditti. Era impegnativo nell' adesione ai suoi valori perché ne avvertivo una responsabilità famigliare. Ma era impegnativo anche nel necessario conflitto. Con i padri è un passaggio obbligatorio, se no ti porti dietro il complesso di Telemaco».

 Entrambi dalla parte dei vinti. Però ai contadini di Nuto Revelli lei ha sostituito gli operai. «Un' altra cosa che gli devo: mi ha insegnato ad ascoltare. Da giovane arrogante, che distribuiva i volantini davanti ai cancelli della Michelin, io allora lo contestavo: ma cosa vai ad occuparti di un mondo che è già morto? È una fortuna che, da egoisti coltivatori anche reazionari, siano diventati classe operaia, dunque rivoluzionaria, eredi della filosofia classica tedesca... ».

E lui? «Sorrideva, ma non cambiava idea. E aveva ragione lui. Quelli che sono andati in fabbrica non sono diventati gli eredi della filosofia classica tedesca. E dall' altra parte è finita una civiltà che aveva certo elementi di ferocia, ma era provvista di un esemplare equilibrio nel rapporto tra uomo e natura, quello stesso che oggi dovremmo avere l' umiltà di ripristinare. Lui diceva sempre: abbiamo trasformato decine di migliaia di specialisti della montagna in operai di fabbrica dequalificati, e poi le montagne ci cadono in testa. Sì, aveva ragione lui. Per fortuna sono riuscito a dirglielo».

E ora, a sinistra, da cosa si riparte? «Intanto bisogna uscire dall' involucro. Rompere la bolla in cui si è cacciata la politica. Una costellazione di oligarchie, in cui si diventa oligarchi alla velocità della luce. Nel momento in cui vieni eletto in Parlamento diventi altro da te. Ho visto persone cambiare, nello sguardo, nel linguaggio, nel modo di vestire. L' ho visto in tutti, quasi senza eccezioni. Se vuole ripartire, la sinistra deve spezzare quell' involucro».

SIMONETTA FIORI 

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8 agosto 2013 4 08 /08 /agosto /2013 14:52

La terra è un bene comune Intervista TV la Repubblica a Carlo Petrini e Ermanno Olmi

http://video.repubblica.it/dossier/repubblica-delle-idee-2013/la-terra-e-un-bene-comune/131020/129525

La prima cosa da fare è togliere il punto interrogativo al titolo dell’incontro: la Terra è un bene comune. Senza incertezze e senza mediazioni. Senza altre mortificazioni. Carlo Petrini e Ermanno Olmi ne hanno parlato con Gregorio Botta, vice direttore di Repubblica. Un incontro applauditissimo ed emozionante, che si è chiuso con le parole di Olmi, che abbracciando il sindaco Renzi, ha detto: “Lascerò questa città con la sensazione che qui sta ricominciando una nuova storia per l’umanità. Un nuovo Rinascimento. Ti ringrazio”.

Tante le questioni aperte, appassionate le parole di Petrini e Olmi, intensa la partecipazione del pubblico, che ha sottolineato con lunghissimi applausi gli interventi.

Petrini: “Io quel punto interrogativo non lo avrei messo – ha esordito Petrini -. Dopodiché direi che bisogna partire da un fatto: la Terra siamo noi. E noi siamo parte del tutto. Il disastro ambientale è una grande tematica dell’umanità. Può portare alla fine dell’uomo sapiens. Quel punto interrogativo, però, può essere lo stimolo per capire che stiamo andando verso il baratro. Ma questa situazione non è risolvibile senza cambi di comportamenti. Dispiace che la politica non intercetti la priorità di questi argomenti e continuare a chiedere alla terra madre sempre di più ci porta verso il baratro. O la politica lo capisce, oppure la comprenderà attraverso la sofferenza di milioni di persone”.

Olmi:“Ho l’abitudine a metà mattina di fare una merendina e me la sono portata anche qui. Questa è una melina selvatica. Madre Terra quando ha pensato di fare le mele le ha pensate così. L’uomo invece si è voluto misurare con la natura e ha detto: adesso ti faccio vedere cosa so fare io e ha fatto delle mele grandi così che devono stare un anno in cella frigorifera per decantare i veleni che hanno. Vi invito a fare una merendina qui con me in modo che possiate capire che queste sono le mele…. L’unico modo per ribellarci è non consumare le cose che ci vogliono imporre. La natura ci ha preparato la casa dove vivere. Perché dobbiamo violare questa casa, perché dobbiamo offendere nostra madre?

Petrini: “Molti ci accusano di essere bucolici, di fare poesia. Ma queste meline non appartengono alla dimensione bucolica ma alla dimensione della nostra vita quotidiana e alle prospettive politiche del mondo. La nostra costituzione ha come elemento centrale il riconoscimento del lavoro. In tutti i paesi latino-americani, invece, la costituzione sta spostando l’asse verso sovranità alimentare. Vengo dal Messico, dove è nato il mais. La situazione dei contadini messicani è di povertà alimentare, sono alla disperazione. Nel contempo, in base al libero mercato, il Messico importa l’80% del riso, il 40% della carne, il 20% dei fagioli e, pensate, il 33% del mais. E’ poesia inserire in una costituzione che la sovranità alimentare in questi paesi significa sopravvivenza? Dobbiamo continuare a far entrare prodotti transgenici e a rovinare l’agricoltura? Chi mi dice che questa è poesia io lo mando a quel paese, santo iddio”.
Olmi: “La democrazia è nata in Grecia, settecento anni prima di Cristo, perché c’era la necessità di trovare un equilibrio tra i vari interessi dei cittadini. Ora faccio salto di qualche secolo e vado in una valle delle nostre Alpi. Dove c’erano ruscelli e si viveva con la collaborazione della forza motrice dell’acqua. Faccio altro salto, quando è arrivata l’elettricità tutto questo è stato abbandonato e distrutto e siamo passati da forme di energia a carbone o petrolio. Noi disponiamo di una miniera di energia fluviale che può produrre quanto basta per le nostre esigenze di forza motrice. Se noi oggi come sogno, ma non come utopia, prendiamo in considerazione lo scorrere dell’acqua avremo energia pulita, rinnovabile. Noi siamo alla vigilia di un possibile, grande progresso, epocale, rinascimentale e lo possiamo compiere solo se prendiamo atto dei disastri, che non sono più sopportabili. Come possiamo andare a letto la sera e sapere che lì fuori l’acqua mi dice guardami, ti aiuto... Voi mi dite che questa è poesia. No, è realtà”

Petrini: “Dobbiamo imparare a governare il limite. Se non lo facciamo e abbiamo sempre l’esigenza di aumentare siamo complici di questa distruzione. Il governo del limite sarà l’elemento distintivo della nuova economia”.

Olmi: “Il senso del limite non è una punizione, è una conquista. In questo limite c’è la scoperta di quelle componenti che danno gioia, nel caso nostro la convivialità. Vi faccio una domanda: quando avete mangiato l’ultimo pancotto? Sono croste di pane cotto - con economia nuova da dare alle galline – che con due cipollotti, una foglia di alloro e una fetta di lardo è un piatto fantastico. Oggi non c’è più quella dignitosa povertà, oggi la differenza è tra chi ha troppo e chi muove di fame, quindi “non” esiste. E noi cari amici siamo responsabili di questa miseria perché buttiamo via la metà del nostro cibo e non permettiamo ad altre persone come noi di esistere”.

Petrini: ritornando al discorso dell'economia nessuno si dimentichi che negli anni settanta il Club di Roma disegnava con profetica precisione la situazione che stiamo vivendo adesso. Non prendere atto dei contenuti del pensiero economico del Club di Roma, che era olistico, perchè per la prim volta questo Club diceva che "l'economia  non può essere l'unico elemento di misurazione della civiltà. Se poi questa economia sta portando lentamente . e lo dicavano nel 1973, quindi non è molto lentamente - verso la distruzione dell'ambiente, noi distruggiamo una civiltà, la gioia, la felicità delle persone, la ragione per cui siamo al mondo"

Petrini: “Oggi dobbiamo affrontare le tematiche del cibo. La ribollita e il pancotto sono due straordinarie opere d’arte. Ma c’è chi non lo capisce. Politici, economisti e chi ha messo in atto questa degenerazione della gastronomia, che sta diventando pornografia alimentare. E ora c’è anche masterchef... Io da piccolo volevo guidare il treno, poi c’è stato chi voleva pilotare l’aereo, oggi il 22% dei bambini vuole fare lo chef. Tutti vogliono fare lo chef, dimenticandosi di una cosa: che questo mondo quando parla di cibo prima di qualsiasi cosa deve render omaggio ai milioni di donne che in tutte le parti del mondo, con poche cose, hanno fatto le opere d’arte che sono la base fondante della nostra cultura alimentare. E non gli si dice grazie. Ma il vero disastro di questo sistema oggi trova dentro la politica del cibo. Noi buttiamo via il 40-45% della produzione alimentare. E la gente muore di fame. Oggi 24.000 persone sono morte di fame, sono morte ieri e moriranno domani. Questa vergogna non può più essere tollerata, questo deve essere l’obiettivo primario di una governance mondiale. Può essere il new deal dell’umanità. Quello su cui tuti dovrebbero impegnarsi è risolvere questa vergogna”.

Olmi: “Era il 1956 quando scrissi un piccolo racconto che si intitolava “L’albero degli zoccoli”. Il film l’ho fatto molto più tardi, nel ’77-‘78. Ma non ho voluto rinunciare a farlo perché volevo che rimanesse un’eco di quella realtà rurale che stava scomparendo, anche se eravamo rincuorati dal fatto che il progresso ci proponeva una società migliore. Feci un film sulla fine del mondo contadino. Ma oggi sono qui a celebrarmi per aver fatto un film sul futuro. Noi oggi possiamo tornare alla terra con la medesima umiltà e con la speranza, questa parola che da troppo tempo abbiamo paura di pronunciare”.

Chiama Matteo Renzi: “Sindaco vieni qui che ti lascio queste meline. Ma voglio dirti una cosa. Abbiamo bisogno di cambiare le cose. Abbiamo bisogno di uomini con energie nuove, con energie rinnovabili. E quindi partendo oggi lascerò questa città con la sensazione che qui sta ricominciando una nuova storia per l’umanità. Un nuovo Rinascimento. Ti ringrazio”.

(07 giugno 2013)

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2 agosto 2013 5 02 /08 /agosto /2013 10:11
Massimo Cacciari "La parola 'sinistra' non serve più,  chi la usa è un conservatore"
Pubblicato il 

DI' QUALCOSA DI SINISTRA / 6

Massimo Cacciari
"La parola 'sinistra' non serve più, 
chi la usa è un conservatore"

Per il professore di filosofia "Continuare con gli stessi termini per opporsi alla destra offusca la realtà. Urgente è il 'fare': risolvere i problemi del Paese"


 

VENEZIA - Sinistra è una parola maldestra. I giochi con le parole possono essere rivelatori. La parola sinistra è segnata dal marchio dell'insufficienza, condannata da un destino inscritto nella sua stessa etimologia latina: sinisteritas significa inettitudine, goffaggine. Quando Massimo Cacciari aprì con queste considerazioni uno "scandaloso" convegno romano su "Il concetto di sinistra", la sua ironia filologica sembrò del tutto fuori luogo: era il 1981, l'era Reagan-Thatcher era all'alba del suo cinico vigore, e di sinistra sembrava esserci un gran bisogno nel mondo.

Trent'anni dopo il filosofo veneziano non ha cambiato idea, anzi è la storia che sembra aver dato ragione alle sue profezie lessicali: se la destra si èdestreggiata bene o male, la sinistra appare sempre più sinistrata. Al punto che "quella parola non ci serve più, è disossata, desemantizzata, continuare a usarla è dannoso, offusca la visione della realtà".

Eppure, professore, nonostante quella maledizione etimologica, la parola sinistra è sopravvissuta a molte altre etichette della politica, come se lo spiega?
"Tornare alla radice latina della parola sinistra, in quel convegno, fu più che altro undivertissement, ma la provocazione serviva per dimostrare che le parole non sono eterne o neutrali nel loro significato. È vero, la parola sinistra non è scomparsa, anzi ha rimpiazzato altri aggettivi decaduti nelle denominazioni di alcuni partiti, ma è diventata sempre più porosa. Nel senso che assorbe ogni giorno significati e succhi diversi, è una parola instabile e in definitiva inservibile".

Ma quando lei la dichiarò tale, era decisamente più solida, no?
"Indicava qualcosa di storicamente circoscritto. Già allora non si dicevano tutti "di sinistra", a sinistra. Sinistra indicava socialdemocrazia, welfare postkeynesiano, ridistribuzione del reddito. Gli altri erano comunisti, era difficile che un comunista si definisse "di sinistra". La parola sinistra, allora, aveva un forte contenuto politico, era una distinzione riconoscibile anche sul piano valoriale, ma tutto questo perché esisteva la destra, c'erano i non-democratici, c'erano i fascisti. Però, già allora, chi voleva capiresapeva che quella distinzione non era universale, era legata a una stagione della storia e stava ormai evaporando con essa".

Per quale motivo?
"L'opposizione destra-sinistra è lineare, bidimensionale. Se manca uno dei due termini crolla anche l'altro. Gli ultimi avversari di destra furono appunto Reagan e Thatcher, una destra mondiale agguerrita e molto chiara nei suoi princìpi e molto innovatrice nelle sue tecniche. Fu quella l'ultima grande occasione di "fare qualcosa di sinistra", ma bisognava coglierla in modo nuovo, rinunciare al keynesismo, prepararsi al futuro, nei programmi e negli strumenti. Invece la risposta fu conservatrice: rinforzare le basi storiche e ideologiche di una sinistra che si oppone ai "reazionari". Ma per la scienza politica, reazionario è chi vuole riportare indietro la ruota della storia a prima della rivoluzione francese. E né Thatcher né Reagan né nessun altro che si vedessein giro proponeva di tornare al Re Sole".

In quel convegno Paolo Flores d'Arcais, pur proponendone la rifondazione concettuale, difendeva la parola sinistra come "stenogramma" dei valori della Rivoluzione francese. Non può essere ancora così?
"Ma dopo la Rivoluzione francese tutta la politica, non solo la sinistra, ha dovuto muoversi nello spazio prospettico definito da quelle parole: uguaglianza libertà fratellanza. Però per ciascuna è stato necessario chiedersi: quale? In che modo? Eguaglianza come opportunità o come diritto, come punto di partenza o di arrivo? Le risposte sono state diverse, storicamentenon tutte definibili "di sinistra"".

Neppure Bobbio, dieci anni dopo, la convinse a recuperare il concetto?
"Nel suo sforzo di definire le basi di un "tipo ideale" della sinistra, Bobbio ricorse all'idea guida di uguaglianza. Ma era una base disperatamente povera, non sorreggeva una vera dualità, una vera opposizione. Chi mai oggi promuove la diseguaglianza? Voglio dire, chi la proponeapertamente come programma politico? È chiaro che la diseguaglianza esiste, anzi cresce, ma non è un'ideologia, è un fatto. La diseguaglianza non è il programma odioso di un avversario riconoscibile, semmai è la forma che ha assunto la globalizzazione, è l'anonimo che ha preso il volto dello stato di natura, dell'inevitabile, e nessuno se lo intesta. Se poi volete dire che combattere le ineguaglianze è necessario, siamo d'accordo; se volete dire che questo è il senso dell'essere di sinistra, fate pure, ma siamo ancora all'inizio, non abbiamo ancora definito niente. Come si superano le diseguaglianze? Con quali strumenti, istituzioni, aggregazioni politiche?"


Urgente è realizzare buoni progetti che contengono valori. Essere capaci di risolvere i problemi. Chiedersi cosa è Europa, cosa è globalizzazione e nazione.

 

Trent'anni fa lei si chiedeva se avesse senso tentare di recuperare la parola sinistra. Ha una risposta oggi?
"Sì: negativa. Quello che ha senso oggi è ridefinire una politica di cambiamento. Le soluzioni non si collocano più a un preciso punto della scala che va da destra a sinistra. Le soluzioni non le trovi nell'apposita casella, le devi cercare nelle trasgressioni della topografia politica, nell'uscita "catastrofica" dal piano bidimensionale. L'elettrone, ci dice la scienza, non ha un luogo, è un fascio di onde. Così deve essere il pensiero politico. Io cominciai a dialogare con gli intellettuali di destra trent'anni fa. Mi maledirono per questo. Urgente è il fare. Rivolgersi ai problemi. Chiedersi cosa è Europa, cosa è nazione, come si affronta la globalizzazione. Non c'è un prontuario di sinistra per queste cose, perché la disposizione concettuale destra- sinistra è arcaica, lineare, mentre il mondo oggi è multidimensionale".
Urgente è realizzare buoni progetti che conteggano valori. Risolgere i problemi. Chiedersi che cos'è Europa, globalizzazione, nazione e costruire rispose adeguate.
Soluzioni pragmatiche. E i valori? E l'etica?
"I valori in politica sono i buoni progetti. Che la politica possa rendere giusto il mondo lo raccontano nei comizi. Se me lo chiede, per me il mondo è un inferno e lo resterà fino a quando ci sarà un solo uomo che muore di fame. Ma se faccio politica il mio compito è cercare soluzioni praticabili e compatibili per far morire di fame un po' meno persone. Politica è il calculemus di Leibnitz".

Ma l'insieme di questi calcoli pragmatici dovrà pure avere una coerenza, e quella coerenza non può avere un nome?
"E perché deve averlo? Se il mio progetto politico ha coerenza, bene, chiamalo Geppetto o Tonino, o Partito Riformista, non è quello che importa... In ogni caso, se vuoi fare una cosa nuova devi dire una cosa nuova, o il tuo linguaggio oscurerà la realtà. A me hanno insegnato che una parola ha senso all'interno di una frase, non da sola. Sinistra era una parola della frase keynesiana, democratico-antifascista, che non ci serve più, non ci sono più i fascisti, siamo tutti democratici. Se insisto a dire sinistra, mi porto dietro una dicotomia che è segnata dalla storia, mi ancoro a un passato. Chi si dice "di sinistra" oggi è un perfetto conservatore, si nasconde dietro i simulacri. È la parola rifugio degli apparati, so bene perché la usano, perché non hanno altro in zucca, è inerzia pura".

E il militante? Lui ha un'esigenza diversa, e sincera, di identità, di autoriconoscimento.
"Il militante capirebbe benissimo. Il suo scopo è cambiare il mondo, non definire se stesso. Definirsi con una parola porosa e impoverita lo danneggia, lo lascia con una bandierina da sventolare e qualche comportamento virtuoso spicciolo che non è per nulla identitario. Forse qualcuno a destra sostiene che bisogna inquinare o sprecare le risorse della terra?".

Ma il militante "di sinistra" continua a chiedersi: cosa sono? E perché sono quello che sono?
"Essere è fare, politica è actuositas. I veri rivoluzionari hanno sempre pensato questo: io sono quel che faccio. Il viceversa, faccio perché sono, faccio quello che sono, è la radice dei totalitarismi".

  

Massimo Cacciari "La parola 'sinistra' non serve più,  chi la usa è un conservatore"
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DI' QUALCOSA DI SINISTRA / 6

Massimo Cacciari
"La parola 'sinistra' non serve più, 
chi la usa è un conservatore"

Per il professore di filosofia "Continuare con gli stessi termini per opporsi alla destra offusca la realtà. Urgente è il 'fare': risolvere i problemi del Paese"


VENEZIA - Sinistra è una parola maldestra. I giochi con le parole possono essere rivelatori. La parola sinistra è segnata dal marchio dell'insufficienza, condannata da un destino inscritto nella sua stessa etimologia latina: sinisteritas significa inettitudine, goffaggine. Quando Massimo Cacciari aprì con queste considerazioni uno "scandaloso" convegno romano su "Il concetto di sinistra", la sua ironia filologica sembrò del tutto fuori luogo: era il 1981, l'era Reagan-Thatcher era all'alba del suo cinico vigore, e di sinistra sembrava esserci un gran bisogno nel mondo.

Trent'anni dopo il filosofo veneziano non ha cambiato idea, anzi è la storia che sembra aver dato ragione alle sue profezie lessicali: se la destra si èdestreggiata bene o male, la sinistra appare sempre più sinistrata. Al punto che "quella parola non ci serve più, è disossata, desemantizzata, continuare a usarla è dannoso, offusca la visione della realtà".

Eppure, professore, nonostante quella maledizione etimologica, la parola sinistra è sopravvissuta a molte altre etichette della politica, come se lo spiega?
"Tornare alla radice latina della parola sinistra, in quel convegno, fu più che altro undivertissement, ma la provocazione serviva per dimostrare che le parole non sono eterne o neutrali nel loro significato. È vero, la parola sinistra non è scomparsa, anzi ha rimpiazzato altri aggettivi decaduti nelle denominazioni di alcuni partiti, ma è diventata sempre più porosa. Nel senso che assorbe ogni giorno significati e succhi diversi, è una parola instabile e in definitiva inservibile".

Ma quando lei la dichiarò tale, era decisamente più solida, no?
"Indicava qualcosa di storicamente circoscritto. Già allora non si dicevano tutti "di sinistra", a sinistra. Sinistra indicava socialdemocrazia, welfare postkeynesiano, ridistribuzione del reddito. Gli altri erano comunisti, era difficile che un comunista si definisse "di sinistra". La parola sinistra, allora, aveva un forte contenuto politico, era una distinzione riconoscibile anche sul piano valoriale, ma tutto questo perché esisteva la destra, c'erano i non-democratici, c'erano i fascisti. Però, già allora, chi voleva capiresapeva che quella distinzione non era universale, era legata a una stagione della storia e stava ormai evaporando con essa".

Per quale motivo?
"L'opposizione destra-sinistra è lineare, bidimensionale. Se manca uno dei due termini crolla anche l'altro. Gli ultimi avversari di destra furono appunto Reagan e Thatcher, una destra mondiale agguerrita e molto chiara nei suoi princìpi e molto innovatrice nelle sue tecniche. Fu quella l'ultima grande occasione di "fare qualcosa di sinistra", ma bisognava coglierla in modo nuovo, rinunciare al keynesismo, prepararsi al futuro, nei programmi e negli strumenti. Invece la risposta fu conservatrice: rinforzare le basi storiche e ideologiche di una sinistra che si oppone ai "reazionari". Ma per la scienza politica, reazionario è chi vuole riportare indietro la ruota della storia a prima della rivoluzione francese. E né Thatcher né Reagan né nessun altro che si vedessein giro proponeva di tornare al Re Sole".

In quel convegno Paolo Flores d'Arcais, pur proponendone la rifondazione concettuale, difendeva la parola sinistra come "stenogramma" dei valori della Rivoluzione francese. Non può essere ancora così?
"Ma dopo la Rivoluzione francese tutta la politica, non solo la sinistra, ha dovuto muoversi nello spazio prospettico definito da quelle parole: uguaglianza libertà fratellanza. Però per ciascuna è stato necessario chiedersi: quale? In che modo? Eguaglianza come opportunità o come diritto, come punto di partenza o di arrivo? Le risposte sono state diverse, storicamentenon tutte definibili "di sinistra"".

Neppure Bobbio, dieci anni dopo, la convinse a recuperare il concetto?
"Nel suo sforzo di definire le basi di un "tipo ideale" della sinistra, Bobbio ricorse all'idea guida di uguaglianza. Ma era una base disperatamente povera, non sorreggeva una vera dualità, una vera opposizione. Chi mai oggi promuove la diseguaglianza? Voglio dire, chi la proponeapertamente come programma politico? È chiaro che la diseguaglianza esiste, anzi cresce, ma non è un'ideologia, è un fatto. La diseguaglianza non è il programma odioso di un avversario riconoscibile, semmai è la forma che ha assunto la globalizzazione, è l'anonimo che ha preso il volto dello stato di natura, dell'inevitabile, e nessuno se lo intesta. Se poi volete dire che combattere le ineguaglianze è necessario, siamo d'accordo; se volete dire che questo è il senso dell'essere di sinistra, fate pure, ma siamo ancora all'inizio, non abbiamo ancora definito niente. Come si superano le diseguaglianze? Con quali strumenti, istituzioni, aggregazioni politiche?"

Trent'anni fa lei si chiedeva se avesse senso tentare di recuperare la parola sinistra. Ha una risposta oggi?
"Sì: negativa. Quello che ha senso oggi è ridefinire una politica di cambiamento. Le soluzioni non si collocano più a un preciso punto della scala che va da destra a sinistra. Le soluzioni non le trovi nell'apposita casella, le devi cercare nelle trasgressioni della topografia politica, nell'uscita "catastrofica" dal piano bidimensionale. L'elettrone, ci dice la scienza, non ha un luogo, è un fascio di onde. Così deve essere il pensiero politico. Io cominciai a dialogare con gli intellettuali di destra trent'anni fa. Mi maledirono per questo. Urgente è il fare. Rivolgersi ai problemi. Chiedersi cosa è Europa, cosa è nazione, come si affronta la globalizzazione. Non c'è un prontuario di sinistra per queste cose, perché la disposizione concettuale destra- sinistra è arcaica, lineare, mentre il mondo oggi è multidimensionale".

Soluzioni pragmatiche. E i valori? E l'etica?
"I valori in politica sono i buoni progetti. Che la politica possa rendere giusto il mondo lo raccontano nei comizi. Se me lo chiede, per me il mondo è un inferno e lo resterà fino a quando ci sarà un solo uomo che muore di fame. Ma se faccio politica il mio compito è cercare soluzioni praticabili e compatibili per far morire di fame un po' meno persone. Politica è il calculemus di Leibnitz".

Ma l'insieme di questi calcoli pragmatici dovrà pure avere una coerenza, e quella coerenza non può avere un nome?
"E perché deve averlo? Se il mio progetto politico ha coerenza, bene, chiamalo Geppetto o Tonino, o Partito Riformista, non è quello che importa... In ogni caso, se vuoi fare una cosa nuova devi dire una cosa nuova, o il tuo linguaggio oscurerà la realtà. A me hanno insegnato che una parola ha senso all'interno di una frase, non da sola. Sinistra era una parola della frase keynesiana, democratico-antifascista, che non ci serve più, non ci sono più i fascisti, siamo tutti democratici. Se insisto a dire sinistra, mi porto dietro una dicotomia che è segnata dalla storia, mi ancoro a un passato. Chi si dice "di sinistra" oggi è un perfetto conservatore, si nasconde dietro i simulacri. È la parola rifugio degli apparati, so bene perché la usano, perché non hanno altro in zucca, è inerzia pura".

E il militante? Lui ha un'esigenza diversa, e sincera, di identità, di autoriconoscimento.
"Il militante capirebbe benissimo. Il suo scopo è cambiare il mondo, non definire se stesso. Definirsi con una parola porosa e impoverita lo danneggia, lo lascia con una bandierina da sventolare e qualche comportamento virtuoso spicciolo che non è per nulla identitario. Forse qualcuno a destra sostiene che bisogna inquinare o sprecare le risorse della terra?".

Ma il militante "di sinistra" continua a chiedersi: cosa sono? E perché sono quello che sono?
"Essere è fare, politica è actuositas. I veri rivoluzionari hanno sempre pensato questo: io sono quel che faccio. Il viceversa, faccio perché sono, faccio quello che sono, è la radice dei totalitarismi".

 
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31 luglio 2013 3 31 /07 /luglio /2013 09:11

 

Video dell'intervista di Lucia Annunziata a Ilvio Damanti, Stefano Rodotà,, Gustavo Zagrebelsky

http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/firenze2013/2013/06/08/news/l_italia_post-populista_rodot_diamanti_zagrebelsky_e_annunziata-60645441/

 

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  • : Blog di mario bolzonello
  • : VI INVITO A SCRIVERE COMMENTI, OPINIONI. CLICCA IN FONDO A DESTRA DEGLI ARTICOLI. Mi sembra utile istituire un collegamento tra vari Blog per favorire la circolazione delle idee, delle riflessioni che aiutino a capire e affrontare la realtà nei suoi molteplici aspetti (questo blogo si limitata a una riflessione sui diritti civili, sulla religione, sulla politica, sull'economia, qualcosa sulla cultura, ma non sono un tutologo). Lo scopo è ampliare la partecipazione delle persone, per una loro migliore convivenza nella vita quotidiana, un ampliamento della conoscenza, del senso civico, della democrazia , e della buona politica. Si vuole essere propositivi e si escludo atteggiamenti di semplice denuncia e rivendicazione. SEGNALATE, PER FAVORE, I BLOG CHE HANNO QUESTE CARATTERISTICHE. GRAZIE. In fondo a destra si troveranno i blog interessanti
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Se desiderate comunicare con l'autore scrivete a : mario.bolzonellozoia@gmail.com

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