Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
12 luglio 2017 3 12 /07 /luglio /2017 14:00

Il presidente dell'Inps a Repubblica delle Idee: "I sindacalisti sono un argine contro il populismo ma dovrebbero ridurre per primi i privilegi. Dal taglio dei vitalizi ai politici 140 milioni di euro per i poveri"

 ROSARIO DI RAIMONDO -  La Repubblica

"Se chiudessimo le frontiere ai migranti non saremmo in grado di pagare le pensioni. Ogni anno gli stranieri versano otto miliardi di euro in contributi e ne prelevano tre. È vero, un giorno avranno la pensione pure loro, però molti torneranno al loro Paese d'origine. I loro versamenti saranno a fondo perduto". Tito Boeri definisce l'istituto che presiede da un paio d'anni, l'Inps, un ente di "protezione sociale" e non di previdenza.

 Pensa ai "100mila giovani che ogni anno se ne vanno all'estero" e a chi perde il lavoro a 55 anni, trovandosi in mezzo a una strada. Dice che serve un intervento su vitalizi e le pensioni d'oro, e dà uno schiaffetto ai sindacati, comunque lodati come "un argine contro il populismo": "Ma pure loro devono ridurre i privilegi".

RepIdee, Boeri: "Se chiudessimo le frontiere ai migranti non potremmo pagare le pensioni"

http://www.repstatic.it/video/photo/2017/06/16/390274/390274-thumb-full-boeri_16062017.jpg

Condividi  

"Anni di crisi hanno creato il populismo". Professore lo è rimasto, Boeri, che nel curriculum ha pur sempre scritto Bocconi ("E mi manca scrivere per Repubblica...", ammette all'inizio). Parte dalle origini del populismo, che di fatto coincidono con l'aumento delle disparità, della rabbia sociale, della povertà: "Anni di crisi hanno creato una forte domanda di protezione sociale. Ma non ci sono state risposte adeguate. Questi anni, uniti al rigetto della classe dirigente hanno scatenato il populismo: "Abbiamo bisogno di un reddito minimo, di un salario minimo per la protezione delle persone, per chi di fronte alla globalizzazione rischia di cadere in povertà".

"Disoccupazione giovanile intollerabile. Subito incentivi". La crisi parte dall'inizio. Dai giovani, formati e laureati, che non trovano lavoro. "Il livello della disoccupazione giovanile è intollerabile. Nel 2015, col Jobs Act, ci sono stati quasi un milione di contratti a tempo indeterminato grazie all'azzeramento degli oneri per le aziende. Allora perché non pensare di fiscalizzare i contributi dei giovani?". In altre parole continuare con questi incentivi, ridurre le tasse a chi assume. "I giovani - continua Boeri - sono già destinati a pensioni più basse, sarebbe una misura di equità. Centomila giovani l'anno vanno all'estero, persone che abbiamo istruito. C'è qualcosa che non funziona".

La famiglia Regeni, Saviano, Boldrini, Altan: la 

Condividi post
Repost0
6 luglio 2017 4 06 /07 /luglio /2017 20:30

Tania Mastrobuoni – La Repubblica

Dalla compravendita dei reni agli incentivi ai politici, dal clima alle multe, il premio Nobel per l’economia Jean Tirole spiega perchè l’etica conta. Anche più dei numeri.

Per decenni gli economisti si sono chiusi nella torre d’avorio dei modelli matematici e si sono dimenticati di avere che fare con l’irregolarità umana. Inebriati dal sogno dell’homo hoeconomicus – un idiota come aveva già capito Amartya Sen (altro premio Nobel) – si sono ripiegati nelle loro gabbie di numeri e hanno smesso di chiedersi come ottenere una società migliore. Jesn Tirole, ingegnere, matematico, economista francese , ha cominciato a smontare  le certezze dominanti rivoluzionando il pensiero sugli oligopoli. Attraverso la teoria dei giochi ha messo in evidenza la fallacia del mercato che si autoregolamenta e ha costretto la scienza economica a ripensarsi. Oggi i regolatori come l’antitrust non possono far a meno  della teoria di questo signore  francese dall’aria timida e dalla voce profonda che nel 2014 ha vinto il nobel.

    Al festival dell’economia di Trento ha presentato  L’economia del bene comune (mondadori).Un libro straordinario, che mette in evidenza una dote di Tirole: è enciclopedico, nella miglior tradizione  del suo paese. Il libro è un’opera omnia  che parla di industria, finanza e teoria dei giochi e può essere letta, come suggerisce lui stesso, saltando da un capitolo ad un altro, senza un ordine preciso.

Tirole com’è l’economia del bene comune?

                   Molti pensano che sia un ossimoro, che ci sia un conflitto tra l’economia e il bene comune. Il mio libro non cerca di sfatare questo mito, l’economia può essere al servizio del bene comune. L’interesse individuale  non  garantisce sempre il buon funzionamento della società. Dobbiamo disegnare istituzioni che facciano modo  che gli individui facciano del bene alla società. I fallimenti del mercato, come ad esempio la diseguaglianza o la mancanza di solidarietà, si possono, anzi si devono correggere 

Lei si occupa  anche di problemi morali, affrontandoli anche da un punto di vista economico. Nel libro parla anche di trapianto di reni. Notoriamente è vietato comprarli: il nobel Alvin Roth ha ideato una camera di compensazione  per lo scambio incrociato fra donatori, mentre un grande economista della scuola di Chicago come Gary Becker pensava che dovrebbe essere consentito di acquistarli. E lei? 

   Io no. Dobbiamo pensare  a chi venderebbe gli organi, se ci fosse un mercato. Presumibilmente i poveri – ed è qualcosa  che farebbe somigliare questo mercato a quello della prostituzione. Se qualcuno vende un rene per duecento euro, è un simbolo molto negativo delle diseguaglianze. Alvin Roth ha risolto molto brillantemente il problema. Però citare Gary Becker  sembra ormai un’eresia, anche se ha puntato il dito su un problema, la scarsità di organi. Bisogna sempre pensare in maniera scientifica. Cerco si non lasciarmi andare ai preconcetti.

Sul clima lei critica gli accordi di Parigi, che gli Stati Uniti non hanno sottoscritto, ma che sono comunque troppo  deboli perché non prevedono sanzioni.

Bisogna trovare il modo di far firmare tutti. Altrimenti, per dirne una, quelli che sono fuori  approfittano del prezzo dell’energia fossile  che si abbassa grazie all’accordo sottoscritto da chi non la usa più. Anche prima che Trump fosse eletto, la mia idea è sempre stata quella di dire: prendiamo i paesi più inquinanti e facciamo in modo che il Wto consideri dumping sul carbone, cioè concorrenza sleale sui prezzi, chi non aderisce all’intesa sul clima. Così chi è fuori viene sanzionato. E’ l’unico modo per rendere l’accordo sul clima credibile.

Lei ha provato che l’altruismo esiste e spesso prevale sull’interesse individuale. E ha anche dimostrato, dopo anni di demonizzazione, che lo stato non confligge con il mercato.

   E’ vero correggere i fallimenti del mercato è qualcosa che spetterebbe ad esempio  al governo. Ma il governo stesso  è spesso catturato dalle lobby oppure agisce nell’interesse di breve termine dei singoli a essere rieletti. Sono problemi di cui va tenuto conto, nella definizione di bene comune.  

Che cos’è la moralità?

Lo stiamo studiando molto, è un concetto fragile. Facciamo un esempio. Le elezioni francesi. Il “patto repubblicano” non esiste più: non è vero che la gente vota comunque contro Le Pen come nel 2002. Stavolta alcuni capi di partito hanno detto che non avrebbero votato Macron. Sono partiti che mai voterebbero la Le Pen ma che così di fatto l’hanno sostenta. Questa è la tipica narrazione che ci esonera da comportamenti virtuosi.

Lei cita il filosofo di Harvard Michael SANDEL, che ha dimostrato la fallacia degli incentivi che a volte funzionano al contrario di come vorrebbero gli economisti.  Ad esempio la multa per i genitori che arrivano in ritardo  a prendere i figli a scuola: fa aumentare i ritardi perché molti la interpretano come una tassa e non come una sanzione.

  Ci sono molti esperimenti che dimostrano quanto conti la dimensione sociale. In svizzera ne hanno fatto uno interessante sull’introduzione dei voti per posta: in teoria  avrebbero dovuto incoraggiare una maggiore partecipazione nei piccoli villaggi, dove la gente era costretta ad andare a votare in città. Invece la propensione al voto è calata. La gente non si sentiva più obbligata a farsi vedere dal vicino mentre andava a votare.

Ricorda un altro esperimento famoso sempre in Svizzera. Chiesero agli abitanti di un paesino di ospitare lo stoccaggio di scorie  nucleari, prima gratis, poi a pagamento. L’incentivo monetario fece crollare i si.

 La moralità è spesso guidata dal bisogno di sentirsi persone decenti. Se siamo pagati  non è più chiaro se lo facciamo per avidità o generosità. Bisogna imparare come costruire la moralità. E’ fondamentale per decidere le politiche da adottare  per il bene comune e la responsabilità sociale.

Nel libro lei si occupa anche di Europa. Il motore franco-tedesco può ripartire ?L’Italia spinge molto per un assegno di disoccupazione comune.

E’ positivo rivitalizzare lo spirito europeo che è infiacchito ovunque .Ma io non penso, purtroppo, che avremo una disoccupazione comune europea. Le politiche del  lavoro sono troppo diverse. E i paesi nordici temono che quelli del sud si facciano pagare il loro 25% di disoccupazione senza cambiare le regole del lavoro. Sono pessimista.

Condividi post
Repost0
5 luglio 2017 3 05 /07 /luglio /2017 15:33

 Giorgio Barba Navaretti – Il Sole 24 Ore

Seguirò una intervista al premio Nobel dell’economia. Questo è ciò che pensa Navaretti di Tirole. Le evidenziature  in blu sono modifiche  o sottolineature del redattore (ndr.)

Economia del bene comune, l’ultima fatica del premio Nobel (in economia due    francese Jean Tirole, è un libro di divulgazione e riconciliazione. Un libro che prova a spiegare con lucida e intelligente pacatezza le ragioni degli economisti e della scienza economica nella costruzione del benessere collettivo.

La grande crisi ha generato una diffidenza profonda contro la fredda razionalità economica, indicando nel mercato senza regole la caduta verso la rovina e gli economisti di essere complici ciechi del disastro (in quanto paladini delle virtù del mercato, incapaci di vederne gli aspetti negativi ndr.).

Tirole, con grandissima pazienza, ricuce tutte le ferite. E lo fa con un trattato lunghissimo, che parte dal mestiere dell’economista, quotidianità, obiettivi, pratica professionale, per arrivare ai grandi punti interrogativi della contemporaneità: cosa ha generato la grande crisi? A cosa serve la finanza? Come si risolve la disoccupazione? Come si regolano le industrie? Come si protegge l’ambiente?

Ne esce un’analisi profonda di perché la società abbia bisogno sia degli economisti che del mercato (controllato ndr.). E l’idea alta che ogni processo decisionale di natura economica, dalle decisioni individuali di tutti i giorni, alle grandi scelte politiche, potrebbe e dovrebbe portare al bene comune. E che l’economia è una disciplina fondamentale per identificare le istituzioni e le politiche per raggiungere questo bene comune e per conciliare interesse individuale e interesse generale.

Cos’è il bene comune per Tirole? Banalmente ciò a cui aspiriamo per la società. Ma cosa? E chi aspira a cosa? E quale società? Il punto di partenza potrebbe essere lo stato di natura e il velo di ignoranza nello spirito di Hobbes, Locke e Rousseau, e poi ripreso in epoca contemporanea nella teoria della giustizia di John Rawls, ossia le preferenze di un individuo non contaminato dal contesto sociale ed economico in cui vive. Il principio del velo dell’ignoranza viene declinato da Tirole in un contesto in cui qualunque individuo, qualunque cosa faccia, dal politico al filosofo all’uomo di chiesa o d’affari, comunque risponde a degli incentivi, a cui ciascuno è continuamente sottoposto. Dunque, il velo dell’ignoranza riguarda la propria condizione relativamente a una qualunque azione. Rispetto a guidare l’automobile, non so se ne sarò l’utilizzatore beneficiario (ho la possibilità di spostarmi da un posto all’altro) o la vittima (respiro i fumi dell’automobile o ho una certa probabilità di essere investito). E posso così tirare le somme per capire se i benefici sono maggiori dei costi e dunque decidere se guidare l’automobile sia davvero un’azione che porta a un bene comune.

Naturalmente il velo d’ignoranza è spazzato via dalla realtà, dove generalmente ciascuno sa molto bene se sia vittima o carnefice: se accelero perché ho fretta, so bene che guido e che inquino di più e se investo un pedone si fa male lui. Ed è spazzato via dal fatto che tutti noi abbiamo ruoli sociali precisi e rispondiamo agli stimoli partendo da queste posizioni. Ma avere in mente il bilancino fatto sotto il velo dell’ignoranza può essere molto utile per comprendere come possa essere migliorato l’impatto sociale di qualunque azione, modificando gli incentivi che guidano gli individui e responsabilizzandoli sulle ricadute sociali delle loro azioni. Se l’incolumità del pedone vale più della mia fretta, i limiti di velocità e i semafori mi faranno andar piano e ridurranno la probabilità che io investa qualcuno.

Tirole contrappone in modo molto forte il concetto di incentivo a quello di indignazione. L’indignazione è spesso un paravento che impedisce di ragionare in modo razionale. Il grande economista francese Jean Jaque Laffont, amico e collega del nostro autore, scomparso prematuramente nel 2004, nel 1999 presentò uno studio sulle tappe da realizzare per modernizzare lo Stato francese al Consiglio di Analisi Economica, un organismo indipendente creato dall’allora primo ministro Lionel Jospin. Il rapporto fu aspramente criticato dalla platea fatta di uomini politici, alti funzionari e accademici. Il punto di Laffont era che la riforma doveva essere disegnata pensando che gli uomini politici e i funzionari rispondono agli incentivi esattamente come gli uomini di affari e i capi di impresa. L’indignazione dei presenti nasceva dall’avversione all’idea che una funzione nobile ed alta come la politica potesse da un punto di vista motivazionale essere considerata alla stregua di qualunque operazione di mercato. Ma l’indignazione in questo caso serviva ad affermare chiaramente una preferenza a non cambiare le cose, di fatto offuscando la realtà. Se gli incentivi davvero non c’entrassero con la politica, allora in tutti i paesi occidentali non sarebbero state riformate le istituzioni dello Stato creando ad esempio le Autorità indipendenti, dopo aver riconosciuto il profondo conflitto di interessi tra politica e regolazione.

Nel pensiero di Tirole, il concetto della pervasività degli incentivi non significa che tutto sia Mercato. «L’economia - sostiene il nostro autore - ricusa il tutto Mercato così come ricusa il tutto-Stato». Stato e Mercato sono istituzioni complementari, dove lo Stato deve definire le regole e correggere il mercato dove non funziona, in modo che individui spinti dagli incentivi individuali non compiano azioni incompatibili con l’interesse comune.

La politica economica sbaglia quando perde coscienza di dove possano portare regole errate o assenti. Questo è quello che è successo con la crisi finanziaria, dove non si è capito a quale disastro gli incentivi a breve termine che governavano le azioni dei banchieri avrebbero portato. E allo stesso modo fa bene quando usa leve che fondandosi sugli incentivi spingono a comportamenti virtuosi, vedi ad esempio le tasse sulle emissioni di anidride carbonica. In sintesi, ci dice Tirole, non tutto è mercato ma molto funziona come un mercato. Affermarlo e capirlo è il modo migliore per far sì che il mercato possa davvero funzionare come strumento del bene comune.

 

Condividi post
Repost0
1 luglio 2017 6 01 /07 /luglio /2017 08:16

 

Per saperne di più conviene acquistare MicroMega n.4 del 2017.Non tutte  le analisi sono condivisibili. Il discorso sull'eguaglianza è fondamentale. (ndr.)

Soprattutto, guardiamoci dal sopravvalutare l'importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore  e più duratura importanza. i difetti più evidenti della società economica in cui viviamo sono l'incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi

              John Maynard Keynes

Chi volesse capire qualcosa del sistema bancario italiano e della Banca d'Italia  va a leggere l'artico di Marco Vitale pag. 170 su "Errori e colpe del sistema bancario italiano". Interessante l'articolo di Massimo Pivetti "Per una finanza a servizio dell'economia reale"

Condividi post
Repost0
28 giugno 2017 3 28 /06 /giugno /2017 19:45

Alessandro Rosina – La VoceInfo

InItalia si registrano ormai più morti che nascite. Con una popolazione che invecchia, senza gli immigrati lo sbilanciamento sarebbe più accentuato  .Chi pagherà le pensioni? Un miglior equilibrio demografico passa dalle opportunità nel mercato del lavoro per giovani e donne.

I dati dello squilibrio demografico

L’Italia è un paese demograficamente sempre più sbilanciato. A indicarlo sono soprattutto due dati forniti dall’Istat.

Il primo è il divario negativo crescente tra nascite e decessi. Nel corso del 2016 le persone che hanno iniziato sul suolo italiano la loro vita (i nati) sono state 142mila in meno rispetto a coloro che l’hanno conclusa (i morti). Il numero di nascite diminuisce non solo per le difficoltà ad avere i figli desiderati, ma anche per la progressiva riduzione delle potenziali madri: le donne di 50 anni sono oltre 500mila, mentre le donne di 30 anni sono meno di 350mila e quelle di 20 anni meno di 300mila. Le donne nate nel periodo del baby boom sono oramai uscite dall’età fertile e il ruolo riproduttivo è ora sempre più assegnato alle generazioni demograficamente meno consistenti nate dopo la fine degli anni Settanta. Riguardo ai decessi, il loro numero diminuisce con la longevità, ma aumenta con l’invecchiamento della popolazione. Ovvero viviamo più a lungo e si riducono i rischi di morte in età avanzata, ma cresce il numero di persone nelle età in cui i rischi sono più elevati.

Il secondo dato che evidenzia il nostro progressivo sbilanciamento demografico è, appunto, quello relativo alla struttura per età. La bassa natalità non porta solo a una riduzione della popolazione, ma anche a una accentuazione dello squilibrio strutturale. A fronte, infatti, di un numero di anziani che aumenta grazie ai miglioramenti delle condizioni di vita in età avanzata, la riduzione delle nascite porta a una diminuzione del numero di giovani. Tanto per fare un esempio, negli anni Sessanta la fascia 65-69 anni contava meno di 2 milioni di abitanti ed era circa la metà rispetto alla fascia 20-24 anni, mentre oggi ci troviamo con 650mila abitanti in più nella classe 65-69 rispetto alla classe 20-24.

Immigrati ed emigrati

Questi dati tengono conto dell’apporto dell’immigrazione, senza il quale lo sbilanciamento risulterebbe ancora più marcato. Senza stranieri il deficit delle nascite sui decessi lievita a 205mila e la fascia 20-24 anni scende di 880mila persone sotto quella 65-69 anni. Da un lato, quindi, la popolazione di cittadinanza italiana aumenta nel tempo il suo saldo negativo, dall’altro la popolazione straniera riduce la sua capacità di compensarlo. Le stesse nascite straniere, dopo essere salite da 30mila nel 2000 a 80mila nel 2012, sono poi scese a 69mila.

A ridurre e a invecchiare la popolazione contribuisce poi anche il crescente numero di cittadini italiani,  prevalentemente in età lavorativa, che cancellano la residenza per spostarsi all’estero (saliti nel corso del 2016 a 114mila).

Di cosa abbiamo davvero bisogno per rendere meno squilibrato il nostro futuro? La risposta principale sta nell’aumento della popolazione che partecipa alla produzione di ricchezza economica e benessere sociale per il paese. Prima di tutto, questo significa rimuovere gli ostacoli e favorire le opportunità della presenza delle nuove generazioni e delle donne nel mercato del lavoro. Il tasso di occupazione in età 25-29 maschile è il più basso tra i paesi europei, sotto di circa 17 punti percentuali rispetto alla media Ue-28. Ancora peggiore il dato femminile, sotto di 22 punti. Ciò produce ritardi e incertezze nelle scelte di autonomia e formazione di una propria famiglia, a cui si sommano le carenze delle politiche di conciliazione tra lavoro e figli nel resto della vita riproduttiva femminile. Lasciando scadere al ribasso i percorsi occupazionali e di vita di giovani e donne difficilmente potremo tornare a dar vitalità al paese.

Condividi post
Repost0
20 maggio 2017 6 20 /05 /maggio /2017 17:52

http://www.dirittiglobali.it/wp-content/uploads/2016/11/occupy-ws-wik-com-1-704x400.jpg?x40542

 

Il premio Nobel Joseph Stiglitz: “Se la maggioranza dei cittadini si sente esclusa dai vantaggi della crescita si ribellerà al sistema, Brexit e Trump lo dimostrano”

JOSEPH STIGLITZ  - la Repubblica

NEGLI ULTIMI ANNI, incontrandosi a Davos, i leader del mondo economico e imprenditoriale hanno classificato la disuguaglianza tra i maggiori rischi per l’economia globale, riconoscendo che si tratta di questione economica oltre che morale. Non vi è dubbio, infatti, che se i cittadini non hanno reddito e perdono progressivamente potere d’acquisto, le corporation non avranno modo di crescere e prosperare. Il FMI è della stessa idea e avverte che a funzionare meglio sono i paesi dove c’è meno disuguaglianza.

Se la maggioranza dei cittadini sente di non beneficiare a sufficienza dei proventi della crescita o di essere penalizzata dalla globalizzazione finirà col ribellarsi al sistema economico nel quale vive. In realtà dopo Brexit e i risultati delle elezioni americane, ci si deve chiedere seriamente se questa ribellione non sia già cominciata. Sarebbe d’altronde del tutto comprensibile. In America il reddito medio del 90% dei meno abbienti ristagna da 25 anni e l’aspettativa di vita ha mediamente cominciato ad abbassarsi.

Da anni, Oxfam fotografa i livelli sempre più accentuati della disuguaglianza globale e ci ricorda come nel 2014 fossero 85 i super ricchi – molti dei quali presenti a Davos – a detenere la stessa ricchezza di metà della popolazione più povera (3,6 miliardi di persone). Oggi, a detenere quella ricchezza sono solo in 8.

È chiaro dunque che a Davos il tema della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi abbia continuato a tenere banco. Solo per alcuni continua a essere una questione morale, ma per tutti è una questione economica e politica che mette in gioco il futuro dell’economia di mercato per come la conosciamo. C’è una domanda che assilla, sessione dopo sessione, gli Ad presenti al Forum: «C’è qualcosa che le corporation possono fare rispetto alla piaga della disuguaglianza che mette in pericolo la sostenibilità economica, politica e sociale del nostro democratico sistema di mercato?» La risposta è sì.

La prima idea, semplice ed efficace, è che le corporation paghino la loro giusta quota di tasse, un tassello imprescindibile della responsabilità d’impresa, smettendo di fare ricorso a giurisdizioni a fiscalità agevolata. Apple potrebbe sentire di essere stata ingiustamente presa di mira tra tante, ma in fondo ha solo eluso un po’ più di altri.

Rinunciare a giurisdizioni segrete e paradisi fiscali societari, siano essi in casa o offshore, a Panama o alle Cayman nell’emisfero occidentale, oppure in Irlanda e in Lussemburgo in Europa. Non incoraggiare i paesi in cui si opera a partecipare da protagonisti alla dannosa corsa al ribasso sulla tassazione degli utili d’impresa, in cui gli unici a perdere davvero sono i poveri in tutto il mondo.

È vergognoso che il Presidente di un paese si vanti di non aver pagato le tasse per quasi vent’anni – suggerendo che siano più furbi quelli che non pagano –, o che un’azienda paghi lo 0,005% di tasse sui propri utili, come ha fatto la Apple. Non è da furbi, è immorale.

L’Africa da sola perde 14 miliardi di dollari in entrate a causa dei paradisi fiscali usati dai suoi super-ricchi: a questo proposito Oxfam ha calcolato che la cifra sarebbe sufficiente a pagare la spesa sanitaria per salvare la vita di 4 milioni di bambini e impiegare un numero di insegnanti sufficiente per mandare a scuola tutti i ragazzi di quel continente.

C’è poi una seconda idea altrettanto facile: trattare i propri dipendenti in modo dignitoso. Un dipendente che lavora a tempo pieno non dovrebbe essere povero. Ma è quel che accade: nel Regno Unito, per esempio, vive in povertà il 31% delle famiglie in cui c’è un adulto che lavora. I top manager delle grandi corporation americane portano a casa circa 300 volte lo stipendio di un dipendente medio. È molto di più che in altri paesi o in qualunque altro periodo della storia, e questa forbice ampissima non può essere spiegata semplicemente con i differenziali di produttività. In molti casi gli Ad intascano ingenti somme solo perché niente impedisce loro di farlo, anche se questo significa danneggiare gli altri dipendenti e alla lunga compromettere il futuro stesso dell’azienda. Henry Ford aveva capito l’importanza di un buono stipendio, ma i dirigenti di oggi ne hanno perso la cognizione.

Infine c’è una terza idea, sempre facile ma più radicale: investire nel futuro dell’azienda, nei suoi dipendenti, in tecnologia e nel capitale. Senza questo non ci sarà lavoro e la disuguaglianza non potrà che crescere. Attualmente invece una porzione sempre più consistente di utili finisce ai ricchi azionisti. Un esempio su tutti viene dalla Gran Bretagna, dove nel 1970 agli azionisti andava il 10% degli utili d’impresa, oggi il 70%. Storicamente le banche (e il settore finanziario) hanno svolto l’importante funzione di raccogliere risparmio dalle famiglie da investire nel settore delle imprese per costruire fabbriche e creare posti di lavoro. Oggi negli Stati Uniti il flusso netto di denaro compie esattamente il percorso opposto. L’anno scorso, Philip Green, magnate britannico della vendita al dettaglio, è stato accusato da una commissione parlamentare di non aver investito abbastanza nella sua azienda e di aver inseguito il proprio tornaconto personale, arrivando alla bancarotta e a un deficit previdenziale di 200 milioni di sterline. Per quanto incensato e blandito dai governi succedutisi, promosso a cavaliere del regno e considerato faro dell’economia britannica, quella commissione parlamentare non avrebbe potuto scegliere parole più esatte, definendolo come «la faccia inaccettabile del capitalismo».

Le multinazionali sanno che il loro successo non dipende solo dalle leggi dell’economia, ma dalle scelte di politica economica che ciascun paese compie. È per questo che spendono così tanto denaro per fare lobby. Negli Stati Uniti, il settore bancario ha esercitato il suo potere d’influenza per ottenere la deregulation, raggiungendo il proprio obiettivo. Ne sanno qualcosa i contribuenti costretti a pagare un conto salato per quanto accaduto in seguito. Negli ultimi 25 anni, in molti paesi, le regole dell’economia liberista sono state riscritte col risultato di rafforzare il potere del mercato e far esplodere la crisi della disuguaglianza. Molte corporation sono poi state particolarmente abili – più che in qualsiasi altro campo – nel godere di una rendita di posizione – vale a dire nel riuscire ad assicurarsi una porzione più grande di ricchezza nazionale, esercitando un potere monopolistico o ottenendo favori dai governi. Ma quando i profitti hanno questa origine, la ricchezza stessa di una nazione è destinata a diminuire. Il mondo è pieno di aziende guidate da uomini illuminati che hanno capito quanto l’unica prosperità sostenibile sia la prosperità condivisa, e che pertanto non fanno uso della propria influenza per orientare la politica, al fine di mantenere una posizione di rendita finanziaria. Hanno capito che nei paesi dove la disuguaglianza cresce a dismisura, le regole dovranno essere riscritte per favorire investimenti a lungo termine, una crescita più veloce e una prosperità condivisa.

Condividi post
Repost0
20 maggio 2017 6 20 /05 /maggio /2017 17:31

Il rapporto. Oxfam: colpa di miliardari e multinazionali. In Italia in sette hanno i beni del 30% della popolazione

ROMA. A furia di deregulation e libero mercato, viviamo in un mondo dove più che l’uomo conta il profitto, dove gli otto super miliardari censiti da Forbes, detengono la stessa ricchezza che è riuscita a mettere insieme la metà della popolazione più povera del globo: 3,6 miliardi di persone. E non stupisce visto che l’1% ha accumulato nel 2016 quanto si ritrova in tasca il restante 99%. È la dura critica al neoliberismo che arriva da Oxfam, una delle più antiche società di beneficenza con sede a Londra, ma anche una sfida lanciata ai Grandi della Terra, che domani si incontreranno a Davos per il World Economic Forum.

I dati del Rapporto 2016, dal titolo significativo, “Un’economia per il 99%” (la percentuale di popolazione che si spartisce le briciole), raccontano che sono le multinazionali e i super ricchi ad alimentare le diseguaglianze, attraverso elusione e evasione fiscale, massimizzazione dei profitti e compressione dei salari. Ma non è tutto. Grandi corporation e miliardari usano il potere politico per farsi scrivere leggi su misura, attraverso quello che Oxfam chiama capitalismo clientelare.

E l’Italia non fa eccezione. I primi 7 miliardari italiani possiedono quanto il 30% dei più poveri. «La novità di quest’anno è che la diseguaglianza non accenna a diminuire, anzi continua a crescere, sia in termini di ricchezza che di reddito», spiega Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia. Nella Penisola il 20% più ricco ha in tasca il 69,05% della ricchezza, un altro 20% ne controlla il 17,6%, lasciando al 60% più povero il 13,3%. O più semplicemente la ricchezza dell’1% più ricco è 70 volte la ricchezza del 30% più povero. http://www.repubblica.it/static/images/cronaca/2017/poverta.jpg

Ma Oxfam non punta il dito solo sulla differenza tra i patrimoni di alcuni e i risparmi, piccoli o grandi, dei tanti. Le differenze si sentono anche sul reddito, che ormai sale solo per gli strati più alti della popolazione. Perché mentre un tempo l’aumento della produttività si traduceva in un aumento salariale, oggi, e da tempo, non è più così. Il legame tra crescita e benessere è svanito. La ricchezza si ferma solo ai piani alti.

Accade ovunque, Italia compresa. Gli ultimi dati Eurostat confermano che i livelli delle retribuzioni non solo non ricompensano in modo adeguato gli sforzi dei lavoratori, ma sono sempre più insufficienti a garantire il minimo indispensabile alle famiglie. E per l’Italia va anche peggio, essendo sotto di due punti alla media Ue. Quasi la metà dell’incremento degli ultimi anni, il 45%, è arrivato solo al 20% più ricco degli italiani. E solo il 10% più facoltoso dei concittadini è riuscito a far salire le proprie retribuzioni in modo decisivo.

Non ci si deve stupire dunque se ben il 76% degli intervistati - secondo il sondaggio fatto da Oxfam per l’Italia - è convinto che la principale diseguaglianza si manifesti nel livello del reddito. E l’80%, una maggioranza bulgara, considera prioritarie e urgenti misure per contrastarla. Ai governi Oxfam chiede di fermare sia la corsa al ribasso sui diritti dei lavoratori, sia le politiche fiscali volte ad attirare le multinazionali. Oppure nel giro di 25 anni assisteremo alla nascita del primo trilionario, una parola oggi assente dai dizionari.http://www.repubblica.it/static/images/cronaca/2017/galbiati.jpg

Condividi post
Repost0
8 maggio 2017 1 08 /05 /maggio /2017 20:22

Cina e Islanda, grande accordo per l'energia pulita

Sinopec, il gigante cinese del petrolio, ha stretto un'intesa con gli islandesi di Arctic Green Energy: in Cina grazie alla tecnologia di questi ultimi si fornirà a fornire tanta energia e riscaldamento da ridurre le emissioni di CO2 di almeno tre milioni di tonnellate l'anno; in Islanda investimenti cinesi potenzieranno la produzione di energie rinnovabili

ANDREA TARQUINI - La Repubblica

 

 

REYKJAVIK - In nome dell'energia pulita, nascono oggi le alleanze più insolite, tanto meglio per il mondo. Sinopec, il gigante cinese del petrolio, ha stretto un'intesa con gli islandesi di Arctic Green Energy. I vichinghi portano alla Repubblica popolare la loro esperienza tecnologica d'eccellenza nel campo della produzione di energia geotermica con estrazioni anche a grande profondità, i cinesi aiutano gli islandesi con la loro enorme 'cassa di guerra', risorsa infinita d'investimenti, e insieme i due gruppi hanno già speso in corsa 55 milioni di euro a Xiong, circa 110 chilometri da Pechino, per utilizzare la tecnologia islandese e trivellare il sottosuolo senza estrarre una goccia di combustibili fossili.

L'obiettivo, viste le nuove strategie cinesi sia di risanamento dell'ambiente sia di investimenti nell'economia globale, è appunto lavorare insieme, sempre più, nelle trivellazioni per estrarre energia geotermica. Quella dei Geyser, dei vulcani, di tutte le altre fonti pulite e rinnovabili che già oggi coprono pressoché la totalità del fabbisogno energetico dell'Islanda in solida crescita economica.

L'alleanza tra il piccolo ma postmoderno paese scandinavo e la superpotenza di domani promette molto per il futuro. Per entrambi, e per il resto del mondo, con sinergie e probabili investimenti e proposte bilaterali di nuova politica energetica in paesi terzi. In Cina grazie alla tecnologia islandese di Arctic Green Energy Sinopec si prepara a fornire tanta energia e riscaldamento da ridurre le emissioni di CO
2 di almeno tre milioni di tonnellate l'anno. In Islanda, investimenti cinesi non potranno che potenziare la produzione di energie rinnovabili. Già oggi se visiti l'Islanda propulsa e illuminata dall'energia pulita, vedendo la movida di Reykjavìk, il grande traffico aereo e la vivace attività economica in ogni settore, davvero non hai l'impressione che l'ecologia freni prosperità o crescita. Investimenti dell'Impero di mezzo potranno solo migliorare ancora una situazione già ottima.

Per la Cina, sul piano della sua produzione energetica ancora dipendente in gran parte da carbone e petrolio, l'alleanza con l'Islanda è solo un inizio, in rapporto ai 700 MegaWatt annui di produzione d'energia geotermica, quindi rinnovabile e pulita, della piccolissima isola felice. E una cosa è soddisfare il fabbisogno energetico d'una piccola splendida nazione con 330 mila abitanti, altro è fornire energia alla seconda potenza mondiale col suo miliardo e mezzo di cittadini. I costi della trivellazione in profondità per liberare e usare energia geotermica sono anche molto alti. Gli investimenti presenti e futuri si annunciano più redditizi in Islanda, 'Eldorado della geotermica', dove le temperature sotterranee oltrepassano i 250 gradi celsius, in media cento in più di quelle rilevate in Cina o altrove.

Ma a volte alleanze tra Davide e Golia sono vincenti. Investimenti comuni e ricerca tecnologica comune - con il know how di Green Arctic Energy e delle università islandesi da un lato, e le potenzialità cinesi in ogni comparto delle alte tecnologie dall'altro - possono promettere molto, ai due paesi e al resto del mondo. Un'Islanda ancor più ecologica e pulita di quanto già non sia oggi, una Cina che accelera la sua riconciliazione con l'ambiente. E altre sinergie. L'Islanda, che conosce un boom economico tra l'altro grazie al turismo ipertrofico - quasi due milioni di visitatori l'anno con 330 mila abitanti appena - già appare ancor più interessante al numero crescente di turisti cinesi che sorridenti e pacifici invadono il mondo. E siccome già oggi Reykjavìk importa manodopera per sostenere la crescita economica, magari anche i giovani qualificati cinesi vi troveranno un futuro, godendosi welfare e libertà in stile scandinavo. Se passeggi nel bel centro della piccola ma vivacissima capitale, già ne vedi molti, sorridenti e giocosi ma sempre puntuali al lavoro, poi a sera festeggianti con i loro amici biondi locali nei locali di tendenza tra Bankastraeti e Laegavegur. Le infrastrutture per accoglierli ci sono tutte. A cominciare dall'aeroporto internazionale di Keflavìk, capace di accogliere i più grossi jet di Air China e delle altre Airlines della Repubblica popolare carichi di turisti e di tecnici e di manager di Sinopec. Aeroporto che ovviamente già funziona solo con energie rinnovabili. Collegato alla capitale Reykjavìk con autobus e taxi propulsi da biocarburanti.

Chi sa quanto potrà essere più pulito, ecologico, rinnovabile e sostenibile il mondo di domani grazie all'alleanza d'investimenti tra i due global player Arctic Green Energy e Sinopec, tra il minuscolo postmoderno paese scandinavo e il gigante dell'Asia.

 

 

Islanda: pozzo profondo 4,7 km, nel vulcano il sogno energia pulita

Il nome deriva da Thor, il dio nordico dei tuoni e dei fulmini: si tratta dell'impianto di perforazione islandese per la produzione di energia pulita

 Monia Sangermano

 

5 maggio 2017 - 11:05

image: http://www.meteoweb.eu/wp-content/uploads/2017/05/thor-vulcano-islanda.jpg

http://www.meteoweb.eu/wp-content/uploads/2017/05/thor-vulcano-islanda.jpg

Il nome deriva da Thor, il dio nordico dei tuoni e dei fulmini, e scava in profondità nel cuore di un vulcano: si tratta dell’impianto di perforazione fiore all’occhiello del governo islandese per la produzione di energia pulita. Un progetto sperimentale che potrebbe produrre fino a 10 volte più energia di quella di un pozzo di petrolio o gas convenzionale, generando elettricità dal calore immagazzinato nelle aree vulcaniche, all’interno della terra. Il programma del governo islandese per sfruttare l’energia geotermica risale alla crisi petrolifera degli anni 1970.

Ma il progetto e’ partito la scorsa estate e la perforazione e’ terminata il 25 gennaio scorso, a una profondita’ record di oltree 4km e mezzo (4,659 km per la precisione). A questa profondita’, i liquidi caldi sotto pressione e la temperatura a 427 gradi centigradi formano una quantita’ enorme di vapore per mettere in moto una turbina e generare energia elettrica pulita. Il nuovo pozzo geotermico potrebbe generare una quantita’ straordinaria di energia, perche’ il calore estremo e la pressione fanno si’ che l’acqua assuma una forma di fluido “supercritico“, ne’ gas ne’ liquido. “Da questo pozzo ci aspettiamo di ottenere energia in quantita’ superiori tra le 5 e le 10 volte rispetto a una tradizionale“, spiega Albert Albertsson, uno degli ingegneri dell’azienda energetica islandese HS Orka, che gestisce il progetto. Per dare un’idea della potenza basti fare il raffronto tenendo conto dell’energia necessaria a ‘sfamare’ una citta’ come Reykjavic e i suoi 212mila abitanti: 30/35 pozzi convenzionali rispetto ai 3/5 pozzi “supercritici”.


Per approfondire http://www.meteoweb.eu/2017/05/islanda-pozzo-profondo-47-km-nel-vulcano-sogno-energia-pulita/897501/#Lbxh4MlQkSlFw1Br.99

 

Condividi post
Repost0
6 maggio 2017 6 06 /05 /maggio /2017 09:41

Bontempi, Birra Messina & Co: quando i dipendenti si ricomprano l'azienda

Crescono in Italia i Wbo, i casi di imprese rilevate dai lavoratori. Legacoop ne sta supportando quasi 50 con uno strimento finanziario che opera come un fondo di private equity. Così si salvano dal fallimento realtà colpite dal credit crunch

CHRISTIAN BENNA – La Repubblica

Quando tutto è perduto tocca alle tute blu indossare giacca e cravatta da top manager. E qualche volta, e molto più spesso di quanto si possa immaginare, il cambio d'abito e di ruolo risolleva ordini e commesse, riuscendo a rimettere in pista l'azienda laddove imprenditori e alti dirigenti si erano arresi. Almeno questo racconta la cronaca economica di 50 casi di salvataggi aziendali, per 1200 posti di lavoro e 178 milioni di euro di ricavi che, negli ultimi 5 anni in Italia sono stati possibili grazie all'intervento dei dipendenti che si sono trasformati in "padroni", formando cooperative che hanno rilevato la proprietà e hanno salvato l'impresa. Imprese recuperate che sono una bella soddisfazione per chi ce l'ha fatta ma anche per il sistema cooperativo il quale, attraverso i suoi bracci finanziari, partecipa e sostiene queste iniziative.

"Negli ultimi anni c'è stato un considerevole aumento delle richieste di lavoratori che provano a salvare la propria azienda in dissesto investendo di tasca propria nel rilancio aziendale ", ammette Mauro Lusetti, presidente di Legacoop, l'associazione che riunisce 15 mila imprese cooperative in tutti i settori industriali, del commercio e dei servizi. "Il ruolo del sistema cooperativo - dice Lusetti - è di supporto ma non solo finanziario. Pertanto decidiamo di partecipare, coinvolgendo anche attori del mondo bancario, in quelle iniziative che hanno una strategia industriale che possa avere successo. Ma non parlerei di workers buyout quanto di imprese recuperate. Perché questo è il nostro ruolo: recuperare quelle aziende che con un piccolo aiuto possono farcela a rimettersi in piedi".

Il dizionario aggiornato del management anglosassone chiama questo fenomeno workers buyout, ma la sua notorietà ha il volto meno spumeggiante della bancarotta argentina, quando le fabbriche occupate dai lavoratori, "fabricas sin patrones", hanno provato ad opporsi ai fallimenti e alle chiusure a raffica delle imprese del paese attraverso l'autogestione industriale. E qui, dietro il successo del Wbo in salsa italiana, sta la cattiva notizia: il numero dei fallimenti nel nostro paese rimane molto alto. Anche se nel primo trimestre le chiusure sono calate notevolmente, meno 16% rispetto allo stesso periodo del 2015, primo segnale di inversione di tendenza che ci si auspica sarà confermato per tutto il 2017. Ma il fatto è che l'Italia viaggia da troppo tempo, dal 2009 a oggi, intorno a 13-15 mila aziende che ogni anno portano i libri in tribunale. E il credit crunch, la stretta del credito, è ancora una dura realtà per le piccole e medie imprese. Secondo Confcommercio, in Italia, solo l'11% delle micro imprese, quelle entro i nove addetti, "vengono soddisfatte in termini di crediti", mentre per le grandi il tasso si quadruplica al 41%. Insomma capita spesso che si chiuda bottega non tanto perché il mercato è deludente o non funzionano i prodotti, quanto per mancanza di risorse del sistema finanziario. Non tutti però hanno intenzione di mollare. E il movimento cooperativo offre una sponda per tutti quei lavoratori che vogliono provare a recuperare la propria impresa in dissesto.

Il fenomeno del workers buyout è meno celebre e meno utilizzato del suo fratello ricco e patinato, il management buyout, quando i dirigenti si trasformano in imprenditori e acquistano l'azienda, magari spalleggiati dai fondi di private equity. Il Wbo è tuttavia istituzionalizzato da tempo nel nostro paese, dal 1986, quando la legge Marcora, per iniziativa delle organizzazioni cooperative Legacoop, Confcooperative e Agci, ha messo a disposizione un fondo rotativo per sostenere quei dipendenti che - attraverso la forma mutualistica della cooperativa - intendono salvare la propria azienda dal dissesto. Da allora il sistema della coop, attraverso il braccio operativo di Cooperazione Finanza Impresa (Cfi), l'ente nato per sostenere il fondo della Legge Marcora, ha investito 205 milioni di euro in 370 ristrutturazioni, per 14 mila addetti coinvolti. Ma è negli ultimi anni che si è registrata una crescita di questi interventi. Prendete il caso di Italcables, azienda siderurgica napoletana che produce filo e trecce per il cemento armato per prefabbricati. La sua storia di declino industriale avrebbe potuto passare inosservata, immersa in quel calderone di fallimenti che dall'inizio della grande crisi sta ingoiando interi pezzi di tessuto produttivo. Il settore delle costruzioni è al collasso, per un'azienda in difficoltà specializzata in prefabbricati, i rubinetti del credito rimangono chiusi, i fornitori smettono di inviare materie prime, nel timore di non essere pagati. Insomma, a prescindere dagli ordini in corso, c'è un clima di sfiducia che paralizza l'azienda. I manager e la proprietà di Italcables si arrendono e abbassano le saracinesche. Iniziano così le procedure fallimentari ma i tentativi di vendita all'asta si chiudono con un buste vuote. I dipendenti di Italcables, una cinquantina di persone, non ci stanno. E decidono di mettere in cassa comune liquidazione, 25 mila euro a testa della mobilità e anche risparmi privati, per affittare un ramo d'azienda per tre anni. Cercano e trovano sponda nel movimento cooperativo che partecipa al rilancio dell'azienda e ottengono un sostegno finanziario da Banca Etica. Ecco che gli impianti di Italcables, fermi da due anni, si rimettono in marcia. Ritrovano le vecchie commesse e ne trovano di nuove, soprattutto all'estero. La maggior parte delle imprese in cui è intervenuta Cfi, sono Pmi, il 63% ha una popolazione aziendale compresa tra 10 e 49 dipendenti. Ma casi come quello di Italcables, dove i lavoratori superano la cinquantina, sono in sensibile aumento.

Basti pensare alla 3Elle di Imola, produttrice di porte e infissi, 15 milioni di ricavi e 80 addetti, alle ceramiche di Greslab di Scandiano, 16 milioni di fatturato e 60 dipendenti, la Cartiera Pirinoli di Pinerolo, 116 lavoratori e 28 milioni di fatturato. A dimostrazione che, aggiunge Lusetti, "il modello cooperativo funziona e in alcuni casi riesce a recuperare aziende che sembravano destinate a scomparire ". Il settore più coinvolto dal Wbo in Italia è quello manifatturiero, più di 100 casi, davanti a retail, ristorazione, servizi e commercio. I territori più battuti sono quelli a vocazione cooperativa, come il centro Italia, soprattutto l'Emilia Romagna, la Toscana, ma anche il Veneto. Oltre al sostegno del fondo rotativo della Legge Marcora e dei bracci finanziari delle cooperative intervengono anche protagonisti del mondo mutualistico, come Banca Etica e Unipol Banca

Condividi post
Repost0
13 marzo 2017 1 13 /03 /marzo /2017 16:39

C'é una persona che rinuncia a garantire il futuro ai propri figli o nipoti ? Occorre essere convinti e darsi da fare. E' da cambiare il modello di sviluppo economico, la produzione della ricchezza e la sua distribuzione. Quello che é in discussione è lo stato sociale: vogliamo mantenere la garanzia per i cittadini del welfare cioé del lavoro, della casa, della pensione, dell'assistenza sociale e della salute?(ndr.)

Da oggi il pianeta viaggia in riserva

Secondo i calcoli del Global Footprint Network, ieri, 22 agosto 2012, è stato il giorno in cui l'umanità ha consumato tutte le risorse che il Pianeta potrà produrre nell'anno 2012

 

È l’Overshoot Day, il giorno in cui la Terra finisce le risorse dell’anno. Venticinque anni fa la data cadeva a dicembre, ora arriva ad agosto
E gli studiosi avvertono: l’umanità avrebbe bisogno di una Terra e mezza
è il momento di pensare al futuro e di invertire la tendenza

 

VALENTINA ARCOVIO – 23/8/2012

Siamo ancora lontani dalla fine dell’anno e già la Terra è andata «in rosso». Ieri si sono esauriti ufficialmente i beni naturali che il pianeta è in grado di rigenerare in un anno. Praticamente, in soli 234 giorni, anziché 365 abbiamo sperperato tutto quello che la Terra ha da offrire all’umanità. Siamo quindi giunti in larghissimo anticipo al «Global Overshoot Day», concetto ideato dalla New Economics Foundation di Londra, che calcola il rapporto tra la biocapacità globale (l’ammontare di risorse naturali che la Terra genera ogni anno) e l’impronta ecologica (la quantità di risorse e di servizi che richiede l’umanità), moltiplicato per tutti i giorni dell’anno.

I risultati nel 2012 sono sconfortanti: fino alla fine dell’anno vivremo in debito. Non che sia una novità, ma rispetto al 2011 la Terra si è scaricata con 36 giorni d’anticipo. «Il giorno della resa dei conti è arrivato», dice l’organizzazione non governativa Global Footprint Network, che calcola l’impronta ecologica annuale. «Nel corso degli ultimi 50 anno il deficit ecologico sta crescendo in modo esponenziale», afferma Mathis Wackernagel, fondatore di Gfn. Un pianeta solo non è più sufficiente per soddisfare le nostre esigenze e per assorbire i nostri rifiuti. Ora i bisogni dell’umanità superano il 50% delle risorse disponibili. Già oggi avremmo bisogno di un pianeta e mezzo e, di questo passo, l’umanità necessiterà di due «Terre» entro il 2050. Gli effetti del sovra-consumo sono molto evidenti: scarsità idrica, desertificazione, ridotta produttività dei campi coltivati, collasso degli stock ittici e cambiamenti climatici.

«Il degrado dell’ambiente naturale, poi, porta inevitabilmente a una riduzione della superficie produttiva e il nostro debito aumenta, condannando le generazioni future», dice il presidente del Gfn. Basta guardare l’andamento degli ultimi anni per farsi un’idea più chiara. Il primo Overshoot Day dell’umanità è stato il 19 dicembre 1987, anche se i calcoli hanno stabilito che il «debito ecologico» è iniziato già negli Anni Settanta dello scorso secolo. Tre anni dopo, nel 1990, il giorno del sovra-consumo era già passato al 7 dicembre, e dieci anni dopo (1997) al 26 ottobre.

L’anno scorso il deficit ecologico è stato raggiunto il 27 settembre, ma quest’anno si è appunto riusciti ad anticipare ulteriormente arrivando al 22 agosto. «Questo giorno è inteso come una indicazione piuttosto che la data esatta», precisano gli scienziati del Gfn. «Ma mentre non possiamo determinare con esattezza il giorno in cui sorpassiamo la soglia – aggiungono - sappiamo che ci stiamo spostando su un livello di domanda di risorse non sostenibile, e molto prima che l’anno sia finito». Dal 2003 gli esperti hanno iniziato a valutare la quantità di risorse nel mondo e il modo in cui vengono gestite. Utilizzando l’ettaro globale come unità di misura dell’impronta ecologica (gha), gli scienziati hanno confrontato il consumo effettivo dei paesi analizzati alla biocapacità. Nel 2008 (i dati per gli anni successivi non sono stati ancora elaborati), l’impronta ecologica è stata del 2,7 gha pro-capite per un limite di capacità di 1,8 gha pro-capite. I principali responsabili del disavanzo sono state le emissioni di anidride carbonica che da sole hanno riguardato il 55% dell’impronta ecologica globale.

Ma ci sono Paesi che hanno più colpe di altri. Sui 149 presi in esame, 60 sono responsabili del debito. In cima alla classifica troviamo il Qatar che ha finito per superare il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti con un consumo di 11,68 gha pro-capite. Per gli esperti non abbiamo più tempo da perdere. Bisogna approfittare di questo momento di grande cambiamento per l’economia globale per aiutare il pianeta a «rigenerarsi». «Ora che tentiamo di ricostruire le nostre economie sane e robuste, è il momento di proporre delle modalità che siano valide e adatte per il futuro», conclude Wackernagel.

Corriere della sera – Ambiente

OLTREPASSATA LA SOGLIA DEL 2011

Dal 27 settembre il mondo consuma
più risorse di quante ne produce

Raggiunto l'Earth Overshoot Day per quanto riguarda la capacità rigenerativa dell'ecosistema

 

MILANO - Mancano ancora più di tre mesi alla fine dell'anno e siamo già in rosso. La Terra dal 27 settembre ha raggiunto il limite: consuma più risorse di quanto è in grado di produrne. In inglese si dice che abbiamo raggiunto l'Earth Overshoot Day (Eod), quando il consumo di risorse oltrepassa la soglia calcolata per tutto il 2011. Lo ricorda l'organizzazioneGlobal footprint network.

 

LE RIPERCUSSIONI - A pagare le spese del deficit saranno soprattutto le foreste (che devono assorbire l'anidride carbonica in più), la qualità dell'aria (maggior inquinamento), gli oceani (scarico di rifiuti e sovrasfruttamento degli stock ittici), e ci sarà un impatto maggiore dei cambiamenti climatici. L'Eod aiuta a comprendere il divario tra il livello sostenibile dello sviluppo e quello reale: secondo il modello di vita che stiamo conducendo a livello globale (le realtà infatti sono molto diversificate tra i Paesi sviluppati e il Terzo mondo) prima della metà del secolo avremo bisogno di due pianeti. Solo che non li abbiamo. Alla fine dell'anno consumeremo il 135% delle risorse prodotte nel 2011. E quel che è peggio stiamo accelerando il ritmo di consumo: lo scorso anno, per esempio, l'Eod si era raggiunto circa quindici giorni prima.

 

CHIARO SEGNALE - «Il segnale che ci proviene dall'Eod è molto chiaro e costituisce uno stimolo fortissimo per accelerare la trasformazione del nostro sistema economico verso una strada di sostenibilità e di una nuova economia che metta al centro il valore del capitale naturale, senza il quale non esiste benessere e sviluppo economico nelle nostre società», ha commentato Gianfranco Bologna, direttore scientifico di Wwf Italia.

 

Corriere della Sera

Resi noti i dati del Living Planet Report 2006

Entro il 2050 ci serve un altro pianeta

Esaurite le risorse se continua l'attuale ritmo di consumo di acqua, suolo fertile e foreste. Emirati Arabi e Usa i Paesi "peggiori"

 

 

 

 

 

ROMA - La presenza dell'uomo sulla Terra è sempre più ingombrante e la sua «impronta» sta lasciando un segno che rischia di essere indelebile. Un pianeta non basta: nel 2050 ce ne vorranno «due», se continua l'attuale ritmo di consumo di acqua, suolo fertile, risorse forestali, specie animali tra cui le risorse ittiche: gli ecosistemi naturali si stanno degradando ad un ritmo impressionate, senza precedenti nella storia della specie umana. È quanto si legge in Living Planet Report 2006, il rapporto del WWF giunto alla sua sesta edizione, diffuso proprio da uno dei paesi a più rapido sviluppo, la Cina.

I DATI - Negli oltre trent'anni presi in considerazione, le specie terrestri si sono ridotte del 31%, quelle di acqua dolce del 2 % e quelle marine del 27%. Il secondo indice, l'Impronta Ecologica, misura la domanda in termini

 

 

di consumo di risorse naturali da parte dell'umanità. Il «peso dell' impatto-umano» sulla Terra è più che triplicato nel periodo tra il 1961 e il 2003: la nostra impronta ha già superato del 25%, nel 2003, la capacità bioproduttiva dei sistemi naturali che utilizziamo per il nostro sostentamento. Nel rapporto precedente (quello pubblicato nel 2004 e basato sui dati del 2001) era del 21%. In particolare, l'Impronta relativa al CO2, derivante dall'uso di combustibili fossili, è stata quella con il maggiore ritmo di crescita dell'intera Impronta globale: il nostro "contributo di CO2 in atmosfera è cresciuto di nove volte dal 1961 al 2003. L'Italia ha un'impronta ecologica (sui dati 2003) di 4.2 ettari globali pro capite, con una biocapacità di 1 ettaro globale pro capite, mostrando quindi un deficit ecologico di 3.1 ettari globali pro capite.

EMIRATI ARABI E USA I PEGGIORI - I paesi con oltre un milione di abitanti con l'Impronta ecologica più «vasta», calcolata su un ettaro globale a persona, sono gli Emirati Arabi, gli Stati Uniti, la Finlandia, il Canada, il Kuwait, l'Australia, l'Estonia, la Svezia, la nuova Zelanda e la

 

 

Norvegia. La Cina si pone a metà nella classifica mondiale, al 69esimo posto, ma la sua crescita economica (che nel 2005 è stata del 10,2) e il rapido sviluppo economico che la caratterizza giocheranno un ruolo chiave nell'uso sostenibile delle risorse del pianeta nel futuro. Questo è uno dei motivi per cui Living Planet Report quest'anno è stato lanciato proprio in Cina. Il WWF crede che sia vitale per il pianeta che la Cina e gli altri paesi di nuova industrializzazione (che globalmente raggiungono oltre il miliardo di abitanti e che stanno raggiungendo un livello di consumo paragonabile ai paesi dell'area OCSE) non segua i modelli di sviluppo dell'Occidente, ma persegua il proprio sviluppo in una chiave di sostenibilità.

CALCOLI PER DIFETTO - «La popolazione umana entro il 2050 raggiungerà un ritmo di consumo pari a due volte la capacità del pianeta

 

 

Terra» - si legge nel documento. «Siamo in un debito ecologico estremamente preoccupante, considerato che i calcoli dell'impronta ecologica sono per difetto. Consumiamo le risorse più velocemente di quanto la Terra sia capace di rigenerarle e di quanto la Terra sia capace di «metabolizzare» i nostri scarti - dichiara Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia. - E questo porta a conseguenze estreme ed anche molto imprevedibili. È tempo di assumere scelte radicali per quanto riguarda il mutamento dei nostri modelli di produzione e consumo.

25 ottobre 2006

 

 L'enciclica di Francesco: «La terra è ferita, serve una conversione ecologica»

La lettera «Laudato si'»: siamo cresciuti credendoci autorizzati a saccheggiare il pianeta. La crisi ambientale è crisi antropologica ed è legata al modello di sviluppo: bisogna eliminare le cause strutturali di un'economia che non rispetta l'uomo. Appello a governi e istituzioni, proposta di nuovi stili di vita. La difesa della natura non è compatibile con aborto e sperimentazione sugli embrioni. Per la prima volta in un'enciclica la citazione di un mistico del sufismo, Ali Al-Khawwas

 

 

Enciclica di papa Francesco a difesa della terra  

w2.vatican.va/content/.../it/.../papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html

Papa Francesco, l'Enciclica "verde": "Salvate il Pianeta dall'uomo"

La bozza del documento in arrivo giovedì: un manifesto ecologista

 

CITTA' DEL VATICANO - "Lettera Enciclica Laudato sì del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune". C'è il simbolo papale del Pontefice argentino, il suo motto ("Miserando atque eligendo"), e quasi 200 pagine di testo con tanto di citazioni e note. Un'introduzione, sei capitoli, due preghiere finali. L'Espresso ieri pomeriggio ha pubblicato una versione integrale dell'Enciclica già battezzata come "verde", ambientalista, di Jorge Mario Bergoglio, tre giorni prima della presentazione ufficiale in Vaticano. Un testo che, al di là di qualche variazione e limatura finale, sarà molto simile a quello definitivo. Dopo l'uscita del settimanale, il portavoce della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ha rilasciato una dichiarazione: "È stato pubblicato il testo italiano di una bozza dell'Enciclica del Papa "Laudato si'". Si fa presente che non si tratta del testo finale e che la regola dell'embargo rimane in vigore". Non una smentita del testo anticipato, dunque, di cui presentiamo qui ampi estratti.

NOSTRA SORELLA TERRA
"Laudato si', mì Signore", cantava San Francesco d'Assisi. In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l'esistenza. Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell'uso irresponsabile e dell'abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La distruzione dell'ambiente umano è qualcosa di molto serio. Il Patriarca Bartolomeo si è riferito particolarmente alla necessità che ognuno si penta del proprio modo di maltrattare il pianeta. Su questo punto, egli si è espresso ripetutamente in maniera ferma e stimolante, invitandoci a riconoscere i peccati contro la creazione. Perché "un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio". Credo che Francesco sia l'esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità. È il santo patrono di tutti quelli che studiano e lavorano nel campo dell'ecologia".

IL MIO APPELLO
La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare. Alcuni assi portanti che attraversano tutta l'Enciclica. Per esempio: l'intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; l'invito a cercare altri modi di intendere l'economia; la grave responsabilità della politica internazionale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita. Esistono forme di inquinamento che colpiscono quotidianamente le persone. C'è da considerare anche l'inquinamento prodotto dai rifiuti. La terra, nostra casa, sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia".

ACQUA PULITA PER TUTTI
Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti. L'acqua potabile e pulita rappresenta una questione di primaria importanza, perché è indispensabile per la vita umana e per sostenere gli ecosistemi terrestri e acquatici. In realtà, l'accesso all'acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale. Questo mondo ha un grave debito sociale verso i poveri che non hanno accesso all'acqua potabile. Ricordiamo, per esempio, quei polmoni del pianeta colmi di biodiversità che sono l'Amazzonia e il bacino fluviale del Congo, o le grandi falde acquifere e i ghiacciai. C'è infatti un vero "debito ecologico", soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico. Il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c'è bisogno di costruire leadership che indichino strade. Degna di nota è la debolezza della reazione politica internazionale. La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull'ambiente. Nel frattempo i poteri economici continuano a giustificare l'attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria".

CUSTODIRE LA TERRA
"Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data. È importante leggere i testi biblici nel loro contesto, e ricordare che essi ci invitano a "coltivare e custodire" il giardino del mondo. Mentre "coltivare" significa arare o lavorare un terreno, "custodire" vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. La tecnoscienza, ben orientata, è in grado non solo di produrre cose realmente preziose per migliorare la qualità della vita dell'essere umano, a partire dagli oggetti di uso domestico fino ai grandi mezzi di trasporto. Tuttavia non possiamo ignorare che l'energia nucleare, la biotecnologia, l'informatica, la conoscenza del nostro stesso Dna e altre potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo potere".

ECOLOGIA QUOTIDIANA
"È necessario curare gli spazi pubblici. La mancanza di alloggi è grave in molte parti del mondo. La qualità della vita nelle città è legata in larga parte ai trasporti, che sono spesso causa di grandi sofferenze per gli abitanti. Nelle città circolano molte automobili utilizzate da una o due persone, per cui il traffico diventa intenso, si alza il livello d'inquinamento, si consumano enormi quantità di energia non rinnovabile e diventa necessaria la costruzione di più strade e parcheggi, che danneggiano il tessuto urbano. Molti specialisti concordano sulla necessità di dare priorità ai trasporti pubblici. Le previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e ironia".

LINEE DI AZIONE
"Per i Paesi poveri le priorità devono essere lo sradicamento della miseria e lo sviluppo sociale dei loro abitanti; al tempo stesso devono prendere in esame il livello scandaloso di consumo di alcuni settori privilegiati della loro popolazione e contrastare meglio la corruzione. In ogni discussione riguardante un'iniziativa imprenditoriale si dovrebbe porre una serie di domande, per poter discernere se porterà ad un vero sviluppo integrale: Per quale scopo? Per quale motivo? Dove? Quando? In che modo? A chi è diretto? Quali sono i rischi? A quale costo? Chi paga le spese e come lo farà? Il principio della massimizzazione del profitto è una distorsione concettuale dell'economia. Qual è il posto della politica? Abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi".

CAMBIARE STILE DI VITA
Un cambiamento negli stili di vita potrebbe arrivare ad esercitare una sana pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale. È ciò che accade quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di acquistare certi prodotti. L'educazione alla responsabilità ambientale può incoraggiare vari comportamenti che hanno un'incidenza diretta e importante nella cura per l'ambiente, come evitare l'uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare, trattare con cura gli altri esseri viventi, utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone, piantare alberi, spegnere le luci inutili. Non bisogna pensare che questi sforzi non cambieranno il mondo. La 
crisi ecologica è un appello a una profonda conversione interiore. La sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità, ma tutto il contrario. Si può aver bisogno di poco e vivere molto".


 

Condividi post
Repost0

Presentazione

  • : Blog di mario bolzonello
  • : VI INVITO A SCRIVERE COMMENTI, OPINIONI. CLICCA IN FONDO A DESTRA DEGLI ARTICOLI. Mi sembra utile istituire un collegamento tra vari Blog per favorire la circolazione delle idee, delle riflessioni che aiutino a capire e affrontare la realtà nei suoi molteplici aspetti (questo blogo si limitata a una riflessione sui diritti civili, sulla religione, sulla politica, sull'economia, qualcosa sulla cultura, ma non sono un tutologo). Lo scopo è ampliare la partecipazione delle persone, per una loro migliore convivenza nella vita quotidiana, un ampliamento della conoscenza, del senso civico, della democrazia , e della buona politica. Si vuole essere propositivi e si escludo atteggiamenti di semplice denuncia e rivendicazione. SEGNALATE, PER FAVORE, I BLOG CHE HANNO QUESTE CARATTERISTICHE. GRAZIE. In fondo a destra si troveranno i blog interessanti
  • Contatti

Comunicazione

Se desiderate comunicare con l'autore scrivete a : mario.bolzonellozoia@gmail.com

Cerca

ISCRIVITI alla newsletter

Se ti iscrivi sarai avvisato automaticamente quando verrà pubblicatoun nuovo articolo

Titoli Del Blog

Pagine