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9 giugno 2017 5 09 /06 /giugno /2017 14:31

Lettera di Cirinnà al marito

http://www.repubblica.it/tecnologia/social-network/2017/06/09/foto/cirinna_anniversario_matrimonio_roma_pride-167660370/1/?ref=RHPPBT-BH-I0-C4-P2-S1.4-T1#1

Cultura e storia che forse non si  conosce

http://www.raistoria.rai.it/articoli/italiani-brava-gente/35571/default.aspx

L’ISIS in Europa

http://www.rai.it/dl/tg3/rubriche/PublishingBlock-307dcfe8-5184-467e-928a-98ae4bbf2d1f.html    

Michela Marzano

«HA fatto una cosa atroce», ha detto ieri Valeria Collina parlando dell'attentato commesso dal figlio Youssef a Londra lo scorso 3 giugno. Una cosa atroce «che non si può e non deve essere giustificata». Una cosa atroce che non ha niente a che vedere con l'Islam e con la fede. Una cosa atroce, frutto solo dell'«ignoranza» e della «cattiva informazione». È commossa, mentre parla, la madre di Youssef. Cioè, non proprio commossa, ma stravolta dal dolore. E incredula. Non è questo l'Islam cui lei è giunta dopo una lunga ricerca. Non è questo il messaggio di amore e di rispetto che lei ha sempre cercato di trasmettere al figlio. L'Islam, dice più volte Valeria, è cultura e conoscenza. L'Islam è tolleranza e comprensione.

Per la madre di Youssef, sarebbe quasi banale limitarsi a implorare il perdono. Come si fa anche solo a immaginare che basti chiedere scusa alle famiglie delle vittime per mettersi in pace con la propria coscienza dopo l'irreparabile commesso da un figlio? Valeria è convinta che l'unica cosa da fare per non sprofondare definitivamente nella disperazione sia per lei impegnarsi oggi in prima persona per educare i più giovani al rispetto reciproco e all'accettazione dell'alterità. Il male che sta rodendo dall'interno l'Islam è l'ignoranza, ed è solo diffondendo cultura che si può quindi sperare di sconfiggere i radicalismi e mettere un termine alla violenza estrema.

È questo il messaggio più forte che ci arriva dalle parole di questa madre e che possono essere utili in primo luogo ai musulmani. I ragazzi hanno bisogno di valori cui appoggiarsi, ma devono anche fare lo sforzo di studiare e di approfondire le proprie conoscenze. Hanno il diritto di praticare la religione che vogliono e di seguirne tutti i precetti, ma non dovrebbero mai cedere agli «stupidi radicalismi» che, diffusi su Internet, incantano, indottrinano e manipolano le persone più fragili e meno solide.

Valeria non si dà pace: come ha fatto a non rendersi conto che dietro lo sguardo sempre più intransigente del figlio si celava il mostro della radicalizzazione? Che cosa le è sfuggito? Come è stato possibile che lei, madre, non abbia capito la gravità della situazione? Sono cose che non dovrebbero succedere, ma che, nella vita, talvolta accadono. Anche semplicemente perché, quando la tragedia ci tocca da vicino, si resta spesso sordi e ciechi. Forse è per questo che le parole della mamma di Youssef vanno dritte al cuore. E sono un appello non solo a tutti gli altri genitori, ma anche a tutti i musulmani che sanno — e che forse, però, dovrebbero ripetere più sovente pubblicamente — che il terrorismo, con la fede non c'entra nulla e che la forza del proprio credo non dovrebbe mai portare all'intolleranza. Sono parole, quindi, che fanno bene all'Islam e che incitano alla comprensione reciproca. C'è una condanna netta del terrorismo e delle radicalizzazioni islamiste, senza "se" e senza "ma" nonostante sia il figlio ad esserne l'oggetto. Ma c'è anche la voglia di evitare letture superficiali, perché non è l'Islam che porta alla violenza, ma l'ignoranza e l'assenza di studio che permette ai radicalismi di insinuarsi nella nostra società.

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6 giugno 2017 2 06 /06 /giugno /2017 16:41

A Chicago il meeting oncologico più importante: 30mila scienziati e quattro nostri studi indipendenti

Le top ten della Big Pharma  

 Ricavi mondiali dei farmaci  oncologici 

       milioni di dollari                 2015             2022

1) ROCHE                                                                      25.707                   32.206

2)CELGENE                                                                    8,579                    18.680

3)BRISTOL-MYERS SQUIBB                                        4.499                    16.397

4)NOVARTIS                                                                 10.357                    11.889   

5)PFIZER                                                                        3.392                      9.723

6)JOHNSON & JOHNSON                                           4.068                     11.918

7)ASTRAZENACA                                                          2.825                      8.807 

8)ABBVIE                                                                        1.485                      8.406

9)ELI LILLY                                                                      2.869                     5.806

10)MERK & CO                                                                  920                     6.195

Gli studi indipendenti finanziati in Italia Fonte Alfa

189 studi dal 2005 al 2008                               91,1 mil. di €

20 studi  dal 2009 al 2016                                12     "      ""

                                                               

DANIELA MINERVA – La Repubblica

CHICAGO. Parliamo di cancro. Con un successo della ricerca italiana che si celebra nel tempio della scienza oncologica mondiale: il meeting dell’Asco, l’American Society of Clinical Oncology aperto a Chicago. Dove 30 mila scienziati di tutto il mondo ascolteranno i risultati di ben quattro studi indipendenti, tutti italiani. Si tratta di ricerche fatte nel nostro interesse, e non in quello dell’industria. E questi 4 studi, portati avanti da quasi un centinaio di gruppi italiani, hanno indagato se sia davvero necessario trattare le donne operate al seno con un lungo e costoso regime che combina la chemioterapia e un moderno anticorpo monoclonale per un anno, o se non bastino 9 settimane. Così come se sia davvero meglio aggiungere il tossico platino a un altro chemioterapico ai malati anziani di tumore del polmone. Ancora: perché prolungare le cure per sei mesi a persone operate al colon se ne bastano tre?
Non è indifferente quello che diranno Roberto La Bianca, Spedali Riuniti di Bergamo, e Alberto Sobrero, del San Martino di Genova, che, insieme a colleghi in tutto il paese, hanno misurato diversi schemi terapeutici somministrati agli oltre 30.000 italiani operati ogni anno per tumore del colon-retto, e scoperto che si potrebbero dimezzare i tempi della chemioterapia. «Studi che l’industria non fa - commenta La Bianca – per i quali serve un ruolo guida dell’Aifa». Che in passato l’agenzia ha avuto. Tra il 2005 e il 2008 l’allora direttore, Nello Martini, finanziò oltre 90 milioni di ricerche per definire l’appropriatezza dei farmaci: i lavori che si presentano oggi a Chicago furono finanziati nel 2007. Erano anni in cui tutta l’azione governativa era diretta a contenere Big Pharma e Martini lo fece. Quando fu cacciato con pretesti giudiziari per i quali è stato assolto. Tra le conseguenze del cambio di passo c’è stato lo stop agli studi indipendenti. Che però oggi ripartono, il nuovo direttore Mario Melazzini ha già messo sul piatto 12 milioni e, spiega «queste ricerche ci servono per scegliere e decidere cosa accettare a carico del Ssn e cosa rigettare come inutile o troppo tossico. Voglio comprimere le pretese delle aziende».

Non solo. Pier Franco Conte, direttore dell’Oncologia medica di Padova, ha messo insieme 82 ospedali italiani per vedere se la terapia standard che prevede la somministrazione - per le donne operate per un tumore del seno - di un costoso anticorpo monoclonale per un anno è la migliore, o se non sarebbe meglio una terapia di sole 9 settimane. Suddetto anticorpo ci costa circa 200 milioni di euro l’anno, ma è un salvavita. Ma, chiosa Conte: «il nostro lavoro vuole vedere se sono tutti soldi spesi bene».
Ci sono in ballo oltre 4 miliardi di euro. Tanto spendiamo ogni anno per i farmaci oncologici. Sono tutti spesi bene? «La maggior parte dei nuovi farmaci è efficace su porzioni piccolissime di pazienti», spiega Conte. E negli studi sponsorizzati dalle industrie entrano solo malati nelle condizioni cliniche che rispondono ai parametri già scritti per selezionare quelli su cui il farmaco funzionerà. La stragrande maggioranza delle persone reali resta fuori. Quando leggiamo che un farmaco, come quello recente per il polmone, aiuta il 30-40% di malati siamo felici. Ma nella vita reale questo vantaggio scende all’8% circa. Va bene lo stesso, perché saranno malati che stanno meglio. Ma dobbiamo saperlo». E a questo servono gli studi indipendenti. Anche per sapere chi davvero potrà beneficiare dei farmaci e così, conclude Conte: « Il problema dei costi non ci sarebbe».

Com'è aumentatala spesa per i farmaci oncologici in ITAL

miliardi di euro l'anno

2009     2010     2011   2012   2013   2014    2015   2016 

  2,1       2,4         3,1     3,3       3,5      3,9       4,2      4,5

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26 aprile 2017 3 26 /04 /aprile /2017 09:07

Il compagno del poliziotto ucciso sfida i terroristi e fornisce una indicazione civile per le nazioni e per tutti noi  con due sole parole: ti amo

Il discorso del compagno dell'agente Xavier Jugelé, ucciso durante l'attacco sugli Champs Élysées, è di alto profilo etico: non è entrando nel circolo vizioso dell'odio e della violenza che si può combattere e contrastare l'intolleranza, l'integralismo e la barbarie

I comportamenti,  il modo di vivere nella quotidianità di due persone normali sconfiggeranno i populisti e le paure diffuse a piene mani dalla  cultura del guardarsi indietro. Queste persone dimostrano che si può impostare la  vita  di ogni giorno nel vero piacere e nella felicità anche in occasioni tragiche e nei giorni di buio (ndr.)

"Non avrete il mio odio" ha detto Etienne Cardiles ricordando Xavier Jugelé, l'agente trucidato a Parigi lo scorso 20 maggio durante un attacco terroristico di matrice islamista. Utilizzando le stesse parole che Antoine Leiris aveva usato nei confronti degli assassini della moglie subito dopo gli attentati del 13 novembre 2015, Etienne rende così omaggio al proprio compagno, con semplicità, rigore e dignità. Xavier era l'amore della sua vita e si batteva per la giustizia e la sicurezza di tutti e di tutte. Xavier non avrebbe tollerato che il proprio sacrificio si trasformasse in una sconfitta della tolleranza e della civiltà. Come si fa d'altronde a odiare, anche se si è completamente distrutti dal dolore e si sperimenta il vuoto assoluto della perdita, quando è con l'altra persona che si è imparato l'amore? "Quest'odio non ti somiglia, resterai nel mio cuore per sempre. Ti amo", ha continuato Etienne salutando il compagno. A tratti commosso. A tratti teso. A tratti contratto. Coerente fino in fondo con gli ideali per i quali Xavier non aveva mai smesso di battersi impegnandosi in prima persona non solo per la difesa della democrazia e dei valori della République, ma anche per i diritti delle persone omosessuali.

Il messaggio che ci giunge ancora una volta dalla Francia è di alto profilo etico: non è entrando nel circolo vizioso dell'odio e della violenza che si può combattere e contrastare l'intolleranza, l'integralismo e la barbarie che si stanno riversando in questi ultimi anni in Occidente. Al contrario. È solo mostrandosi capaci di amore fino in fondo, anche quando si è circondati dalle tenebre, che si può poi dare un messaggio di speranza ai più giovani e trasformarsi in scudo della democrazia. Per non dire poi dell'evidente normalità con cui un gay parla del proprio compagno, senza esibizionismo e senza paura, mostrando come l'amore non solo non abbia limiti, ma non sia nemmeno legato al sesso o al genere come ancora talvolta si pensa o si sospetta in Italia.

In un momento delicato della vita politica francese, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali che vedono al secondo turno la candidata del Front National, il messaggio d'amore di Etienne ci ricorda non solo quanto tutti noi dobbiamo alle forze dell'ordine - solo in Francia, nel 2016, sono stati otto i poliziotti e quattordici i gendarmi assassinati in attacchi terroristici - ma anche quanto è importante non perdere mai di vista i valori fondanti delle nostre democrazie occidentali. Ci si deve 
difendere contro la barbarie, ma non per questo ci si può dimenticare che chiunque, come spiegava Hannah Arendt, può "banalmente" commettere il male quando immagina che l'unico modo per contrastare l'intolleranza sia quello di diventare a propria volta intolleranti.

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25 aprile 2017 2 25 /04 /aprile /2017 17:03

Il compagno del poliziotto gay ucciso a Parigi

http://www.corriere.it/esteri/17_aprile_21/compagno-l-impegno-diritti-gay-l-incubo-bataclan-chi-era-xavier-poliziotto-ucciso-parigi-ccd936e0-2697-11e7-b6b1-a150ed5c16fd.shtml

http://video.corriere.it/ricordo-compagno-poliziotto-ucciso-parigi-questo-odio-non-ti-appartiene/e0356e74-29a9-11e7-9909-587fe96421f8

Etiene Cardiles 

Questo odio non lo provo perché non ti appartiene, perchè non corrisponde a nulla di ciò che faceva battere il tuo cuore che ti aveva reso agente e guardiano della pace. Perchè l'interesse generale, il servizio verso gli altri e la protezione di tutti facevano parte della tua educazione e convinzione,La comprensione, il dialogo e la tolleranza sono le armi migliori.

Il compagno del poliziotto ucciso:
«Sarai nel mio cuore per sempre»

Etienne Cardiles, per quattro anni compagno di Xavier Jugelé, il poliziotto ucciso a Parigi lo ricorda: «Dovevamo andare in vacanza, ora soffro senza odio perché l’odio non ti apparteneva, resterai nel mio cuore per sempre. Ti amo»

Elisabetta Rosaspina

«Quando si è sparsa la voce che qualcosa grave stava accadendo sui Champs Élysées e che un poliziotto era stato ucciso, una piccola voce dentro di me mi ha detto che eri tu, Xavier. E mi sono subito venute in mente quelle parole: non avrete il mio odio»: nel silenzio del cortile della Prefettura di Polizia, davanti alla bara dell’agente caduto nell’ultimo attacco terroristico che ha colpito la Francia, il suo compagno cita la memorabile lettera aperta ai terroristi scritta da Antoine Leiris, marito di Héléne Muyal, una delle 90 vittime della strage al Bataclan, il 13 novembre del 2015. «È stata una lezione di vita che mi ha fatto crescere e che oggi mi protegge», ha detto, riconoscente a Leiris, che ha incontrato e abbracciato.

«Dovevamo andare in vacanza»

Da questa mattina per la Francia, grazie a Etienne Cardiles, che ha condiviso gli ultimi quattro anni di vita di Xavier Jugelé, il poliziotto assassinato giovedì 20 aprile, a poche decine di metri dall’Arco di Trionfo, non è più soltanto il volto pulito di un ragazzo in divisa, falciato in servizio dai colpi di un fanatico, a 72 ore dalle elezioni presidenziali. Per la prima volta, a una cerimonia di omaggio nazionale, ha preso la parola – prima del presidente della Repubblica – il congiunto di una vittima. E lo ha fatto per restituirne al Paese l’immagine più intima e personale. Partendo dagli ultimi momenti passati con lui: «Xavier, giovedì mattina quando sono uscito per andare come ogni giorno al lavoro, tu dormivi ancora – Etienne Cardiles ha esordito nel cortile dell’onore della Prefettura di polizia dove le massime autorità dello Stato, della capitale e delle forze armate erano schierate stamattina per l’estremo saluto al giovane capitano, promosso a titolo postumo -. Durante la giornata ci siamo scambiati innumerevoli messaggi sulla nostra prossima vacanza in un Paese lontano, che sognavi da tempo. Avevamo comprato i biglietti martedì».

«Soffro senza odio»

Etienne sapeva quale compito aspettasse il compagno quella sera, al 102 dell’avenue più famosa del Paese, a guardia dell’Istituto culturale turco, davanti al quale era prevista una manifestazione: «Hai preso servizio alle 14 in quella divisa di cui ti prendevi tanta cura. Quel tipo di missione, lo so, ti piaceva, perché era sugli Champs Élysées, l’immagine della Francia, e perché era la cultura che dovevi proteggere. In quell’istante e in quel luogo, il peggio è arrivato per te e per i tuoi colleghi. Uno di quegli eventi che tutti temiamo e speriamo che non accadano mai. Te ne sei andato sul colpo, e di questo ringrazio la tua buona stella. Sono rientrato a casa la sera senza di te, con un dolore estremo che forse, spero, si placherà un giorno». Un dolore lacerante, ma esente dall’odio: «Per quel che mi concerne, soffro senza odio, perché l’odio non ti apparteneva, non corrisponde a quello che faceva battere il tuo cuore e che aveva fatto di te un gendarme e un guardiano della pace».

    «Resterai sempre nel mio cuore»

    Non si è dimenticato del lavoro e della sofferenza dei colleghi di Xavier: «Ancora prima di conoscerti, ammiravo già questa vocazione di proteggere e garantire i diritti di tutti i cittadini» ha aggiunto Etienne Cardiles, prima di raccontare con semplicità chi era, nel suo tempo libero, il poliziotto disteso nella bara davanti a lui, il suo amore per la musica, per la cultura, il cinema: «Cinque film di fila in un pomeriggio di sole, non ti facevano paura – ha ricordato il compagno di Xavier -. Resterai nel mio cuore per sempre. Ti amo. Restiamo degni e vegliamo sulla pace, conserviamo la pace», ha concluso nel silenzio totale del cortile della Prefettura e dei poliziotti in borghese, radunati all’esterno, davanti allo schermo gigante su cui si proiettavano le immagini della cerimonia.

     

     

    “Vous n’aurez pas ma haine”

    Vendredi soir vous avez volé la vie d’un être d’exception, l’amour de ma vie, la mère de mon fils mais vous n’aurez pas ma haine. Je ne sais pas qui vous êtes et je ne veux pas le savoir, vous êtes des âmes mortes. Si ce Dieu pour lequel vous tuez aveuglément nous a fait à son image, chaque balle dans le corps de ma femme aura été une blessure dans son coeur.

    Alors non je ne vous ferai pas ce cadeau de vous haïr. Vous l’avez bien cherché pourtant mais répondre à la haine par la colère ce serait céder à la même ignorance qui a fait de vous ce que vous êtes. Vous voulez que j’ai peur, que je regarde mes concitoyens avec un oeil méfiant, que je sacrifie ma liberté pour la sécurité. Perdu. Même joueur joue encore.

    Je l’ai vue ce matin. Enfin, après des nuits et des jours d’attente. Elle était aussi belle que lorsqu’elle est partie ce vendredi soir, aussi belle que lorsque j’en suis tombé éperdument amoureux il y a plus de 12 ans. Bien sûr je suis dévasté par le chagrin, je vous concède cette petite victoire, mais elle sera de courte durée. Je sais qu’elle nous accompagnera chaque jour et que nous nous retrouverons dans ce paradis des âmes libres auquel vous n’aurez jamais accès.

    Nous sommes deux, mon fils et moi, mais nous sommes plus fort que toutes les armées du monde. Je n’ai d’ailleurs pas plus de temps à vous consacrer, je dois rejoindre Melvil qui se réveille de sa sieste. Il a 17 mois à peine, il va manger son goûter comme tous les jours, puis nous allons jouer comme tous les jours et toute sa vie ce petit garçon vous fera l’affront d’être heureux et libre. Car non, vous n’aurez pas sa haine non plus.

     


     
    “Non avrete il mio odio”

    Venerdì sera avete rubato la vita di un essere eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio ma non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio saperlo, siete delle anime morte. Se questo Dio per il quale voi uccidete ciecamente ci ha fatto a sua immagine, ogni proiettile nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore.

    Allora io non vi farò questo regalo di odiarvi. Voi l’avete cercato ma tuttavia rispondere all’odio con la rabbia vorrebbe dire cedere nella stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Volete che io abbia paura, che guardi i miei concittadini con occhi diffidenti, che sacrifichi la mia libertà per la sicurezza. Perso. Stesso giocatore gioca ancora.

    L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era così bella, come quando è uscita questo venerdì sera, così bella come quando me ne innamorai perdutamente più di 12 anni. Certamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma vi assicuro che sarà di breve durata. So che lei ci accompagnerà ogni giorno e che noi ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere a cui voi non avrete mai accesso.

    Siamo in due, io e mio figlio, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo raggiungere Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha 17 mesi appena, mangerà la sua pappa come tutti i giorni, poi giocheremo come tutti i giorni e per tutta la sua vita questo piccolo ragazzo vi farà l’affronto di essere felice e libero. Perché no, non avrete neanche il suo odio.
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    22 aprile 2017 6 22 /04 /aprile /2017 18:36

     

    Elena Cattaneo – La Repubblica

    La scienza fornisce la conoscenza di ciò che ha studiato e non di ciò che non ha studiato. Ricordo che Tiziano Terzani per l’operazione del cancro si è recato al centro di New York più specializzato in queste applicazioni pur praticando le cure alternative. In Italia, di formazione  letteraria, filosofica, della rettorica c’è bisogno di scienza.  Poi succede come in fisica che le nuove ricerche possono modificare le vecchie conoscenze ponendo delle basi teoriche serie. (ndr.)

     la Repubblica

    E' stata una settimana difficile per la scienza, in cui si sono confusi i fatti con le opinioni. Prima un programma del servizio pubblico ha alimentato la disinformazione sui vaccini, poi la sentenza di un tribunale che stabilirebbe un nesso di causalità tra cancro e uso del cellulare, con buona pace dell’Organizzazione mondiale della sanità che dal 2011 classifica questi campi elettromagnetici nella categoria 2B, cioè dei “possibili cancerogeni” insieme ad esempio alla caffeina e agli estratti dell’aloe vera e del ginkgo biloba, quella in cui le prove sono limitate, sia nell’uomo sia negli animali. L’Oms nel dettare alcune raccomandazioni sull’uso del cellulare, osserva che «al momento nessuno studio suggerisce una prova consistente di eventi avversi per la salute dall’esposizione » alle onde dei telefonini. In attesa di leggere le motivazioni del giudice del tribunale di Ivrea, si resta colpiti di fronte a una giurisdizione che ancora una volta, così come accaduto da ultimo per i vaccini, Stamina e Xylella, ritiene di poter risolvere questioni di estrema complessità con il “libero convincimento” del magistrato a valle di “consulenze tecniche” che propongono esiti difformi dall’orientamento scientifico prevalente, che per sua natura non può essere “innovato” in un’aula di tribunale. Evidentemente questi magistrati, seppur ispirati da intenti compassionevoli, nel decidere arbitrariamente un problema ritenuto come scientificamente controverso, finiscono con l’alimentare paure o false speranze, ad esclusivo beneficio di coloro — generalmente pochi e “specializzati” — che su questi sentimenti speculano per professione. Vi sono ipotesi di interventi normativi per aiutare i giudici a decidere sulla base della migliore scienza. Alcuni li abbiamo individuati in Senato nella relazione finale sull’indagine conoscitiva sulla vicenda Stamina.

    Non ci sarà, però, nessuna riforma di legge efficace senza una complessiva rivalutazione politica e sociale di quel che la scienza, la ricerca, la cultura (tutta) significano per il futuro del Paese. A quel che comporta, ad esempio, l’essere l’ultimo paese d’Europa per percentuale di laureati sulla popolazione e ben al di sotto della media europea per lavoratori occupati in ricerca e sviluppo.

    Sarebbe opportuno che le istituzioni chiarissero quanta volontà vi sia nel riconoscere la ricerca e l’istruzione come i contesti principali nei quali investire strutturalmente perché si sviluppino tra i cittadini competenze in grado di creare un capitale cognitivo, che sia un valore aggiunto a beneficio di tutti. Anche nelle condizioni di “ristrettezza economica” che stiamo attraversando. Oggi si potrebbe dimostrare questa volontà ad esempio restituendo — perché di questo si tratterebbe — alla ricerca pubblica italiana, mettendoli a bando, quei 430 milioni di euro di risorse pubbliche accantonati a mo’ di tesoretto dall’Istituto italiano di Tecnologia, fondazione di diritto privato, che nel corso degli ultimi 14 anni si è vista corrispondere dallo Stato circa 1,7 miliardi di euro.

    Che la ricerca possa essere un investimento attrattivo di risorse, lo ha ricordato da ultimo il Presidente del Cnr, il più grande ente di ricerca italiano con 8.400 dipendenti che, pur con i suoi limiti, può rivendicare per ogni euro ricevuto dallo Stato, 0,6 euro intercettati su base competitiva. Lo ricorda l’Università di Padova, con i suoi 27 vincitori dei prestigiosi bandi Erc, soldi europei che entrano in Italia. Restituire oggi mezzo miliardo alla ricerca in tutti gli ambiti del sapere sarebbe il segnale “forte e chiaro” atteso e appropriato a una classe dirigente che voglia essere riconosciuta come espressione di un Paese che “crede nella scienza e non negli apprendisti stregoni”. Sarebbe il più cospicuo investimento per la ricerca di base degli ultimi decenni, da accompagnare con una serie di riforme utili a rendere più trasparente e competitiva un’assegnazione di fondi che sconta la colpevole mancanza di una agenzia della ricerca.

    Anche in Italia oggi si scenderà in piazza per la Marcia della Scienza, manifestazione lanciata negli Usa oscurantisti di Trump contro la censura, gli abusi politici e i tagli agli investimenti nella ricerca. Si svolgerà in contemporanea in più di 500 città in tutto il mondo. Pensare di scendere in piazza per il diritto a una scienza libera da condizionamenti è sembrato a lungo irragionevole. Quasi che chi ama e vive di scienza ritenesse dovuto una sorta di ossequio sociale che lo sollevasse dall’onere del confronto pubblico, tanto evidenti sono i benefici in termini di salute e benessere che essa ha prodotto. Questa posizione è sbagliata. Per essere riconosciuti per quel che si fa, gli studiosi devono rendere conto ai cittadini, devono assumere una responsabilità pubblica, aiutare nella costruzione della democrazia fuori dai loro laboratori e mostrare come si lavora e cosa si produce, inclusi tutti i fallimenti che si incontrano prima di ogni successo.

    L’autrice è docente all’Università di Milano e senatrice a vita

     

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    15 aprile 2017 6 15 /04 /aprile /2017 16:27

    Nuovo modello per le assunzioni

    Nel loro intervento pubblicato l’11 aprile sul nuovo sistema di assunzione e formazione iniziale degli insegnanti della scuola secondaria, Daniele Checchi e Maria De Paola hanno espresso un giudizio sostanzialmente positivo, accanto al quale non manca comunque la critica ad alcuni specifici aspetti che possono rappresentarne punti di debolezza e quindi infirmare la positività dei risultati.
    Prima di dimostrare l’infondatezza delle critiche, ricordo che la riforma rappresenta un vero cambio di paradigma. Ormai da decenni si diventava insegnanti – con modalità cambiate più volte – tramite esperienze dirette sul campo (insegnamenti per supplenza) ed esperienze formative presso le università (Ssis, Tfa, corsi abilitanti, Pas); conseguita l’abilitazione, c’era poi da superare uno dei rari ed erratici concorsi per l’assunzione in ruolo, oppure attendere l’assunzione diretta dalle graduatorie in lento scorrimento. Un sistema che ha causato lunghi e defatiganti precariati, la caccia ai punteggi più che alle competenze, la disaffezione delle persone più brillanti, senza dimenticare gli effetti della presenza nelle scuole di insegnanti ancora non ben formati e i costi economici a carico degli aspiranti docenti.
    Il nuovo modello inverte l’ordine: prima un concorso per merito, a cadenza biennale, che selezionerà coloro che hanno la migliore preparazione disciplinare e un buon orientamento metodologico e psico-pedagogico; poi un percorso triennale, retribuito, di formazione alle competenze professionali e tirocinio (Fit) riservato ai vincitori del concorso e cogestito da università e scuole. Chi supererà positivamente il percorso Fit sarà assunto a tempo indeterminato come docente.

    Nessun nuovo precariato

    Una preoccupazione di Checchi e De Paola è che il concorso possa generare un numero di vincitori eccedente il fabbisogno reale di docenti. È forse sfuggito loro che non sarà messo a concorso alcun posto di insegnante che non corrisponda a un posto che si renderà vacante e disponibile al termine del periodo di formazione dei vincitori del concorso e che non ci saranno altri vincitori oltre quelli in numero pari ai posti messi a concorso. Non si alimenterà, quindi, nuovo precariato e, soprattutto, non ci saranno gli abilitati senza cattedra, che hanno rappresentato, incolpevoli, una sorta di incubatore di frustrazione e di precariato.
    Molta dell’efficacia del sistema dipenderà dal rigore del lavoro valutativo delle commissioni, chiamate a giudicare soprattutto competenze professionali maturate nel triennio dai vincitori di concorso. Le commissioni saranno costituite da personale della scuola e del mondo accademico, per superare l’ingiustificata separazione di funzioni che ha contraddistinto fino ad ora la formazione iniziale e il reclutamento dei docenti: all’università la formazione e alla scuola la selezione, senza una solida condivisione degli obiettivi formativi e professionali da raggiungere. A questa nuova collaborazione strutturata e paritetica tra scuola e università spetterà anche la responsabilità di intercettare, per tempo, coloro i quali non dimostrassero attitudini e competenze adeguate alla funzione docente.
    Come ogni riforma profonda (oltre a principi corretti la riforma per essere tale sarà efficace se la gestione sarà positiva. Come tutte le cose ndr.)  anche questa dovrà affrontare una fase transitoria che terrà conto della varietà dei docenti precari, generati dalla stratificazione di scelte pregresse e disorganiche. Il decreto legislativo tiene dunque conto di coloro che sono inseriti nelle graduatorie poste a esaurimento nel 2007, dei vincitori e idonei del concorso 2016, nonché dei già abilitati all’insegnamento e di coloro che, pur non essendo abilitati, insegnano da anni. In alcune regioni e discipline queste categorie sono già esaurite o in esaurimento (tanto che sono chiamati a insegnare anche neolaureati), in altre contengono ancora migliaia di persone. Per loro non sono previste sanatorie, bensì uno specifico percorso valutativo e formativo, differenziato in base alle esperienze già maturate e ai diversi titoli conseguiti, che consentirà nel tempo, a chi lo supererà, di essere assunto in ruolo su quote riservate di posti. Tutte le assunzioni saranno effettuate esclusivamente sulle disponibilità dell’organico attuale, frutto del turn-over o della trasformazione di posti dell’organico di fatto (insegnamenti ora coperti da precari) in organico di diritto. Non avverrà dunque alcuna “infornata”. Allo stesso tempo, per non privarsi dell’apporto dei laureati più giovani e motivati, ogni concorso, sin dal primo del 2018, riserverà loro una quota di posti, che crescerà progressivamente nel tempo, via via che la fase transitoria si andrà esaurendo nelle varie regioni e classi di concorso.
    Merito, formazione, ricerca educativa integrata alla quotidianità della scuola, valutazione e programmazione sono i principi direttivi della riforma che è, innegabilmente, organica: ad essi sono parimenti ispirati il nuovo regime ordinario e quello transitorio, con l’obiettivo di assicurare buoni docenti per una buona scuola.

    Manuela Ghizzoni, Parlamentare Pd e ricercatrice universitaria

     

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    30 marzo 2017 4 30 /03 /marzo /2017 15:59

    Gustavo Zagrebelsky – La Repubblica

    LE PAROLE possono essere tante cose: parole di verità o di menzogna; parole che accendono o che spengono; di assoluzione e di condanna; parole che vivificano o che uccidono; che aprono o che chiudono; lievi come carezze o pesanti come pietre. Mai come in questo tempo l’umanità ha parlato: chiacchiere, giornali, radio e televisione, cellulari, web. La parola è il mezzo non unico ma certamente principale della comunicazione. Che cosa dobbiamo intendere per comunicazione? Non voglio fare dell’etimologia, se non per sottolineare che essa ha significato il passaggio da uno a un altro non di parole, ma di cose, per farle diventare “comuni”. Comunicazione significa fare comunanza di oggetti, proprietà, pensieri, informazioni, esperienze, sentimenti, conoscenze del più vario genere.

    Con le parole non solo si comunica, ma anche ci si scomunica; non solo si passano verità, ma anche inganni; non solo ci si gratifica l’uno con l’altro, ma ci si denigra anche. Munifico è colui che è prodigo di doni, doni che possono essere buoni e cattivi, come i doni avvelenati. Ma il munus che sta nella comunicazione è anche compito, responsabilità. La società è un insieme di munera reciproci. A tutto questo servono le parole, quando non sono vuote parole. Teniamo dunque ben fermo questo concetto: le parole della comunicazione sono parole di reciprocità, reciprocità di doni e di responsabilità.

    Ogni società in ogni sua epoca ha le sue parole-chiave. Nella Grecia classica era paidéia, l’educazione dell’uomo bello e buono a cui si collegavano il coraggio, l’abilità ginnica, la formazione filosofica e musicale, ecc. Nella Roma repubblicana la parola era, per l’appunto, res publica, cosa di tutti sostenuta dal consenso di tutti e finalizzata al bene di tutti. Nella Roma imperiale, era invece la pietas secondo l’ideale che Virgilio associò alla virtù del “pio Enea” per alludere, adulandolo, a Ottaviano Augusto. Nel Medio Evo, la vita si svolgeva intorno alla salus animarum, alla caccia agli eretici e alla crociata contro gli infedeli. Nella società feudale, le parole erano fedeltà e onore: fedeltà nei confronti del principe cui si doveva riconoscenza per i benefici ricevuti e onore nei confronti del ceto cui si apparteneva. Il Rinascimento scoprì la humanitas.

    Gli uomini delle rivoluzioni promosse dai lumi della ragione, alla fine del ’700, scaldavano i propri cuori quando nominavano la umanità, con i suoi diritti imprescrittibili. L’epoca dei “risorgimenti” dell’Ottocento (tra cui il nostro Risorgimento) si è nutrita a sazietà della parola Nazione e della sua potenza. Poi, a missione compiuta, furono il progresso e la modernità, le parole mitiche su cui tutte le altre si orientavano, come aghi magnetici attratti da quest’unico polo.

    Veniamo alle parole che usiamo oggi. Si può dire che siano “comunicative”? Se teniamo presente quanto detto sopra circa la doppia valenza della comunicazione: il dono scambievole e la responsabilità reciproca, altrettanto certamente dobbiamo riconoscere che le nostre parole non sono “comunicative”. Al contrario: sono dissociative. Sono parole circondate da un ideologico alone positivo. Chi direbbe male di innovazione, riforme, sviluppo, crescita, competitività, eccellenza, meritocrazia, successo, e, sopra ogni cosa, business? Ma, ognuna di queste parole ha il suo contrario che condanna all’emarginazione, all’irrilevanza, al rifiuto, all’umiliazione, all’oblio. Per non soccombere tu, deve soccombere qualcun altro. È la legge della concorrenza elevata alla massima potenza. Si vince o si perde la partita della vita rispetto a che cosa? Nelle società competitive si vince o si perde per desiderio di ricchezza, di potere e di fama: tre beni distinti ma collegati che, anzi, si alimentano l’uno con l’altro come una trinità. La ricchezza, il potere e la fama non sono affatto mali in sé. Ma essi si danno spinte reciproche e contribuiscono, ciascuno per la sua parte, alla smodatezza, all’eccesso, alla sregolatezza. Sulla ricchezza e sul potere così tante teorie, dottrine, ideologie politiche sono state prodotte che non se ne può nemmeno fare cenno. La fama, invece, è rimasta piuttosto in ombra… La si relega tra le innocenti, magari ridicole, aspirazioni degli animi vanesi. Eppure, anch’essa è oggetto d’impetuosi desideri e pulsioni e, come la proprietà e il potere, modella potentemente le relazioni sociali. Essa, infatti, distribuisce biasimo e lode, alza e abbassa nella considerazione sociale. Vale per la fama la stessa cosa che vale per la ricchezza e per il potere: appropriazione dalla parte degli uni comporta privazioni dalla parte degli altri. Il veleno non sono in sé i beni materiali, il potere e la fama. Il veleno è l’ingordigia. L’ingordigia è mossa dalla legge dell’auto-accrescimento progressivo. Non può arrestarsi da sé perché contraddirebbe la sua natura. Più si ha, più si arraffa. Denaro, potere e fama sono forze travolgenti che crescono crescendo e, alla fine, non lasciano scampo. All’inizio, si opera per possederli. Alla fine, se ne è posseduti.
    Eppure, di una parola da fuori, di una parola eccentrica, c’è bisogno; c’è straordinariamente bisogno nel tempo in cui il darsi da fare stando dentro accresce il disagio. Quella che non c’è non è la parola che mette ogni cosa a posto, rincuorante e incoraggiante; la parola pacificatrice e illuminante; la parola sulla quale si possano raccogliere le forze con unità d’intenti; la parola che sia segno d’orientamento per uscire dal labirinto in cui ci troviamo che, eufemisticamente, possiamo chiamare il malessere della nostra civiltà. Il silenzio. Nel tempo del frastuono, le energie interiori necessarie contro imbonitori e inquisitori le troviamo facendo silenzio. Solo in silenzio possiamo pensare noi stessi per noi stessi, condizione per poterci poi pensare consapevolmente in relazione agli altri. Il conosci te stesso che campeggiava sul frontone del tempio di Apollo è la formula pregnante della scomposizione-ricomposizione del sé. È il leopardiano «infinito silenzio», dove dolce è «il naufragar». Tutto questo, al di là delle fumisterie filosofiche e degli incantamenti mistici, può esistere. Basta saperlo cogliere.
    La solitudine. Solitudine e silenzio si richiamano reciprocamente. L’isolarsi, anche stando in mezzo alla compagnia di altri, è un’esperienza che tutti abbiamo fatto, quando siamo presi da un pensiero. Sembra talora indifferenza o aristocratica sufficienza, onde il richiamo “democratico”: ritorna tra noi. La solitudine è una ricerca d’equilibrio tra questi due opposti richiami, ugualmente vitali: essere tra sé e sé ed “essere tra noi”. Essere solo tra noi, significa perdere se stessi; essere solo se stessi è paranoia, presunzione e narcisismo, i disturbi della psiche che Dostoevskij, più di centocinquanta anni fa, ha descritto ne Il sosia: un racconto che, se letto, con gli occhi dei frequentatori odierni dei social network, ha il carattere della profezia. Anche per la solitudine, si deve ripetere ciò che s’è detto per il silenzio. Non è l’obiettivo finale. Se tale fosse, sarebbe desolazione mortifera. È il punto iniziale da cui può scaturire una vita sociale feconda.
    Il buio. Se è condizione d’arrivo, il buio evoca l’idea del vuoto, della sventura, delle tenebre. Ma, la luce riluce soltanto a partire dal buio. Lux lucet in tenebris. Se dunque la luce è bene, lo è anche allo stesso modo il buio che rende possibile la luce. Che si possa vedere solo nel rapporto tra luce e non luce, tra luce e ombre, lo dice splendidamente il mito platonico della caverna. Che sia qui la parola che non c’è ma che cerchiamo, nel silenzio, nella solitudine e nell’ombra delle promesse di libertà? Che si nasconda qui la parola con la quale possiamo vedere i guasti del mondo, resistere alle parole di Babele, aprirci alle incognite della libertà, cercare uscite d’emergenza? Che la parola che racchiude un tale programma di affrancamento possa essere “armonia”? L’armonia è la giusta collocazione reciproca tra parti diverse. In che cosa consista questa giustezza non sapremmo dire facilmente in positivo. Certamente, però, sappiamo che non ha nulla a che fare con la babele che dovremmo avere davanti agli occhi.

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    17 marzo 2017 5 17 /03 /marzo /2017 13:31

    Il filosofo tedesco intervistato sul nuovo "MicroMega" invita la sinistra europea a ripartire riscoprendo le battaglie delle origini

    Jürgen Habermas Dopo il 1989 si è parlato di una "fine della storia" nella democrazia e nell'economia di mercato, oggi assistiamo a un nuovo fenomeno: l'emergere - da Putin ed Erdogan fino a Donald Trump - di forme di leadership populiste e autoritarie. È ormai evidente che una nuova "internazionale autoritaria" riesce a determinare sempre di più il discorso pubblico. Aveva ragione allora il suo coetaneo Ralf Dahrendorf quando prevedeva un XXI secolo sotto il segno dell'autoritarismo? Si può o si deve già parlare di una svolta dei tempi? "Quando, dopo la svolta dell'89-90, Fukuyama riprese lo slogan della "po - Dst-storia" - che originariamente era legato a un feroce conservatorismo - questa sua reinterpretazione del concetto dava espressione al miope trionfalismo di élite occidentali che si affidavano alla fede liberale nell'armonia prestabilita tra democrazia ed economia di mercato. Questi due elementi plasmano la dinamica della modernizzazione sociale, ma sono connessi a imperativi funzionali che tendono continuamente a entrare in conflitto. Solo grazie a uno Stato democratico degno di questo nome è stato possibile conseguire un equilibrio tra crescita capitalistica e partecipazione della popolazione alla crescita media di economie altamente produttive: una partecipazione, questa, che veniva accettata, anche se solo in parte, in quanto socialmente equa. Storicamente, tuttavia, questo bilanciamento, che solo può giustificare il nome di "democrazia capitalistica", è stato più l'eccezione che la regola. Già solo per questo si capisce come l'idea che il "sogno americano" si potesse consolidare su scala globale non fosse che un'illusione. Oggi destano preoccupazione il nuovo disordine mondiale e l'impotenza degli Stati Uniti e dell'Europa di fronte ai crescenti conflitti internazionali, e logorano i nostri nervi la catastrofe umanitaria in Siria o nel Sudan del Sud e gli atti terroristici di matrice islamista. E tuttavia, nella costellazione evocata nella domanda, non riesco a scorgere una tendenza unitaria diretta verso un nuovo autoritarismo: solo diverse cause strutturali e molte casualità. L'elemento unificante è il nazionalismo, che nel frattempo però abbiamo anche a casa nostra. Anche prima di Putin ed Erdogan, la Russia e la Turchia non erano certo "democrazie ineccepibili". Con una politica occidentale solo un po' più accorta forse avremmo potuto impostare relazioni diverse con questi paesi: saremmo forse riusciti a rafforzare anche le forze liberali presenti nelle popolazioni di questi paesi".

    Non si sopravvalutano così retrospettivamente le possibilità che erano in mano all'Occidente?
    "Chiaramente per l'Occidente, già solo a causa dei suoi interessi divergenti, non era facile confrontarsi, in modo razionale e nel momento opportuno, con le pretese geopolitiche della retrocessa superpotenza russa oppure con le aspettative di politica europea dell'irascibile governo turco. Molto diversa è invece la situazione per quanto riguarda l'egomane Trump, un caso significativo per l'intero Occidente. Con la sua disastrosa campagna elettorale Trump ha portato alle estreme conseguenze una polarizzazione che i repubblicani, a tavolino e in modo sempre più sfacciato, hanno alimentato fin dagli anni Novanta; lo ha fatto però in una forma tale da far sì che questo stesso movimento alla fine sfuggisse totalmente di mano al Grand Old Party, che è pur sempre il partito di Abraham Lincoln. Questa mobilitazione del risentimento ha espresso anche le tensioni sociali che attraversano una superpotenza politicamente ed economicamente in declino. Ciò che trovo inquietante, quindi, non è tanto il nuovo modello di un'internazionale autoritaria, a cui si faceva riferimento nella domanda, quanto la destabilizzazione politica in tutti i nostri paesi occidentali. Nel valutare il passo indietro degli Stati Uniti dal ruolo di gendarmi globali sempre pronti a intervenire, non dobbiamo perdere di vista qual è il contesto strutturale in cui ciò avviene, contesto che concerne anche l'Europa. La globalizzazione economica, messa in moto negli anni Settanta da Washington con la sua agenda politica neoliberista, ha avuto come conseguenza un declino relativo dell'Occidente su scala globale rispetto alla Cina e agli altri paesi Brics in ascesa. Le nostre società devono elaborare la percezione di questo declino globale e insieme a ciò la complessi- tà sempre più esplosiva della nostra vita quotidiana, connessa agli sviluppi tecnologici. Le reazioni nazionalistiche si rafforzano negli strati sociali che non traggono alcun beneficio - o non ne traggono abbastanza - dall'aumento del benessere medio delle nostre economie".

    Stiamo assistendo a una sorta di processo di irrazionalizzazione politica dell'Occidente? C'è una parte della sinistra che ormai si professa a favore di un populismo di sinistra come reazione al populismo di destra.
    "Prima di reagire in modo puramente tattico bisogna sciogliere un enigma: come è stato possibile giungere a una situazione nella quale il populismo di destra sottrae alla sinistra i suoi stessi temi?".

    Quale dovrebbe essere allora la risposta di sinistra alla sfida della destra?
    "Ci si deve chiedere perché i partiti di sinistra non vogliono porsi alla guida di una lotta decisa contro la disuguaglianza sociale, che faccia leva su forme di coordinamento internazionale capaci di addomesticare i mercati non regolati. A mio avviso, infatti, l'unica alternativa ragionevole tanto allo status quo del capitalismo finanziario selvaggio quanto al programma del recupero di una presunta sovranità dello Stato nazionale, che in realtà è già erosa da tempo, è una cooperazione sovranazionale capace di dare una forma politica socialmente accettabile alla globalizzazione economica. L'Unione europea una volta mirava a questo - l'Unione politica europea potrebbe ancora esserlo".

    Oggi tuttavia sembra essere persino peggio del populismo di destra in sé il "pericolo di contagio" del populismo nel sistema dei partiti tradizionali, in tutta Europa.
    "L'errore dei vecchi partiti consiste nel riconoscere il fronte che definisce il populismo di destra: ossia "Noi" contro il sistema. Solo una marginalizzazione tematica potrebbe togliere l'acqua al mulino del populismo di destra. Si dovrebbero quindi rendere di nuovo riconoscibili le opposizioni politiche, nonché la contrapposizione tra il cosmopolitismo di sinistra - "liberale" in senso culturale e politico - e il tanfo etnonazionalistico della critica di destra alla globalizzazione. In breve: la polarizzazione politica dovrebbe cristallizzarsi di nuovo tra i vecchi partiti attorno a opposizioni reali. I partiti che riservano attenzione al populismo di destra, piuttosto che disprezzarlo,
    non possono aspettarsi poi che sia la società civile a mettere al bando slogan e violenze di destra".

    Traduzione di Giorgio Fazio
    L'intervista è tratta da Blätter für deutsche und internationale Politik, le domande sono della redazione.

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    5 marzo 2017 7 05 /03 /marzo /2017 17:15

    A LONDRA sono tutti benvenuti, indipendentemente dalla propria religione, nazionalità o cultura. La storia ci insegna che i paesi, le società e le economie che sono aperte e guardano all'esterno sono non soltanto culturalmente più ricche, ma hanno migliori risultati economici. Nessuno potrebbe negare che il successo di Londra nel corso di centinaia di anni è conseguenza della sua apertura ai commerci e agli affari e del suo atteggiamento di benvenuto verso la gente che veniva qui a cercare una vita migliore.

    Mentre intolleranza e divisioni possono essere in aumento in alcune parti del mondo, l'unità non conosce confini. E io sono orgoglioso che a Londra accogliamo a braccia aperte immigrati da ogni angolo della terra, indifferentemente dal colore della pelle, del passaporto o delle bandiere nazionali. Il mondo è un luogo crescentemente turbolento e diviso. Dopo la Brexit, l'elezione del presidente Trump e la continua crescita del populismo, spesso sembra che le cose che ci dividono siano più di quelle che ci uniscono. Ma la realtà non potrebbe essere più lontana dalla verità.

    Per quelli di noi che credono nel senso di comunità, nell'internazionalismo, nella celebrazione delle diversità, la risposta a queste sfide deve essere un rinnovato impegno e la celebrazione dei valori che ci uniscono. Tocca a noi dimostrare che la migliore risposta al cambiamento economico è aprire le porte anziché isolarsi. Dimostrare che una comunità è più forte quando incoraggia la diversità. E dimostrare che il miglior modo di realizzare le nostre ambizioni è lavorare insieme, in solidarietà con tutte le persone di tutto il mondo dal cuore e dalla mente aperti.

    ( Il testo è parte del discorso pronunciato dal sindaco di Londra Sadiq Khan a Trafalgar Square domenica 26 febbraio)

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    17 gennaio 2017 2 17 /01 /gennaio /2017 11:13

    Décadence, la seconda parte della sua "Brève encyclopédie du monde", ripercorre la nascita, l'apogeo e la fine della civiltà giudaico-cristiana. Non è, scrive il filosofo Michel Onfray, né una soddisfazione, né una disgrazia, ma un dato di fatto. A quale data fa risalire l'inizio di questa decadenza? «Dal momento in cui nasce, un bambino è già abbastanza vecchio per morire. Il mio schema è vitalista, suppone che, così come un vulcano o delle placche tettoniche hanno vita propria, ci sia una vita delle civiltà. Questa vita può essere interrotta da un evento. Una civiltà, dico una verità lapalissiana, vive in quanto resiste a ciò che vuole la sua morte. Indebolita, un giorno non ce la fa più a resistere e muore. La nostra civiltà ha duemila anni, un'età onorevole per affrontare il trapasso ».

    Il cristianesimo si è molto indebolito in Europa, ma ci sono un miliardo di cristiani al mondo. Papa Francesco è più popolare che mai. Questa religione è in via di estinzione?

    «Bisogna precisare di quale cristianesimo si tratta! Sono lontani i tempi in cui la religione cattolica raccoglieva dei fedeli che credevano nell'Immacolata Concezione o nella transustanziazione. Il cattolicesimo post-Vaticano II ha laicizzato la fede cattolica dando al popolo dei fedeli una forza di verità quasi uguale a quella del pastore.

    Il sacro e la trascendenza spesso sono scomparsi a vantaggio di una morale da boy-scout come regola del gioco contrattuale. Benedetto XVI, che sosteneva un ritorno discreto a ciò che aveva contribuito a distruggere con il Vaticano II, si è trovato nella condizione di doversi dimettere. La sua sostituzione con un papa gesuita, talmente gesuita da prendere un nome francescano, ha anch'essa un senso. Il cattolicesimo trionfa mediaticamente perché il Papa sa usare i media, ma non perché raccoglie attorno a sé dei discepoli di un cattolicesimo esausto. La quantità mediatica e il numero dei fedeli non dicono nulla sulla qualità teologica delle credenze. Quando Papa Francesco dice: "Se un grande amico offende mia madre, si aspetti un pugno", non sono molto sicuro che Roma sia ancora a Roma».

    Da che cosa può essere sostituita la nostra civiltà?

    «Da ciò che si dimostrerà più forte di lei e contro cui non potrà combattere. La demografia ci dice che la Francia bianca e cattolica si avvia a scomparire. La cosa non mi indispone, non propongo nessuna politica reazionaria per impedire che questo avvenga, non mi unisco al coro di prefiche, di cui tutti conosciamo i nomi, constato, così come Michel Foucault annunciava la morte dell'uomo il cui volto svanirà sulla sabbia di una spiaggia coperta dal mare, che possiamo annunciare con lo stesso spirito la morte dell'uomo europeo che una volta era prevalentemente bianco e giudeo-cristiano. È così, al di là del bene e del male. La demografia testimonia a favore dell'Africa, della Cina, dell'India e dell'Asia. La risposta alla sua domanda è in quei paesi».

    Lei è un materialista eppure scrive che non c'è civiltà senza religione. Dunque riconosce che l'uomo è assillato da un'inquietudine spirituale. Come spiega la contraddizione?

    «L'ateismo non è maggioritario nella nostra civiltà. È perfino raro. La negazione di Dio, spiegarlo come una finzione degli uomini per sopportare l'evidenza di essere destinati a morire, riguarda pochi. Ognuno ha a sua disposizione una religione che gli permette di credere in qualcosa dopo la morte. Questa paura della miseria dell'uomo senza Dio, ben analizzata da Pascal quando dice che la condizione umana è simile a quella di uomini incatenati in un sotterraneo, la cui porta non si apre e non fa passare la luce se non quando il carnefice viene a prendere colui che sarà messo a morte, mi sembra giusta. La religione si nutre di questa paura, vuole che il reale non sia vero e che la finzione sia più vera del reale: la morte che è vera non esiste, ma l'immortalità che non esiste è vera: così è ogni religione. La civiltà si cristallizza intorno a questo bisogno ontologico».

    All'ateismo religioso, associa l'ateismo sociale. Lei è spietato con le ideologie e il progressismo: con il comunismo, ma anche con il consumismo. Non è, in definitiva, un anarchico?

    «La parola "anarchico" ha una connotazione negativa: è l'epiteto che caratterizza i bombaroli del secolo XIX. Vi è un secondo senso, un po' tecnico, che rimanda a Proudhon, per il quale l'"anarchia positiva" è un modo di organizzazione contrattuale della società. È l'autogestione, il potere orizzontale, la creazione della libertà con formule concrete, pratiche e non violente. Questo è il mio modo di sentire. Il mio anarchismo sociale riguarda le credenze liberali di destra e di sinistra, che sono sbagliate perché credono che lo Stato giacobino è la meccanica ideale, mentre bisogna restituire il potere al popolo perché possa gestire da sé la sua vita comunale, locale, dipartimentale, regionale, e possa poi, con un sistema di parlamenti regionali che designano delle persone secondo la logica del mandato imperativo, gestire la sua vita nazionale e internazionale. Pubblico a marzo un libro su questo argomento: decolonizzare la provincia. Sarà il mio contributo alle presidenziali».

    Molti politici e intellettuali ritengono che la nostalgia abbia un aspetto patologico. Lei non nasconde una serie di legami umani, regionali, artistici, politici. È un nostalgico?

    «Quando è necessario, sì: la perdita di ciò che era buono e migliore di oggi può legittimamente suscitare rimpianti. Un periodo di pace nel passato è migliore di un periodo di guerra attuale, un periodo antico di intelligenza è migliore di un periodo odierno di idiozia, un'epoca di libertà è migliore di un'epoca di servitù nei nostri giorni, un tempo di amore per le lettere è migliore del disprezzo per le lettere di oggi. Ma se l'oggi è meglio di ieri, preferisco l'oggi: una medicina più efficace per una maggiore salute, delle tecniche digitali di facile apprendimento e uso che consentono l'accesso alla cultura, la scomparsa di indebite gerarchie che permette delle relazioni veramente contrattuali e immanenti, una condizione della donna meno feudale che prima del Maggio del '68 e tante altre cose. Chi sa essere solo conservatore sbaglia, chi sa essere solo progressista sbaglia: bisogna preservare l'eccellenza e diffidare di ciò che spinge verso il basso».

    Lei scrive che il nostro mondo sta crollando e che questo crollo potrebbe travolgere tutto. Perché, nonostante questa cupa constatazione, continua ancora a scrivere, a partecipare attivamente alla vita intellettuale?

    «Perché non ci rimane che l'eleganza. Morire in piedi, con il sorriso sulle labbra, dopo aver personalmente contribuito il meno possibile al naufragio».

    Le Figaro / LENA, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Luis E. Moriones

    IL CRISTIANESIMO

    Trascendenza e sacro sono scomparsi a favore di una morale da boy scout

    L'ATEISMO

    L'ateismo non è maggioritario è anzi raro. Spiegare Dio come finzione riguarda pochi

    IL DIPINTO. Abbazia nel querceto di Caspar David Friedrich ( 1810)

    *CHI È Michel Onfray è un filosofo francese Si è distinto per il suo dichiarato ateismo. È molto attivo nel dibattito intellettuale: è appena uscita la seconda parte del suo Brève encyclopédie du monde

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