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17 dicembre 2013 2 17 /12 /dicembre /2013 13:56

Pubblichiamo il testo del discorso che George Saunders, autore di Dieci dicembre, ha tenuto ai laureandi della Syracuse University del 2013. Questo testo – per il quale ringraziamo l’autore – compare qui integralmente e in forma ridotta sulla pagine culturali di Repubblica di oggi. Traduzione di Anna Bissanti. (Fonte immagine) di George Saunders

     Nel corso degli anni si è andata affermando una tradizione per questo tipo di discorsi, che potremmo sintetizzare come segue: un vecchio noioso e antiquato, con i migliori anni ormai alle spalle, che nel corso della sua vita ha commesso una serie di errori madornali (che sarei io), dà consigli dal profondo del cuore a un gruppo di giovani brillanti e pieni di energie che hanno davanti a sé i loro anni migliori (che sareste voi). E io intendo rispettare questa tradizione. Ebbene, una delle cose più utili che si può fare con una persona anziana – oltre a prendere soldi in prestito o chiederle di eseguire uno dei “balli” dei suoi tempi, così da poterla osservare facendosi due risate – è chiederle: “Ripensando al passato, di che cosa ti rammarichi?”. E lei te lo dice. In qualche caso, come ben sapete, te lo dice anche se non glielo chiedi. In qualche altro caso ancora te lo dice perfino quando hai specificatamente chiesto che non te lo dica. Bene: di che cosa mi rammarico? Di essere stato povero, di quando in quando? Non proprio. Di aver fatto mestieri tremendi, come “estrarre le articolazioni” in un mattatoio? (Che non vi venga assolutamente in mente di chiedermi che cosa ciò comporta.) No. Non mi rammarico di ciò. Di essermi tuffato senza nulla addosso in un fiume di Sumatra, un po’ alticcio, e di aver guardato in alto, e di aver visto qualcosa come trecento scimmie sedute su una tubatura intente a cagare di sotto, nel fiume, proprio quello nel quale stavo nuotando io, con la bocca spalancata e tutto nudo? E di essermi ammalato in seguito a ciò, e di essere stato male per i sette mesi successivi? Non proprio. Mi rammarico forse di aver fatto qualche sporadica figuraccia? Come quella volta che giocando a hockey di fronte a una gran folla – in mezzo alla quale c’era una ragazza che mi piaceva davvero tanto – caddi a terra emettendo un bizzarro suono stridulo, e non so come riuscii a segnare nella porta della mia squadra e al tempo stesso a scaraventare il bastone in mezzo alla folla e a colpire proprio quella ragazza? No. Non mi rammarico neppure di questo. In verità mi rammarico di un’altra cosa: in seconda media nella nostra classe arrivò una ragazzina nuova. Nel rispetto della privacy, diciamo che il nome col quale ci fu presentata fu “Ellen”. Ellen era piccola, timida. Indossava occhiali blu dalla montatura a occhi di gatto, del tipo che all’epoca portavano soltanto le signore anziane. Quando era nervosa, in pratica quasi sempre, aveva l’abitudine di mettersi una ciocca di capelli in bocca e di masticarla. Insomma, arrivò nella nostra scuola e nel nostro quartiere, e per lo più fu del tutto ignorata, in qualche caso presa in giro (“Sono saporiti i tuoi capelli?” e altre battute del genere). Mi rendevo conto che questo la feriva. Ricordo ancora come appariva dopo una villania di questo tipo: teneva gli occhi bassi, se ne stava un po’ ripiegata, come se avesse ricevuto un calcio nello stomaco, come se essendole appena stato ricordato il posto che occupava cercasse, per quanto possibile, di scomparire. Dopo un po’ scivolava via, con la ciocca di capelli ancora in bocca. A casa, dopo la scuola, immaginavo che sua mamma le chiedesse cose del tipo: “Come è andata oggi, tesoro?”. E lei rispondesse: “Oh, bene”. E sua madre forse le chiedeva anche: “Hai stretto amicizie?”, e lei rispondesse: “Sicuro, molte”. Talvolta la vedevo bighellonare tutta sola nel giardino anteriore di casa sua, come se fosse timorosa di uscirne. E poi… Poi traslocarono. Ecco tutto. Nessuna tragedia. Nessuna grande presa in giro finale. Un giorno era lì, il giorno dopo era sparita. Fine della storia. Ebbene, perché mai mi rammarico di ciò? Perché a distanza di quarant’anni ripenso ancora a quell’episodio? Rispetto alla maggior parte degli altri ragazzini, in realtà, io mi ero comportato abbastanza gentilmente con lei. Non le ho mai detto niente di sgradevole. Anzi, in qualche caso l’ho addirittura difesa (un po’). Eppure… Mi dispiace. Ecco, questa è una cosa vera che adesso so di sicuro, anche se si tratta di qualcosa di un po’ trito e non so con esattezza che farne: ciò che rimpiango di più nella mia vita è aver mancato di essere gentile. Mi riferisco a quei momenti in cui davanti a me c’era un altro essere umano, addolorato, e io ho reagito… assennatamente. In modo riservato. Bonario. Oppure, se vogliamo vedere le cose dall’altra parte, potremmo chiederci: chi ricordi con maggior affetto nel corso della tua vita? Con la più innegabile sensazione di cordialità? Quelli che sono stati maggiormente gentili nei tuoi confronti, scommetto. Sarà forse un po’ semplicistico, e sicuramente difficile da mettere in pratica, ma direi che come obiettivo nella vostra vita fareste bene a “cercare di essere più gentili”. Ed eccoci alla domanda da un milione di dollari: qual è il nostro problema? Perché non siamo più gentili? Questo è quanto penso io in proposito: Ciascuno di noi viene al mondo con una serie di malintesi innati che quasi certamente hanno un’origine darwiniana. Mi riferisco a: 1) noi siamo il centro dell’universo (in altri termini, la nostra storia personale è la storia più importante e interessante al mondo. Anzi, in realtà è l’unica storia che conti); 2) noi siamo qualcosa di diverso e distinto dall’universo (sì, certo ci siamo noi e poi, laggiù, c’è tutto il resto, cani e altalene e lo Stato del Nebraska e le nuvole basse e, sì, è vero, anche tanta altra gente); e 3) noi siamo eterni (la morte esiste, sì, certo, ma riguarda te, non me). Ebbene, noi non crediamo veramente a queste cose – a livello intellettuale non siamo certo così ingenui – ma ci crediamo a livello viscerale, e viviamo in modo conforme a ciò che crediamo, al punto che queste cose fanno sì che noi riteniamo prioritarie le nostre esigenze rispetto a quelle altrui, anche se ciò che vogliamo davvero, nel profondo dei nostri cuori, è essere meno egoisti, più consapevoli di quello che sta accadendo nel momento presente, più aperti, più amorevoli. Ed eccoci alla seconda domanda da un milione di dollari: come possiamo riuscire a fare una cosa del genere? Come possiamo diventare più premurosi, più aperti, meno egoisti, più presenti, meno deludenti e così via? Già, bella domanda… Purtroppo, mi restano soltanto tre minuti ancora… Lasciate dunque che vi dica questo: il modo c’è. Voi già lo sapete, del resto, poiché nella vostra vita avete conosciuto periodi di Grande Gentilezza e periodi di Poca Gentilezza, e già sapete che cosa vi ha spinti verso i primi e lontano dai secondi. Una buona istruzione serve. Immergersi in un’opera d’arte serve. Pregare serve. Meditare serve. Una chiacchierata schietta con un caro amico serve. Sentirsi parte di una tradizione spirituale serve. Riconoscere che ci sono state innumerevoli persone davvero intelligenti prima di noi che si sono poste queste stesse domande e ci hanno lasciato le loro risposte serve. Il fatto è che si finisce con lo scoprire che essere gentili è difficile. Perché essere gentili all’inizio è essere tutti arcobaleni e cucciolotti, ma poi si espande, fino a includere… beh, proprio tutto. Una cosa gioca a nostro favore: parte di questo diventare più gentili capita naturalmente, con l’età. Può trattarsi di una semplice questione di logoramento: a mano a mano che invecchiamo impariamo ad accorgerci di quanto sia inutile essere egoisti. Di quanto sia illogico, davvero. Iniziamo ad amare il prossimo e così facendo riceviamo una sorta di contrordine in merito alla nostra centralità. La vita reale ci prende a calci nel sedere, e la gente accorre in nostra difesa e in nostro aiuto, e così impariamo che non siamo separati dagli altri, né vogliamo esserlo. Vediamo le persone a noi vicine e a noi care indebolirsi, e poco alla volta ci convinciamo che forse anche noi un giorno saremo più deboli (un giorno, tra tanto tempo). La maggior parte delle persone, quando invecchia, diventa meno egoista e più amorevole. Penso che sia proprio vero. Il grande poeta di Syracuse Hayden Carruth quasi al termine della sua vita in una poesia scrisse di sentirsi “per lo più amore, ormai”. Ed eccovi la mia previsione, il mio augurio di tutto cuore per voi: a mano a mano che invecchierete, il vostro Io diminuirà e crescerete nell’amore. L’IO sarà sostituito poco alla volta dall’AMORE. Se avrete figli, quello sarà un momento di enorme rimpicciolimento della vostra centralità. A quel punto non vi interesserà più ciò che accadrà a voi, purché siano loro a beneficiarne. Questo è uno dei motivi per i quali i vostri genitori oggi sono così orgogliosi e felici. Uno dei loro sogni più caramente accarezzatisi è trasformato in realtà: voi avete portato a compimento qualcosa di difficile e di tangibile che vi ha fatto crescere come persone e vi renderà la vita migliore, da adesso in poi, per sempre. Congratulazioni, a proposito! Da giovani siamo impazienti, come è giusto che sia, di scoprire se possediamo tutto ciò che ci serve. Ce la faremo? Riusciremo a costruirci una vita degna di questo nome? Ma voi – in particolare voi, di questa generazione – forse avrete notato un certa qualità ciclica in questa ambizione. Andate bene al liceo nella speranza di riuscire a entrare in una buona università, così da andare bene all’università nella speranza di riuscire a ottenere un buon posto di lavoro, così da poter svolgere bene il vostro lavoro nella speranza di riuscire a… E tutto ciò è sicuramente ok. Se dobbiamo diventare più gentili, questo processo include il fatto di prenderci sul serio, in qualità di persone che agiscono, che portano a termine le cose, che sognano. Sì, dobbiamo fare proprio questo: essere il meglio di ciò che possiamo essere. Tuttavia, il successo è inaffidabile. “Avere successo”, a prescindere da ciò che può voler dire per voi, è difficile, e la necessità di farlo sempre si rinnova di continuo (il successo è come una montagna che continua a innalzarsi nel momento stesso in cui la scaliamo), ed esiste il pericolo molto concreto che per “avere successo” sia necessaria la vita intera, mentre le grandi domande restano senza risposta. Ed eccovi dunque un consiglio veloce, per congedarmi al termine di questo discorso: dato che secondo la mia opinione la vostra vita sarà un viaggio che vi porterà ad essere più gentili e più amorevoli, sbrigatevi. Fate presto. Iniziate subito. In ciascuno di noi c’è un equivoco di fondo, un vero malessere in verità. Si tratta dell’egoismo. Ma la cura esiste. Siate quindi gentili e proattivi e addirittura in un certo senso i pazienti di voi stessi – cercate le medicine più efficaci contro l’egoismo, cercatele con tutte le vostre energie, per tutto il resto della vostra vita. Fate tutte le altre cose, quelle ambiziose – viaggiare, diventare ricchi, acquistare fama, essere innovativi, essere leader, innamorarsi, fare fortuna e perderla, nuotare nudi nei fiumi in mezzo alla giungla (dopo aver controllato che non ci siano in giro scimmie che cagano) – ma qualsiasi cosa farete, nella misura del possibile eccedete in gentilezza. Fate ciò che vi può indirizzare verso le risposte a quelle grandi domande, cercando di tenervi alla larga dalle cose che possono sminuirvi e rendervi banali. Quella luminosa parte di voi che esiste al di là della vostra personalità – la vostra anima, se credete – è tanto luminosa e brillante quanto nessun’altra. Luminosa come quella di Shakespeare, luminosa come quella di Gandhi, luminosa come quella di Madre Teresa. Sbarazzatevi di tutto ciò che vi può tenere lontani da quella luminosità nascosta. Credete nella sua esistenza, cercate di conoscerla meglio, coltivatela, condividetene incessantemente i frutti. E un giorno, tra 80 anni, quando voi ne avrete 100 e io 134, quando saremo tutti così gentili e premurosi da risultare quasi insopportabili, scrivetemi due righe. Fatemi sapere come è stata la vostra vita. Spero tanto che mi scriviate: è stata meravigliosa.                                                                                                                  Congratulazioni, laureati del 2013. Vi auguro tanta felicità, tutta la fortuna del mondo e un’estate splendida. © George Saunders, 2013 –

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4 dicembre 2013 3 04 /12 /dicembre /2013 13:32

Dolore e dignità

Così le relazioni umane ci salvano dall'indifferenza

Nel nuovo libro dello psichiatra Eugenio Borgna la riflessione sulla sofferenza e la malattia.              

 Se la denuncia del silenzio davanti ai mali degli ultimi della terra diventa anche "politica".                                                                                                                                        La terapia non funziona senza una forma di accoglienza e di vicinanza  

di LUCIANA SICA    

 
 

27 novembre 2013

Al cuore del nuovo libro di Eugenio Borgna c'è una riflessione molto tesa sulla sofferenza e la malattia, sulla loro significazione umana, con un continuo rimando alla lezione di Rilke: il dolore riconduce nella interiorità la esteriorità della nostra esperienza del mondo. E il compito di un medico sarebbe anche quello di riconoscere alla persona che "cade" nella malattia la ricerca oscura di un "altro" destino, comunque l'esigenza e la via di una trasformazione, paradossalmente più vicina alla vita rispetto a certe sue sonorità tanto vuote e assordanti.

Certo, se Borgna fosse solo uno psichiatra, per quanto straordinario, La dignità ferita (Feltrinelli) avrebbe potuto deragliare tra i vagoni plumbei di una disciplina che spesso sembra difettare di ogni vita. Ma Borgna, quel signore che nella stagione basagliana ha smantellato il manicomio di Novara, è un intellettuale innamorato di poesia e di letteratura, e quindi di musicalità delle parole, di filosofia - delle più ardite esplorazioni della mente piuttosto che di tecnicismi astratti. Con lui il pericolo di ritrovarsi per le mani un orrendo, illeggibile manuale non c'è mai stato, ne ha scritti tanti di libri bellissimi, difficilmente poteva esserci ora il rischio dell'aridità concettuale e della noia.

Qui - in queste pagine appassionate, coinvolgenti - del corpo ferito dalla malattia si parla innanzitutto come dell'espressione di un'intimità dell'anima oltraggiata dalla perdita della fiducia e della speranza. Borgna cita Guerra e pace di Tolstoj: il profondo dolore di Natascia suggerisce che ogni malattia, non solo quella psichica, ha una sua propria forma legata a diversi stati d'animo, alle emozioni meno trasparenti e dicibili. Lo stesso Thomas Mann, nei Buddenbrook, scrivendo del tifo che colpisce un adolescente, entra a pieno titolo nelle enigmatiche correlazioni tra anima e corpo, convinto già allora che ogni malattia somatica sempre si accompagna a risonanze psichiche decisive nell'aiutarci a resistere o meno alla malattia. Per dirla con la sobrietà elegante di Borgna, "non sono cose dimostrabili, ma il vivere e il morire sono intrecciati l'uno all'altro; e talora si muore quando non c'è più il desiderio di vivere, e talora non si muore quando ci sia il desiderio di vivere: questo, forse, è possibile immaginarlo".

Fonte originaria dei diritti umani, al centro del lessico della sinistra di ogni tempo, la parola "dignità" che qui impegna l'autore - non solo sul versante della relazione terapeutica - oggi sembra particolarmente ferita dall'indifferenza e dal male nelle sue infinite forme di espressione. Scrivendo delle sue fondazioni storiche e filosofiche, ma anche delle lacerazioni della dignità, è forte il "j'accuse" di Borgna nei confronti della sua disciplina amata-odiata che in anni non lontanissimi (e ancora oggi con altre modalità) si è così colpevolmente alleata alla sociologia e alla politica teorizzando la distinzione tra una vita degna di essere vissuta, quella "normale", e la vita che invece non lo sarebbe, contrassegnata dalla difficoltà del fare, dall'impossibilità dell'eterna efficienza. E invece, puntualizza Borgna citando Kant, ogni essere umano è o dovrebbe essere sempre un fine e mai un mezzo, ogni uomo conta al di là di ogni sua particolare connotazione: possiamo offenderne la dignità, non rispettandola, anche con le parole che diciamo o che soprattutto non diciamo, ma può anche darsi che non riusciremo mai a privarlo del tutto di quel suo sentimento così soggettivo e mai del tutto violabile.

Certamente sanguinano le ferite alla dignità delle persone, quando escludiamo di avere tempo per quella minima attenzione - appartiene all'ordine della grazia, diceva Simone Weil - che consenta di andare incontro alle loro attese e alle loro angosce. Qui il pensiero di Borgna non esita ad allargarsi a una sfera decisamente politica, con una denuncia del silenzio, di quella che lui chiama l'indifferenza del cuore, davanti all'estremo dolore degli ultimi della terra - così vicini così lontani - che tutto lasciano alle spalle nella speranza spesso impossibile di cambiare la propria vita, anzi di salvarla. Secondo l'autore, non si coglie il dramma di ogni forma di malinconia e di solitudine umana, proprio come di ogni forma di emigrazione, se innanzitutto non si rispetta la presenza di una struggente nostalgia di vicinanza umana e di qualche accoglienza.

Ci sono modi di essere, forme di vita, che aiuterebbero a mantenere la dignità e a testimoniarne la grazia, con la possibilità di creare relazioni umane dotate di senso, più autentiche e creatrici. Qui Borgna chiama in soccorso un grandissimo come Iosif Brodskij, il Nobel russo per la letteratura nell'87, che poco prima di morire in un suo bellissimo saggio ricollegava la dignità umana alla gentilezza e alla civiltà dei modi: un modo di conoscere le persone e di prendersene cura, di evitare sempre le parole che feriscano, un ponte che consente di uscire dai confini angusti della soggettività a favore di invisibili alleanze e comunità di destino.

Non proprio un discorso astratto, visto che le relazioni quotidiane sono radicalmente influenzate dalla presenza o dall'assenza della gentilezza, nei modi di essere e nei modi di parlare. Eppure sì, il tutto rischia di suonare come qualcosa di nostalgico, in un mondo dove trionfa la disfatta di ogni mitezza (del sorriso e delle lacrime, non esita a scrivere Borgna), in un carosello senza fine di parole, silenzi, gesti che fanno male, non arginano affatto paure e fragilità, lasciando un senso penoso di vuoto e di smarrimento.

Cosa possa fare la psichiatria per il rispetto della dignità, è nella tesi radicale di questo libro coraggioso di Eugenio Borgna: una scienza umana e sociale - non solo naturale - può e deve indicare l'importanza psicologica, e anche politica, di relazioni interpersonali che non siano divorate dalla funzionalità ma animate dalle "ragioni pascaliane del cuore", consegnando un qualche senso al dolore e a volte alla disperazione. Una tesi nel segno dell'ottimismo, che lo stesso Borgna non trascura come pura ma necessaria illusione.

La dignità ferita di Eugenio Borgna – Feltrinelli - pagg. 240 - euro 17.

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1 dicembre 2013 7 01 /12 /dicembre /2013 19:04

Nella Terra dei fuochi dove brucia anche la speranza (ROBERTO SAVIANO).

RIFIUTI TOSSICI  SEPPELLITI  DELLA TERRA
Ma non tutto è perduto nell’ex Campania felix, Partendo proprio dall’agricoltura E DEI SUOI FRUTTI.

Dai Rifiuti tossici seppelliti per trent’anni alla scoperta dell’avvelenamento della terra e dei suoi frutti che ora va in cerca del suo riscatto
Chi ha bruciato l’oro di Napoli

LE RIVELAZIONI:  nel ’97 il boss Carmine Schiavone disse in una audizione secretata che i veleni interrati avrebbero ucciso  gli abitanti della terra dei fuochi

IL DOCUMENTO STORICO: desecretata un mese fa l’audizione di Schiavone. Ma un documento del PCI campano, riscoperto da poco, rivela che il traffico dei veleni era noto da anni

I POLITICI:  di recente è stato assolto Antonio Bassolino, ma le sue responsabilità politiche restano. Nicola Cosentino invece è sotto processo

L’ESEMPIO: osteggiato dai consorzi, Vincenzo Cenname, sindaco di Corrigliano (Caserta) ha organizzato in autonomia una raccolta differenziata di successo

LA STORIA del suicidio più drammatico avvenuto nei paesi mediterranei, ovvero l’eliminazione di una grossa parte delle primizie dell’agricoltura a favore dell’economia illegale dei rifiuti, per qualche giorno è sembrata interessare i media nazionali e la politica. D’improvviso il tema dell’avvelenamento delle terre campane ha attraversato il dibattito nazionale, quello striscione con la parola “Biocidio” è apparso nelle foto, nei siti, nei tg, ed è riuscito a provocare indignazione, paura, promesse di cambiamento. Molti parlano di Terra dei fuochi, pochi sanno cosa significa davvero. In queste settimane in rete circola l’immagine di un documento che risale agli anni 80, stilato dalla sezione del Partito comunista di Casal di Principe. Con quel documento si denunciava, mentre accadeva, l’avvelenamento dei terreni, la fine per sempre della Campania felix. Sapevamo già tutto. È per questo che quando Carmine Schiavone nel 1997 diceva che gli abitanti della Terra dei fuochi «sarebbero tutti morti nell’arco di venti anni» sbagliava: essi erano già morti, civilmente morti.

Sono anni che, insieme ad altri, racconto le sciagure della Terra dei fuochi, che nel tempo ha finito con il fagocitare interi comuni, estendendo sempre più i suoi confini. Da quando Peppe Ruggiero di Legambiente usò questa suggestiva espressione, così lontana dalla Terra del fuoco descritta da Magellano. Come l’esploratore portoghese vide dal mare i fuochi sulla costa, così chi viaggia sulla Strada Statale 7 bis Terra di Lavoro (la Nola-Villa Literno) o sull’Asse Mediano, se distrae lo sguardo dall’asfalto vede tutt’intorno fumo salire dalla terra e se abbassa il finestrino sente un odore acre che brucia in gola lasciando un sapore acido. Un odore cui non è possibile assuefarsi.

Come è potuto accadere? Come è stato possibile intombare tanti rifiuti tossici, fino a renderne difficile se non impossibile l’estrazione dal suolo? C’è la via, tra virgolette, “legale”. Da trent’anni diverse aziende del Nord hanno appaltato — e purtroppo ancora appaltano — lo smaltimento dei loro rifiuti speciali a ditte specializzate, apparentemente legali, che riescono a fare enormi sconti: specialmente in una congiuntura economica come questa, possono fare la differenza tra sopravvivere o fallire. È una dinamica chiara: non è forse questo il tempo in cui i grandi Paesi industrializzati affermano di non essere in grado di osservare i vincoli posti dal Protocollo di Kyoto? Basti pensare, a titolo di esempio, come gli stakeholder italiani (ossia i mediatori tra industria e ditte che smaltiscono) sono riusciti, nel 2004, a garantire che ottocento tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di una azienda chimica, fossero trattate al prezzo di venticinque centesimi al chilo, trasporto compreso. Un risparmio dell’80 per cento sui prezzi ordinari. Le aziende che in questo modo si liberano dei rifiuti prodotti sono colpevoli, certo, ma allo stesso tempo legalmente tutelate, perché le ditte che forniscono il servizio di smaltimento producono documentazioni legali. Poi, il gioco sporco comincia con i giri di bolla che fanno risultare che il ciclo è apparentemente rispettato. Quello dei giri di bolla è il secondo passaggio e avviene nei centri di stoccaggio. I titolari fanno in modo di raccogliere i rifiuti speciali che, in molti casi, miscelano con rifiuti ordinari, diluenpesche.
do la concentrazione tossica e declassificando, rispetto al Cer (Catalogo europeo dei rifiuti), la pericolosità dei veleni.
E poi c’è la via criminale. Lo smaltimento illegale tramite combustione: i fuochi. Bruciare copertoni, bruciare vestiti, ogni sorta di plastica, bruciare cavi di rame per liberarsi della guaina, bruciare rifiuti d’ogni sorta speciali e ordinari. È la folle scorciatoia presa da chi vuole evitare costi di smaltimento elevati. Si brucia perché così si diminuisce la
massa dei rifiuti e poi si mescolano al terreno le ceneri. Queste terre vengono considerate semplicemente spazi, spazi da riempire, spazi su cui guadagnare. Capita spesso, quando si viaggia in questa parte di Paese, di vedere aree di sosta colme di rifiuti. Il pensiero più immediato e il più lontano dalla realtà, è pensare che i campani siano incivili perché invece di differenziare la loro spazzatura, invece di gettarla semplicemente nel cassonetto sotto casa, si prendono la briga di caricarsela in macchina e di lasciarla in strada per dare di sé e della propria terra l’ennesimo mortificante spettacolo. Non è così. Quelle aree di sosta sono spazio, metri quadri dove sversare. Tutto questo è l’esatto contrario di ciò che sembra. Non è inciviltà. È criminalità, ovvero una forma organizzata di guadagno. Sommando la superficie di tutte le piazzole di sosta del napoletano e del casertano, ingombre di rifiuti, si raggiungerebbe l’estensione di una grande discarica. E questo è anche il segno dello stadio terminale del disastro. Il rifiuto non è più identificabile, circoscrivibile: il rifiuto ha pervaso le nostre vite. Avanza, fino quasi a lambirci o a sommergerci, come è già accaduto nella città di Napoli qualche anno fa.
Ma come si è arrivati a tanto? Perché queste terre preziose per le coltivazioni sono diventate cimitero per rifiuti? Pomodori, broccoli, zucchine, cicoria, cavolfiori, fave, peperoni. E poi arance, mandarini, mele, pere, Tutti questi prodotti, la grande distribuzione ha iniziato a pagarli ai coltivatori campani sempre meno. Il rischio, se non avessero accettato di abbassare i prezzi, era che li avrebbero acquistati all’estero, in Libano, in Grecia, in Spagna. E così cade la barriera: l’agricoltura smette di essere la fonte primaria di guadagno per i coltivatori diretti che spesso cedono o affittano una parte delle loro terre alle imprese, o più spesso a loro intermediari, per lo sversamento illecito di rifiuti. Con quei guadagni vanno avanti e mantengono in parte le coltivazioni, tratti in inganno dalle rassicurazioni che quei rifiuti non arrecano danno. Ben presto si scopre che non è così. Che spesso si tratta di sostanze tossiche che fanno marcire interi raccolti.
Una domanda non può essere elusa. Chi sono i responsabili di questo disastro ambientale e umano? Io credo che personificare il male sia inutile artificio, quando ci si trova al cospetto di una tale sequela di opere, omissioni, silenzi e ferma volontà di ignorare quello che accadeva. La puzza c’è sempre stata e per i nuovi nati è divenuta normalità, come le piazzole di sosta delle statali divenute discariche improvvisate. Quei silenzi, quelle omissioni e a volte quelle opere, sono state della borghesia campana, napoletana e casertana nello specifico. Il disastro ha creato un indotto economico, foraggiato dalla politica dell’emergenza. E poi ci sono le responsabilità politiche, al di là di quelle giudiziarie. Solo se accettiamo tutto ciò, possiamo poi risalire fino a coloro i quali, plebiscitariamente eletti, hanno rappresentato il potere in Campania negli ultimi anni. Due personalità si stagliano in questo scenario di morte: Antonio Bassolino e Nicola Cosentino. Il primo è reduce da una piena assoluzione all’esito del processo che avrebbe dovuto ricostruire le eventuali responsabilità connesse al disastro del ciclo dei rifiuti in Campania. Il secondo è attualmente sotto processo, anche con riguardo alle vicende del consorzio Eco4: la rete dei consorzi di gestione del ciclo dei rifiuti ha costituito l’ossatura del sovvertimento democratico, che ha condotto allo spreco di risorse pubbliche, che ha prodotto enormi profitti per la criminalità organizzata e che ha compromesso in maniera difficilmente rimediabile una qualsivoglia normalità nella gestione dei rifiuti. I consorzi erano retti da un sistema di potere consociativo. Nei consorzi centrosinistra e centrodestra sono sempre stati alleati. Per la enormità di queste evidenze il peso che incombe sulla Procura della Repubblica di Napoli è enorme: il fallimento di un processo durato anni può rappresentare un boomerang devastante. Il tentativo di sanzionare le responsabilità politiche con lo strumento del processo penale, può implicare due terribili conseguenze: da un lato, l’incapacità di focalizzare le reali responsabilità penali qualora esse vi siano; dall’altro, il rischio di trasformare l’assoluzione all’esito del processo in un’assoluzione anche dalle responsabilità politiche. È quello che è successo con Antonio Bassolino, la cui assoluzione in tribunale non cancella però la responsabilità che come politico ha avuto nel permettere che tutto degenerasse fino a questo punto.
Quali le prospettive? Che fare? Ciò che è certo è che bisognerebbe uscire definitivamente — anche linguisticamente, prima che nei fatti — dalla logica della emergenza, che nel sud Italia e in Campania in particolare si è fatta cultura. È il tempo dello studio e della osservazione: è il tempo di chiamare a offrire alternative al disastro quei giovani e non più giovani espulsi da questa società meridionale intrinsecamente mafiosa. Un ruolo fondamentale dovranno avere i sindaci. La storia di Vincenzo Cenname, primo cittadino di Camigliano, in provincia di Caserta, ad esempio, dovrebbe insegnare a tutti che la soluzione c’è già e bisogna solo fare in modo che venga fuori. Osteggiato dal sistema dei consorzi, Cenname ha resistito, appoggiato dai suoi concittadini, ed è riuscito ad organizzare la raccolta differenziata in totale autonomia: e funziona. Oggi è mperativamente necessario procedere a una perimetrazione a carattere scientifico delle zone inquinate con l’introduzione del divieto di produzioni agricole per le stesse e, d’altro canto, la previsione di incentivi per produzioni non agricole (ad esempio il bioetanolo). Questa proposta, nella sua ragionevole pragmaticità, parte dalla necessità di associare a ogni area un valore preciso, perché non tutte le aree sono state sfruttate allo stesso modo, non tutte hanno lo stesso grado di inquinamento. Non tutte presentano tracce delle medesime sostanze e non tutte nelle stesse quantità. È evidente che alcune terre sono totalmente compromesse, mentre altre possono essere bonificate e recuperate all’agricoltura con interventi meno incisivi e quindi anche meno costosi.
Il danno di questi giorni, che si aggiunge alla devastazione dell’inquinamento e allo sconforto che accompagna il pensiero costante della mancanza di un futuro dignitoso, è che tutto sembra avvelenato. Che tutti i prodotti campani vengano considerati inquinati, dalla mozzarella alle mele annurche, dalle fragole ai pomodori. Tutto viene dato per spacciato, compromesso. Per salvare l’economia agricola della Campania non è più sufficiente semplicemente tracciare la filiera di un prodotto, aggiungere l’etichetta “bio” e vestirlo da prodotto sano. Ora la comunicazione deve essere necessariamente fatta in maniera diversa, non si deve lasciare spazio a dubbio alcuno. Il bollino dovrà esplicitamente dire che il prodotto viene da terra non inquinata, da terra sana. Deve riportare l’indirizzo di un sito su cui è possibile verificare lo stato di quel terreno attraverso analisi. Ogni qual volta si generalizza sull’agricoltura campana o addirittura si iniziano a vedere nei supermercati «questo prodotto non viene dalla Campania», si sta favorendo l’economia camorristica: in che modo? I prodotti campani diventano invendibili, a quel punto entrano nel mercato illegale. I prodotti avvelenati vengono mischiati con quelli sani e i clan li portano nei mercati ortofrutticoli che — come le inchieste delle Dda su Fondi e Milano hanno dimostrato — sono stati spesso infiltrati dal potere delle cosche. Quei veleni saranno clandestinamente richiestissimi dai grossisti perché potranno comprare a costo bassissimo e rivenderli come prodotti del nord a costi alti e l’etichetta «non prodotto in Campania».
Terre a vocazione agricola, terre di pascolo, terre a vocazione turistica, terre di bellezza, avvelenate sistematicamente sotto il sole, sotto gli occhi di tutti. Sotto gli occhi di chi è rimasto impotente in un paese dove ormai si è convinti che riformare le cose sia impossibile. Ciò che resta è il vigliacco piacere di volerle abbattere pensando a un mondo meraviglioso e nuovo che non verrà mai. E in nome di questo mondo si sta rendendo il quotidiano un inferno invivibile. Questo meccanismo lo descrive benissimo Robert Musil: «Quell’inqualificabile piacere (che molti di noi hanno, ndr) che consiste nel vedere il bene abbassarsi e lasciarsi distruggere con meravigliosa facilità».

Da La  Repubblica del 25/11/2013

 

CONSIDERAZIONI (Da uno scritto di una cara amica)

Dobbiamo imparare a ragionare in termini di paese nella sua interezza, dividendolo tra chi è per la legalità e chi la combatte, tra chi sceglie il senso civico e chi il menefreghismo, tra chi si riconosce in certi valori e chi no, altrimenti non riusciremo mai a dare forma a una società civile degna di dal nome. Se continuiamo a riconoscerci solo come "lombardi" o "meridionali" a pensare che sarebbe un bell'affare cedere la sicilia alla libia ecc, perderemo (se non l'abbiamo già persa) l'occasione di ricostruire sulle macerie in cui è ridotto il paese una nuova cultura democratica e cosmopolita. Il sud è pieno di gente che combatte mafia e corruzione, rischiando in prima persona, spesso nella solitudine e nel disinteresse delle istituzioni. E chi ne parla corre il rischio della propria vita (sono molti  vcoloro che sono stati ammazzati dalla malavita e dalle mafie per combattere le organizzazioni criminalli e per la legalità) mentre al nord le persone, i giornali e i mezzi di comunicazione ne possono parlare senza alcun rischio. Qualcuno dice: "Come  facevano a non sapere della terra dei fuochi? Perchè nessuno ha parlato?" Saviano, solo per fare un esempio, è stato condannato a morte dalla camorra per questo, il suo libro, documentatissimo, è uscito nel 2006, ci hanno fatto sopra un film, lui è intervenuto ovunque lo invitassero a parlare di queste cose.  Il blocco dei camion che scaricavano nelle finte cave è stato tentato per anni dagli abitanti del posto e i rifiuti venivano consapevolmente consegnati alla malavita da imprese del nord Italia e di altri paesi europei... L'inchiesta  e laconfessione del pentito di mafia è stata secretata dallo Stato nel 1997, non dagli abitanti. Trovo che qualcuno sia troppo prevenuto quando parla del sud e lo trovo ingiusto, ingiusto e politicamente deleterio, lasciamo il provincialismo alla destra, noi dobbiamo andare avanti, verso orizzonti un po' più ampi, abbiamo già perso troppo tempo con le cavolate leghiste.

Ci conviene costituire un blocco sociale discriminante tra chi combatte contro le mafie, per la legalità e lo stato e i malavitosi, che sono una minoranza, ma determinati e armati.

 “La cosa più tragica non è la malvagità dei cattivi, ma il silenzio dei giusti” Martin Luther King

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21 novembre 2013 4 21 /11 /novembre /2013 21:37

I droni Usa alla conquista degli oceani

Li usa la marina. E ora anche la scienza per  studiare  gli abissi e il clima

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - La rotta più lunga  parte dalla East Coast degli Stati Uniti, attraversa l'Atlantico puntando dritto alle isole Azzorre e finisce al largo dei Portogallo.

Un'altra costeggia l'isola di Capoverde e le Canarie, poi risale fino all'Islanda. Una terza circumnaviga Portorico e Cuba. Sono i nuovi itinerari dei droni.

A centinaia di metri sotto la superficie dell'acqua. Ormai noti da tempo come i nuovi killer dei cieli, ampiamente usati dalla Cia e dal Pentagono per gli attacchi contro i taliban e Al Qaeda; sempre più diffusi anche in funzioni di spionaggio aereo al

servizio del Grande Fratello; ora i robot senza pilota abbattono una nuova barriera e s'impadroniscono degli oceani. Inizialmente a scopi scientifici, meteorologici, perfino umanitari.

Naturalmente l'uso militare è già previsto: una delle più grosse flotte di droni subacquei è già in dotazione alla U.S. Navy, ben 65 apparecchi. Forse un giorno la caccia ai sottomarini nucleari russi o cinesi la faranno loro, se non la stanno già facen do.

 

L'INSETTO MECCANICO

Sembra uscito da un film di spionaggio, ma è un esperimento americano:

insetti teleguidati con uno "zainetto" di chip . Gli animalisti protestano

 

Per adesso a esaltare questo uso dei droni subacquei sono soprattutto gli scienziati, dai biologi marini agli studiosi dei clima, tutti convinti delle loro enormi potenzialità. Una delle più importanti università che li usa è la Rutgers, i cui biologi marini operano da una base di Atlantic City. Il loro progetto coinvolge 16 agenzie federali di

Stati Uniti e Canada, ed è battezzato "Gliderpalooza". Èlafusione di due parole, "glider" sta per aliante ma può indicare altri apparecchi che si muovono senza motore, "palooza" è un festino. La tecnologia di questi droni li rende versatili, poco costosi rispetto ad altri apparecchi per l'esplorazione sottomarina, e anche molto discreti (cosa che certamente attira i militari). Non hanno eliche, si spostano

perché assorbono e poi espellono piccole quantità d'acqua, così facendo azionano delle "pinne" meccaniche che li muovono. Prodotti dalla Teledyne Webb Research Corporation,gli Slocum Glider in dotazione alla Rutgers costano dai  125.000 ai 150.000 dollari, molto meno dei sommergibili scientifici alla Cousteau il cui

funzionamento può costare fino a 100.000 dollari al giorno.

Un'inchiesta del New Y ork Times  tra gli scienziati della Rutgers University rivela le applicazioni più affascinanti dei droni marini. Gli oceani sono oggetto di studio da molti decenni usando i satelliti, c ad altri sistemi di rilevazione disseminati su boe galleggianti dotate di sensori. Ma con l'eccezione delle spedizioni ad alte profondità, rare e costose, tutti questi strumenti di osservazione restano in superficie.

I droni invece si spingono agevolmente fino a 200 metri di profondità, e possono essere configurati per andare molto più giù. La flotta in dotazione alla Rutgers University ha già ultimato missioni per 150.000 km. Le informazioni raccolte, ha

spiegato l'oceanografo Scott Glenn al New Y ork Times, possono rendere più precise e affidabili le previsioni su eventi naturali distruttivi, come gli uragani e i tifoni. L'intensità di queste turbolenze atmosferiche è determinata spesso dalla temperatura

degli oceani a grandi profondità. «Prevedere meglio la loro intensità significa poter

valutare meglio l'impatto sulle popolazioni umane, soprattutto in Asia dove vive la maggior parte delle popolazioni colpite quando tifoni e uragani arrivano sulla terraferma», secondo Glenn. Dall'uragano Sandy che devastò la East Coast un anno

fa, fino al tifone Haiyan che ha fatto strage nelle Filippine, questi eventi estremi potrebbero diventare un po' meno mortali.

Altre applicazioni riguardano lo studio dell'inquinamento degli oceani; o le trasformazioni avvenute nella fauna marina, nei movimenti migratori dei banchi

di pesce. Uno degli" oggetti" misteriosi che affascinano gli scienziati marini, è la gigantesca "bolla" di acqua fredda che staziona sui fondali nell'Atlantico quando il resto dell'oceano si riscalda in primavera e in estate. Il comportamento della

"bolla fredda", la velocità con cui si mescola ed influenza la temperatura del resto del mare, potrebbe svelare i suoi segreti ai droni e consentire un progresso nelle conoscenze oceanografiche, meteorologiche, ambientali.

Infine anche un film come "Caccia a Ottobre Rosso" avrebbe un seguito molto diverso, sein futuro le grandi manovre delle flotte militari negli oceani avranno i droni come accompagnatori silenziosi e invisibili.

 

Jody Williams in Italia per lanciare una campagna internazionale. Glim incontra la Bonino e Grasso

La crociata della Nobel anti-mine "Obama fermi quei robot killer"

ALESSANDRA BADUEL

ROMA - «Non si può accettare che sia una macchina a decidere della vita di un uomo

ma è quello che invece ci attende. Perché già ora i droni uccidono indiscriminatamente, pur essendo teleguidati da umani. Obama non si è certo differenziato da Bush: nei soli primi tre mesi del suo primo mandato ha ordinato più attacchi con i droni di quanti ne avesse ordinati Bush in otto anni. L'accelerazione della macchina militare è difficile da fermare».

Difficile, ma Jody Williams, Nobel per la Pace dal 1997 per la campagna contro le mine, continua a provarci, ed è arrivata in Italia proprio per chiedere al governo di prendere posizione nella nuova campagna internazionale per fermare i robot killer. Oggi sarà ricevuta sia dal ministro degli Esteri Emma Bonino che dal presidente del Senato Pietro Grasso, oltre a partecipare alla nascita del board di Women for Expo 2015, centrato su donne e sostenibilità alimentare. Venerdì sarà alla conferenza "Science for Peace" della

Fondazione Veronesi, a Milano: «Parlerò di etica della scienza e di Joseph Rotblat, il fisico che si rifiutò di lavorare alla bomba atomica. Anche oggi, gli scienziati devono prendersi le loro responsabilità: la scienza "pura" non esiste».

 

I droni sottomarini

Un programma condotto  da 16 agenzie governative americane e canadesi, in collaborazione con università e centri di ricerca, ha sviluppato una flotta

di 15  droni sottomarini (con un sistema integrato da radar e satelliti)

quelli di ultima generazione arrivano a 650 piedi di profondità (200 mt)

Tornano in superficie autonomamente ogni due tre ore per trasmettere

dati e ricevere nuovi ordini .   -  Costo 125-150 mila dollari  -  

Non interferiscono con l'ambiente marino (durante la navigazione attraggono alghe, creature marine e grandi predatori)

 

Solo in Pakistan, secondo il Bureau of Investigative Journalisme, fra il 2001 e il 2013 i droni hanno ucciso almeno 900 civili e 200 bambini. C’è un modo per uscirne?

«Purtroppo il mio Paese rispetta poco le libertà civili e i diritti umani. Non c' è solo il Pakistan, ci sono anche Somalia e Yemen, tutti luoghi non in guerra. Ma certo è più facile uccidere così che portarsi a casa dei prigionieri. In più, si cerca di salvare le vite dei propri soldati, che è poi il motivo per cui procede la ricerca sui robot killer, futuri guerrieri completamente autonomie in grado di decidere se colpire o meno una persona. C'è bisogno di citare Isaac Asimov? La prima "legge dei robot" della sua fantascienza dice chiaramente che un robot non può ferire un essere umano. Stiamo varcando quel limite».

Perché sta succedendo?

«Per via dei miliardi di dollari che gli Stati Uniti investono perla ricerca in questo campo. Secondo me c'è un errore strategico che ci ha portati alla situazione attuale. I terroristi vanno considerati tali, non si deve dar loro la dignità di soldati nemici. Dopo l’11 settembre, bisognava muoversi come fecero gli europei contro il terrorismo negli anni Settanta. Ma gli Stati Uniti sono una macchina da guerra che deve avere un nemico. E già ora i nostri soldati sono addestrati come robot, con videogiochi che inducono il distacco più assoluto dal corpo del nemico, mentre gli agenti di polizia che hanno sgomberato le piazze dai giovani di Occupy erano vestiti come robot. E la ricerca è avanti sia sui nuovi droni che sui robot da guerra e i superuomini rielaborati con la bioingegneria per farne dei combattenti più forti fin dalla nascita. La sfida è davvero enorme: bisogna fare presto».

 

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2 novembre 2013 6 02 /11 /novembre /2013 17:01

E' un articolo che aiuta a riflettere. E' convinzione che la condizione umana sia complessa, coinvolge diversi campi e aspetti sia a livello invìdividuale che sociale, la tentazione di semplificare è forte (ndr).

 ALAIN TOURAINE:" siamo tutti soli come attori in un teatro vuoto”

PARIGI Da molti anni Alain Touraine si è imposto come uno dei più attenti e fini osservatori del divenire della nostra società. Di libro in libro, con paziente determinazione, il sociologo francese scruta e analizza i caratteri e le trasformazioni di un mondo che, da postindustriale, è ormai diventato «post-sociale». Un'evoluzione che è al centro anche del suo ultimo denso saggio, La fin des sociétés (Seuil, pag.657, euro 28), summa teorica di mezzo secolo di ricerche e analisi, nella quale spiega come il dominio del capitalismo finanziario abbia ormai rimesso in discussionee reso inservibili tutte le costruzioni sociali del passato. Di fronte a questa vera e propria «fine delle società», dove anche i movimenti sociali sembrano non avere più presa sul reale, per lo studioso, che ha da poco compiuto ottantotto anni, non resta che affidarsi alla resistenza etica, unica capace di ridare un senso al vivere e all'agire collettivo.

"Occorre ripartire dai diritti e dalla loro difesa. I diritti stanno al di sopra delle leggi e costituiscono il sociale"

«Una società è sempre determinata da un insieme di pratiche ma anche da un sistema di costruzione della realtà», spiega Touraine, tra i cui saggi più recenti figurano La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore) e Dopo la crisi (Armando).

«In passato, le società si sono pensatee costruite in modo religioso, poi, a partire dal Rinascimento, si sono costruite attraverso il pensiero politico. In seguito, negli ultimi due o tre secoli, la società industriale si è pensata in termini socio-economici, tanto che alla fine società e economia hanno finito per identificarsi».

Negli ultimi decenni cosa è cambiato? «A partire dagli anni Sessanta abbiamo assistito al progressivo declino del capitalismo industriale, dato che una parte sempre più importante dei capitali disponibili hanno smesso di avere una funzione economica. Ha prevalso il capitalismo finanziario e speculativo, che sottrae capitali agli investimenti produttivi. Questa trasformazione del capitalismo ha progressivamente svuotato di senso tutte le categorie politico-sociali con cui eravamo abituati a pensare la società contemporanea. Siamo entrati così in un'epoca post-sociale». Cosa significa? «La società si forma nel momento in cui le risorse economiche acquistano una forma sociale attraverso le istituzioni.

Quando una parte delle risorse non entra più in circolo nella società, le costruzioni sociali si svuotano di contenuto. Oggi tutte le categorie e le istituzioni sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società - Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia - sono diventate inutilizzabili.

Erano figlie del capitalismo industriale.

All'epoca del capitalismo finanziario non corrispondono più a niente. Non ci aiutano più a pensare le pratiche sociali contemporanee e a governare il mondo in cui viviamo. In questo modo, il sociale viene meno». Da qui l'idea della fine delle società? «Il trionfo della finanza speculativa disarma la politica e l'economia, disarticolando le società così come le abbiamo conosciute e pensate finora. Di fronte a questa situazione, alcuni pensano che la società contemporanea sia capace di trasformarsi da sola. Immaginano una società tecnico-operativa, figlia di un capitalismo tecnologico selvaggio, che non ha più bisogno di sistemi concettuali e di categorie sociali. Ma quando si fa a meno dei sistemi di costruzione della realtà, si lascia spazio alla regressione attraverso le pseudo-religioni e le pseudo-politiche, il comunitarismo e l'ossessione dell'identità, l'edonismo individualista sfrenato che alimenta la psicosi e la violenza su se stessi e sugli altri».

"L'idea della politica che prende delle decisioni in nome dell'interesse comune non funziona più" 

Esiste un'alternativa? «Visto che le vecchie categorie sono inutilizzabili, occorre trovarne di nuove.

In particolare, interessandosi alle categorie del soggetto autocosciente. Nella società della riflessività il soggetto occupa una posizione centrale. In passato, il sociale era fondato sull'idea della relazione all'altro, oggi occorre riconoscere la priorità della relazione a se stessi. Essa è fondamentale, creativa e dà un senso alla realtà. Per questa strada, l'individuo può ridiventare un attore sociale. Non più passando dal sociale, dalla politica o dalla religione, ma passando da se stesso, in quanto soggetto».

Sul piano individuale contano la coscienza e la responsabilità...

«Naturalmente. E quando si parla di soggetto si parla di diritti. La fine delle vecchie categorie ha lasciato il vuoto. Siamo come in un teatro dove il pubblico osserva una scena senza attori. Occorre che ogni singolo spettatore si faccia carico della scena, rivolgendosi a se stesso e egli altri spettatori. E al centro della sua riflessione devono esserci i diritti fondamentali, perché i diritti costituiscono il sociale.

Rispetto Stéphane Hessel, ma l'indignazione non basta. Oggi occorre ripartire dai diritti e dalla loro difesa, come già avviene in molte parti del mondo. E come fa anche il nuovo Papa, che sembra adottare volentieri il vocabolario dell'etica. Hannah Arendt ha sottolineato il diritto di avere dei diritti. Io aggiungo che i diritti stanno al di sopra delle leggi».

Attraverso il soggetto è possibile resistere alla fine delle società? «La questione dei diritti è fondamentale per ripensare la società. La libertà, l'uguaglianza, ma anche il diritto alla dignità, che impedisce che il corpo umano possa essere venduto come una merce. La loro difesa ricrea dei legami sociali. Queste preoccupazioni etiche non sono aspirazioni astratte, dato che sono già presenti nella società civile molto di più di quanto non si possa immaginare».

Promuovendo la resistenza etica alla decomposizione del sociale, non si rischia di contrapporre l'etica alla politica? «La contrapposizione oggi è necessaria, dato che quella che chiamiamo "politica" è ormai una realtà molto degradata e travisata. Il carattere nobile dell'azione politica può rinascere solo dall'etica. Non da una politica di classe, non da una politica della nazione, non da una politica degli interessio da una politica del sacro. Utilizzando queste categorie del passato, la politica non sa e non riesce più a parlare alla gente. Diventa afasica».

Come fare allora per reinvestire il sociale e prendere delle decisioni che riguardano tutti? «L'idea della politica che prende delle decisioni in nome dell'interesse comune non funziona più. Oggi occorre partire da un'esigenza etica che si trasforma in azioni concrete e in istituzioni. Si pensi ai diritti delle donne. La condizione femminile è diventata uno degli elementi determinanti per valutare il grado si sviluppo di una società. Secondo me, il solo scopo importante e nobile e della politica è quello di favorire la nascita di nuovi attori sociali. E ciò non è possibile senza passare attraverso il soggetto e i suoi diritti. Solo così si ricrea il sociale. « In questo modo sarà anche possibile restituire vitalità alle nostre democrazie in crisi? «La democrazia, che oggi appare svuotata di senso, potrà ritrovare un significato solo se sapremo creare dei soggetti democratici. Non c'è democrazia se non ci sono convinzioni democratiche. Le istituzioni da sole, senza gli attori che le animano, non possono funzionare. Per questo occorre trasformare gli individui in soggetti capaci di essere degli attori postsociali. È un compito urgente, perché oggi le convinzioni democratiche mi sembrano sempre meno diffuse».

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23 ottobre 2013 3 23 /10 /ottobre /2013 20:36

Ginzburg: "Perché è un errore punire i negazionisti".

Un idea si combatte con un'altra idea (ndr)

Lo storico spiega le ragioni che lo vedono contrario a una norma “Si tratta di un fenomeno ignobile, ma è inaccettabile farne un reato”
di SIMONETTA FIORI - La Repubblica

"Quello contro il negazionismo è un disegno di legge inaccettabile. Reputo grave il modo dilettantesco con cui la classe politica l'ha riproposto, senza tenere conto delle serie obiezioni mosse in passato su questo tema". Carlo Ginzburg è lo storico italiano più conosciuto all'estero. Figlio di due ebrei illustri, Leone e Natalia, ha intercettato nelle sue vaste ricerche il tema del complotto e della persecuzione. "È una materia scottante e molto dolorosa. Ma proprio per questo non ho paura dell'aggettivo "freddo": è mancata un'analisi distaccata, fredda, razionale su un provvedimento che rischia di produrreeffetti gravi".

La nuova legge è ora affiorata in Parlamento in coincidenza di due fatti incrociati: la morte dell'aguzzino Priebke, seguita dalla vicenda tempestosa della sua sepoltura, e il settantesimo anniversario della razzia del Ghetto, con gli oltre mille ebrei condotti a morire.
"Sì, questo duplice contesto ha creato una forte emozione pubblica. Ma le emozioni non sono mai consigliere di buone leggi. E allora la prima operazione che dobbiamo fare è recidere il legame tra questo nuovo disegno di legge e i contesti immediati in cui è stato proposto".

Perché il disegno di legge non la convince?
"Vanno fatte due valutazioni diverse: una riguarda il principio e l'altra l'opportunità. Dico subito che a mio parere entrambe portano a giudicare in maniera negativa questo disegno di legge. Sul piano del principio, è inammissibile imporre per legge unlimite alla ricerca. È un punto di principio che prescinde dal contenuto. Le tesi dei negazionisti sono ignobili dal punto di vista morale e politico e non costituiscono in alcun modo una provocazione sul piano intellettuale. Nessuno storico può essere indotto a rivedere le proprie argomentazioni sulla base di queste tesi. Però sul piano del principio non si possono porre dei limiti alla ricerca. E non sono ammesse eccezioni".

E le ragioni di opportunità?
"I negazionisti sono farabutti in cerca di pubblicità. Cercano un "martirio" a buon mercato e colgono ogni pretesto per farsi propaganda. Nei paesi in cui è stata adottata la legge, i tribunali sono diventati una formidabile cassa di risonanza delle loro tesi. Ma poi si aggiunge una seconda ragione di opportunità, e qui entriamo in un tersireno più delicato".

Quale?
"È quello che investe la ricerca storica. Parlo per esperienza diretta. Mi sono trovato, in un contesto accademico non italiano, a discutere un lavoro che ho definito, con un giudizio messo agli atti, "un caso di negazionismo felpato", morbido. In esso non venivano formulate tesi negazioniste esplicite: però, attraverso una serie di distinguo, si avanzava una conclusione che andava implicitamente in quella direzione. Portare un caso del genere in tribunale sarebbe una follia. Se ne possono immaginare molti altri: la ricerca è fatta di argomentazioni che non s'identificano sempre con l'alternativa tra bianco e nero".

Poi quello del genocidio è un tema di discussione continua tra gli storici. Si fatica a trovare una nozione condivisa.
"Cosa distingue lo "sterminio" dal "qua- sterminio"? Sembra la traduzione tragica di un problema logico posto dai greci: il sofisma del sorite (o del mucchio) detto anche dell'uomo calvo. Se ti strappo un capello, diventi calvo? E se te ne strappo due? O tre? Ora, nel caso del genocidio, non si tratta di capelli immaginari ma di vite umane. A che punto scatta la nozione di genocidio? Mi fa orrore pensare che questo tipo di discussione possa finire in tribunale. Se poi qualcuno arriva a sostenere che quello che è successo in Europa tra il 1941 e il 1945 non è stato un genocidio, allora è inutile discutere: chi pronuncia queste affermazioni si autoesclude dalla comunità storiografica. Ma non si porta alla sbarra".

Il testo della legge è molto generico: punisce chi nega l'esistenza del genocidio ma anche dei crimini di guerra e di quelli contro l'umanità. Indro Montanelli, che ha a lungo negato l'uso del gas iprite in Etiopia, sarebbe finito in galera.
"Sul livello morale di Montanelli rinvio al libro, molto documentato, di Renata Broggini: Passaggio in Svizzera. Certo quello che lei cita è un caso che avrebbe dato origine a un contenzioso giuridico assurdo. Non sono queste le cose da portare in tribunale. Ho l'impressione (ma posso sbagliare) che oggi gli storici italiani siano abbastanza compatti contro la legge. Non c'è unanimità, ma quasi. Anche per questo colpisce la quasi unanimità, ma di segno contrario, della classe politica".

Il dissenso grillino ha riguardato più la modalità di approvazione che il contenuto della legge. Qualcuno tra gli storici si domanda se il negazionismo vada penalmente condannato perché servirebbe a contrastare la possibilità della discrimileggenazione e della persecuzione.
"Non c'è dubbio che l'antisemitismo dichiarato sia oggi molto più presente, in Italia, rispetto a dieci anni fa. Un antisemitismo complesso, in cui confluiscono sia una componente neonazista sia una componente di sinistra, che identifica il capitalismo con la finanza ebraica. Un libro recente di Michele Battini ci ricorda che questo antisemitismo di sinistra ha radici nell'Ottocento, tra i seguaci di Proudhon. E poi c'è una terza componente, più recente, che si nutre dell'ostilità alla politica di Israele nei confronti dei palestinesi. È una politica che mi ripugna: ferocemente ingiusta e (nel lungo periodo) tendenzialmente suicida. Ma l'antisionismo è stato ed è, molto spesso, una maschera dell'antisemitismo".

Questa pericolosa miscela agisce anche in altre parti d'Europa.
"In Italia però l'antisemitismo s'inserisce in un panorama più ampio, caratterizzato da un razzismo vergognoso che, diversamente da quanto succedeva in passato, è entrato a far parte del discorso pubblico. Basti pensare agli insulti contro la ministra Kyenge, che hanno fatto il giro del mondo. Oggi l'immagine dell'Italia nel mondo include anche questo. Potrebbero verificarsi episodi di razzismo ancora peggiori di quelli ai quali assistiamo: ma unache punisse il negazionismo non servirebbe a impedirli".

Adriano Prosperi ha sostenuto che sia la propaganda negazionista sia le leggi improvvide per combatterla sono sintomi di un problema italiano: non aver fatto i conti fino in fondo con la Shoah.
"I crimini compiuti dal nazismo sono stati di gran lunga superiori, per entità, a quelli compiuti dal fascismo. Ma anche il processo di elaborazione si è svolto, nei due paesi, in modo molto diverso. In Italia la Resistenza è stata usata come un alibi per rimuovere il passato. Anche in Germania, nel dopoguerra, c'è stata continuità col nazismo, in alcuni settori: l'università, la burocrazia. E il Sessantotto ha rappresentato una vera cesura: una resa dei conti con la generazione dei padri, compromessa col nazismo. Oggi, un fenomeno ripugnante come quello che si è verificato in Italia  -  un vero sdoganamento del razzismo  -  sarebbe impensabile in Germania".

Al di là del giudizio morale, un tratto che colpisce nel negazionismo è l'aspetto paradossale: a essere negato è uno degli eventi più documentati della storia umana.
"Il negazionismo si alimenta di molte cose: per esempio, del mito del complotto degli ebrei. Da quando in Francia, nel 1321, circolò la voce che i lebbrosi, istigati dagli ebrei, avevano cercato di avvelenare i cristiani, le versioni del complotto sono state innumerevoli, fino ai Protocolli dei Savi Anziani di Sione oltre. È un elemento che differenzia l'antisemitismo da altre forme di razzismo: nessuno ha mai parlato, credo, di complotti dei neri americani contro i bianchi. Ma dietro il fantasma del complotto si legge l'ambivalenza, il timore della superiorità attribuita agli ebrei. E di un complotto della lobby ebraica, ricca e potente, abbiamo sentito parlare anche di recente".

Forse è anche per la sua ambivalenza che la teoria del complotto ebreo trova oggi terreno fertile tra i giovani impauriti di realtà depresse, sul piano economico e culturale. È un fenomeno che vediamo anche in Italia.
"Questo è vero. Basti vedere quel che succede in Ungheria. In una situazione di crisi profonda la proposta di un capro espiatorio preconfezionato può avere successo. Ma a questo pericolo non si risponde con una legge. Il terreno privilegiato per contrastarlo è la scuola".

 

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8 ottobre 2013 2 08 /10 /ottobre /2013 07:52

Vengo da un posto paradisiaco chiamato Swat, nel Nord del Pakistan. Tre anni fa, Swat era nel mirino dei terroristi. Nel gennaio del 2009 i terroristi massacravano due o tre persone innocenti ogni sera. Toglievano alle donne il diritto alla libertà e all' uguaglianza. Facevano saltare in aria le scuole, più di quattrocento. Ci strappavano di mano le penne, e noi dovevamo nascondere i libri sotto la camicia, fare finta che non studiavamo. I cosiddetti Talebani avevano paura della forza delle donne, avevano paura della forza dell' istruzione. In quel periodo, noi non rimanemmo in silenzio: facemmo sentire la nostra voce, facemmo sentire la nostra voce per il diritto all' istruzione. Dicevamo che in quest' epoca moderna non studiare significa non avere strumenti, specialmente i bambini, dicevamo che in quel modo spingevano le donne e le bambine indietro, all' età della pietra. Solo poche persone fecero sentire la loro voce, ma la voce che si levava a chiedere pace e istruzione era forte. Quando nessuno parla e tutto il mondo resta in silenzio, anche una voce sola assume una grande forza. Swat ora è un luogo pacifico: non ci sono terroristi, le scuole sono riaperte e molte bambine vanno a scuola. Cari fratelli e sorelle, voi siete sicuramente molto orgogliosi di studiare e aver studiato in questa prestigiosa università. Questa università ha grandi valori e grandi tradizioni. Questa istituzione dinamica ha illuminato generazioni intere negli ultimi 376 anni. Voi avete sicuramente i vostri sogni, come è vostro pieno diritto. Ma tutti noi, tutti noi dobbiamo avere un sogno in comune: l' istruzione e la pace.

Nel posto da cui vengo, i terroristi massacravano le persone, e noi dovevamo nascondere i libri sotto la camicia. Perché avevano paura dolo di una cosa: dell’istruzione

    Dobbiamo pensare a un futuro radioso, e non dimenticarci che dobbiamo fare moltissimo per i bambini che vivono in Paesi in sofferenza, perché i bambini, e in particolare le bambine, devono fronteggiare molti problemi, come il lavoro minorile, il traffico di minori, la disuguaglianza e le norme e tradizioni culturali. Dobbiamo pensare ai siriani, che sono senza una casa, e ai bambini siriani che non possono studiare. I bambini pakistani e afghani sono vittime del terrorismo. Non dobbiamo dimenticarci che in India i bambini vengono sfruttati sul lavoro. In molti Paesi, come la Nigeria, le bambine sono costrette a sposarsi, e sono vittime della violenza settaria. Non dobbiamo dimenticarci che in molti Paesi africani i bambini non hanno da mangiare e non hanno acqua pulita da bere, e hanno una grande fame di istruzione. Non dobbiamo dimenticarci che le donne non sono nemmeno accettate come esseri umani, che i loro diritti vengono negati o trascurati, anche nei Paesi sviluppati: anche nei Paesi sviluppati alle donne non vengono date le opportunità per progredire ed essere ciò che sono. Ma non siamo qui, fratelli e sorelle, per fare un lungo elenco dei problemi che abbiamo di fronte: noi siamo qui per trovare la soluzione. E la soluzione è una sola, ed è molto semplice: istruzione, istruzione, istruzione. E oggi chiediamo alle potenze mondiali, chiediamo loro di capire che non si può mai mettere fine a una guerra con una guerra. Si possono combattere le guerre attraverso il dialogo e l' istruzione. E chiediamo alle potenze mondiali, se vogliono vedere la pace in Siria, in Pakistan, in Afghanistan, di non mandare fucili, ma penne; di non mandare carri armati, ma libri; di non mandare soldati, ma insegnanti. E ricordiamoci che anche un solo libro, una sola penna, un solo bambino e un solo insegnante possono cambiare il mondo. Oggi dobbiamo sognare! Sognare un futuro radioso, dove ogni bambina e ogni bambino potranno andare a scuola; dove i diritti delle donne saranno riconosciuti e dove ci sarà uguaglianza e giustizia. Difendiamo i nostri diritti, combattiamo per i nostri diritti. Noi saremo il futuro, costruiamo il nostro futuro oggi e trasformiamo i sogni di oggi nella realtà di domani. Tratto dal discorso che la giovane attivista pakistana Malala Yousafzai ha tenuto il 28 settembre a Harvard (Traduzione di Fabio Galimberti)                                                                                                                                                   MALALA     YOUSAFZAI

 

 

Iqbal Masih, pakistano, costretto a fare tappeti, è diventato il simbolo per la lotta contro il lavoro minorile. Nel 1998, a 12 anni, è stato ucciso.

Piccoli leader globali

Da Malala a Timothée: con il linguaggio i piccoli sfidano i gradi della terra. Si oppongono alle guerre, chiedono scuole, denunciano la prtica dei baby soldati o la violenza dei matrimoni imposti. E la rete li incorona leader planetari.

Ragazzini come Ismael che ci hanno fatto scoprire la realtà dei baby soldati. O come Charlie, 9 anni, che ha lanciato una colletta sul web per le vittime del terremoto di Haiti. Poi c’è Nada, da sola su you tube con la sua rivolta contro i matrimoni forzati delle bimbe. Spesso sono i bambini a cambiare il mondo: perché trovano le parole che i grandi hanno perduto

Repubblica 7/10/2013 di Anais Ginori
Quello che non hanno fatto vertici governativi e milioni di euro spesi in campagne pubblicitarie in favore dell’istruzione, lo ha fatto la pakistana Malala Yousafzai. E si può dubitare che qualcuno si sarebbe davvero accorto dell’esistenza di bambini soldati senza la sconvolgente testimonianza di Ishmael Beah, che ha passato l’infanzia imbracciando il fucile tra i ribelli del Sierra Leone.
Sono bambini che muovono il mondo. Scuotono le coscienze, accendono i riflettori, mostrano un coraggio che spesso manca agli adulti. Piccoli leader di grandi battaglie. Mai come oggi, con una crisi di rappresentanza che tocca tutte le istituzioni, la voce dell’infanzia riesce a farsi sentire, è ascoltata come e più di quella di un politico o di una Ong. È un effetto paradossale ma positivo della Rete che mette tutti allo stesso livello, adulti e bambini. Nada, una yemenita di 11 anni, ha postato un video su You-Tube in cui si ribella ai matrimoni forzati nel suo paese. «Allora preferisco morire», ha detto e subito è scattata la mobilitazione. Charlie Simpson, un londinese di 7 anni, è riuscito a lanciare una gigantesca colletta sul web, dopo il terremoto di Haiti nel 2010: alla fine ha raccolto oltre 200 mila sterline.
In altre epoche è già successo. La più toccante e lucida testimonianza sull’Olocausto appartiene alla tredicenne Anna Frank. Uno dei simboli americani della battaglia contro la segregazione razziale è Ruby Bridges che nel 1960, a sei anni, osò entrare in una classe bianca di New Orleans, sopportando insulti e minacce.
Ma oggi questi bambini hanno ancora più visibilità, e quindi forza. Sfruttano comunicazioni rapide e immediate, moltiplicando l’effetto dei loro appelli. «Sono simboli che ci fanno spesso arrivare più lontano di un ambasciatore, un cantante o un leader di governo», osserva Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef. «Il loro messaggio è davvero universale, e ci permette di costruire campagne più globali». Iacomini racconta di aver recentemente partecipato un dibattito sull’accesso all’educazione in Italia. «Tutti citavano Malala, ancora prima che io la nominassi. Mi sono reso conto che molte delle cose che andiamo dicendo da tempo adesso sono finalmente di dominio pubblico, proprio grazie a questa ragazza pakistana». Era accaduto anche con Iqbal Masih, il dodicenne pakistano venduto dal padre per dodici dollari a un fabbricante di tappeti. Il bambino trovò la forza di ribellarsi, scrivendo una lettera di dimissioni e unendosi ai sindacati locali. Iqbal è stato ucciso nel 1995. Ma è diventato un’icona, anche attraverso un bel film trasmesso sulla Rai, per tutte le Ong che lottano contro il lavoro minorile.
«I bambini hanno la resilienza per superare le loro sofferenze, se solo gli viene data la possibilità di farlo», scrive Ishmael Beah in Memorie di un bambino soldato, pubblicato nel 2007. Dopo quel bestseller, Beah è diventato ambasciatore dell’Onu e dell’Unicef, collabora attivamente con Human Rights Watch. In Italia, molti lettori hanno capito quale sia l’odissea dei migranti grazie alla storia del ragazzo afgano Enaiatollah Akbari e al libro
Nel mare ci sono i coccodrilli, scritto insieme a Fabio Geda. «Non sempre funziona», nota Iacomini. La storia di felice integrazione di Rebecca Covaciu, che l’Unicef ha provato a raccontare per smentire i pregiudizi contro i rom, non ha riscosso così tanta attenzione. «Ci sono temi che disturbano comunque, non importa chi li affronta», commenta Iacomini.
Come per Malala, che gira il mondo per conferenze, viene il dubbio che questi “piccoli leader” siano strumentalizzati dagli adulti, seppur a fin di bene. «Intanto non usiamo mai questi bambini-testimoni per campagne di raccolta fondi. Bisogna assolutamente evitare che diventino parte di un business», dice il portavoce dell’Unicef. Per chi si occupa di protezione dell’infanzia, il problema dello sfruttamento dell’immagine di questi minorenni esiste. «Ci preoccupiamo sempre di capire quanto la testimonianza sia autentica »m spiega Valerio Neri, direttore generale di Save The Children Italia. «Abbiamo lavorato spesso con bambini soldato, portandoli a raccontare le loro storie — ricorda Neri — Ma prima cerchiamo di instaurare con loro un rapporto di sincerità, verificando che siano davvero pronti ad esporsi in pubblico ». Save The Children ha aderito alla campagna per l’educazione di Malala, ormai trattata nel mondo come una “star” umanitaria. «Questa ragazza non potrà mai più tornare a una vita normale — continua il direttore dell’Ong — perché la sua testimonianza è anche denuncia: se tornasse nel suo villaggio, la ucciderebbero come hanno già provato a fare». Malala è stata candidata al Nobel per la Pace, che verrà assegnato venerdì. «Sarebbe un fortissimo segnale in favore dell’infanzia e contro la guerra», commenta Neri.
Ormai capita sempre più spesso di assistere a conferenze o eventi umanitari in cui bambini sono chiamati a esprimersi, a dare il loro punto di vista. Usano parole e concetti semplici, diretti, si fanno capire meglio. Quasi che le generazioni, i tradizionali ruoli, si fossero ribaltati. Tra gli invitati della Ted Conference c’è stata anche la scrittrice americana Adora Svitak, 12 anni, autrice di diversi libri e di un blog seguitissimo. «Il mondo ha bisogno di pensare in maniera infantile», ha detto Adora. Servono idee audaci, ha continuato, una creatività selvaggia e, specialmente, ottimismo. Chi ha il dovere di lottare per il futuro, se non loro?
Uno dei primi discorsi “globali” di una minorenne fu quello della canadese Severn Cullis-Suzuki, che nel 1992 fece calare il silenzio tra le centinaia di delegati riuniti al vertice internazionale per l’ambiente a Rio de Janeiro. «Sono solo una bambina, non ho tutte le soluzioni, ma mi chiedo se siete coscienti del fatto che non le avete neppure voi: non sapete come riparare il buco dell’ozono o come riportare i salmoni in un fiume inquinato.
Se non avete idea di come riparare tutto questo, per favore smettete di distruggerlo». Anche Severn aveva solo 12 anni. Molti pensarono allora che quelle sue parole avevano messo i “grandi” con le spalle al muro: ora o mai più il momento di decidere misure per salvare la Terra. Non è andata così. Ma vent’anni dopo, il suo video è tuttora cliccato su YouTube, è stato addirittura musicato in una canzone. Certo, Severn non ha risolto i problemi del mondo ma nessun adulto può vantarsi di aver espresso così bene la posta in gioco.

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6 settembre 2013 5 06 /09 /settembre /2013 13:38

Quel giorno ero là, devo a lui il Nobel di Joseph E. Stiglitz in “la Repubblica” del 29 agosto 2013

Ho avuto la fortuna di trovarmi tra la folla a Washington il giorno in cui il Reverendo Dottore Martin Luther King Jr. tenne il suo entusiasmante discorso “I Have a Dream”, il 28 agosto 1963. Avevo vent’anni, appena diplomato al college e qualche settimana dopo avrei iniziato gli studi perla laurea in economia al Massachusetts Institute of Technology. La sera prima della Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà ero stato ospite a casa di un compagno di college, figlio di Arthur J. Goldberg, giudice associato della Corte Suprema, che era impegnato a realizzare la giustizia economica. Chi avrebbe mai immaginato che, 50 anni dopo, quello stesso organo, allora apparentemente deciso a dar vita a un’America più giusta e aperta, sarebbe diventato lo strumento per mantenere le diseguaglianze: onsentendo alle imprese di destinare somme pressoché illimitate al fine di influenzare le campagne politiche, dando a intendere che il retaggio della discriminazione elettorale non esiste più e limitando il diritto dei lavoratori e di altri ricorrenti a denunciare gli imprenditori e le società per cattiva condotta?

Il discorso di King evocò in me molte emozioni. Per quanto fossi giovane e con le spalle coperte, facevo parte di una generazione che si rendeva conto delle ingiustizie ereditate dal passato e si impegnava a correggere quei torti. Nato durante la seconda guerra mondiale, sono diventato adulto mentre la società americana era pervasa da cambiamenti poco appariscenti ma inequivocabili. In qualità di presidente del consiglio degli studenti dell’Amherst College, avevo condotto un gruppo di alunni a sud per partecipare alle manifestazioni di pressione a favore dell’integrazione razziale.Non riuscivamo a capire la violenza di chi voleva mantenere il vecchio sistema di segregazione. La visita ad un college riservato ai neri ci aprì gli occhi sulla disparità di opportunità educative degli studenti di laggiù rispetto a quelle di cui godevamo noi, nel nostro college privilegiato. Era come giocare su un campo mal livellato, ed era fondamentalmente ingiusto. Si trattava di un camuffamento dell’idea di sogno americano con cui eravamo cresciuti e in cui credevamo. Fu perché speravo che si potesse fare qualcosa per risolvere questi ed altri problemi, così familiari a uno come me cresciuto a Gary, nell’Indiana (povertà, disoccupazione temporanea e permanente, discriminazioni senza fine ai danni degli afroamericani) che decisi di diventare un economista, Ben presto scoprii di essere entrato in una strana tribù. Erano pochi gli accademici (inclusi parecchi dei miei insegnanti) che avevano profondamente a cuore le tematiche che mi avevano condotto a questa scelta, la maggior parte non si preoccupava delle diseguaglianze; la scuola dominante idolatrava (senza averlo compreso ) Adam Smith, inchinandosi al miracolo dell’efficienza dell’economia di mercato. Io pensavo che se quello era il migliore dei mondi possibili volevo costruire un mondo diverso in cui vivere.

Nello strano mondo dell’economia la disoccupazione (se esisteva) era colpa dei lavoratori. Un economista della scuola di Chicago , il premio Nobel Robert E. Lucas Jr., avrebbe scritto in seguito: «Tra le tendenze che nuocciono ad un’economia sana la più seduttiva e, a mio avviso, la più velenosa, è concentrarsi sul problema della distribuzione». Un altro premio Nobel della scuola di Chicago, Gary S. Becker, tentava di dimostrare che sui mercati del lavoro realmente competitivi la discriminazione non poteva esistere. Mentre io ed altri scrivevamo pubblicazioni per spiegare i sofismi di queste argomentazioni la sua tesi trovava orecchie attente. Come tanti altri, guardando ai 50 anni passati, non posso che essere colpito dal divario tra le nostre aspirazioni di allora e i risultati ottenuti.È vero, un “soffitto di vetro” è stato infranto: abbiamo un presidente afroamericano. Ma King capì che la lotta per la giustizia sociale doveva essere concepita in termini ampi. Non era solo una battaglia contro la segregazione razziale, ma per una maggiore eguaglianza e giustizia per tutti gli americani. Non per nulla gli organizzatori, Bayard Rustin e A. Philip Randolph, avevano dato alla manifestazione il nome di “Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà”.Sotto molti aspetti il progresso nei rapporti razziali era stato minato, persino rovesciato, dal crescere della disparità economica nell’intero Paese. La battaglia contro la discriminazione esplicita, purtroppo, è tutt’altro che terminata: a 50 anni di distanza dalla Marcia e 45 anni dopo l’approvazione del Fair Housing Act (che proibisce la discriminazione nella vendita, affitto e finanziamento di alloggi ndt) le grandi banche statunitensi, come la Wells Fargo, continuano ad attuare discriminazioni in base alla razza, prendendo di mira nelle loro predatorie attività di finanziamento i più vulnerabili dei nostri concittadini. La discriminazione sul mercato del lavoro è permeante e profonda. Dagli studi emerge che i candidati con nomi che evocano origini afroamericane ricevono un numero minore di convocazioni a colloqui. La discriminazione assume nuove forme; in molte città americane le forze dell’ordine agiscono ancora in base a pregiudizi razziali, ad esempio con fermi e perquisizioni, che a New York sono diventati la regola. Il tasso di detenzione in America è il maggiore del mondo, anche se finalmente pare che gli Stati a corto di fondi inizino a capire quanto sia folle, se non inumano, sprecare tanto capitale umano attraverso la detenzione di massa. Quasi il 40 per cento dei detenuti sono neri. Questa tragedia è stata validamente documentata da Michelle Alexander ed altri giuristi. I numeri parlano da soli: non è stato colmato significativamente il divario tra il reddito degli afroamericani (o ispanici) e quello degli americani bianchi negli ultimi 30 anni. Nel 2011, il reddito medio delle famiglie nere era di 40,495 dollari, pari al solo 58 percento del reddito medio delle famiglie bianche. Passando dal reddito al patrimonio si riscontra ancora una forte ineguaglianza. Arrivati al 2009 la ricchezza media dei bianchi era venti volte superiore a quella dei neri. La Grande recessione del 2007-9 ha colpito particolarmente gli afroamericani (come avviene in genere per chi si trova al livello più basso della scala sociale). Tra il 2005 e il 2009 la loro ricchezza media è diminuita del 53 per cento, più del triplo rispetto a quella dei bianchi: un divario record. Ma la cosiddetta ripresa è stata poco più di una chimera: più del 100 per cento dei guadagni è andato all’un per cento al vertice della scala sociale, un gruppo in cui, inutile dirlo, non si annoverano molti afroamericani. Chissà come si sarebbe svolta la vita di King se non fosse stata interrotta bruscamente dal proiettile di un assassino. Trentanovenne al momento della morte, oggi avrebbe 84 anni. Probabilmente avrebbe approvato i tentativi del presidente Obama di riformare la sanità americana e di tutelare la sicurezza sociale per gli anziani, i poveri e i disabili, ma è difficile immaginare che un uomo di tale statura morale avrebbe guardato all’America di oggi con un atteggiamento che non fosse di angoscia. Al di là della retorica sul Paese delle opportunità, le prospettive di un giovane americano dipendono più dal reddito e dal livello di istruzione dei suoi genitori di quanto non avvenga in quasi tutti gli altri Paesi avanzati. Così il retaggio di discriminazione e mancanza di opportunità educative e lavorative si perpetua da una generazione all’altra. Data questa carenza di mobilità, il fatto che ancora oggi il 65 per cento dei bambini afroamericani viva in famiglie a basso reddito non fa presagire bene per il loro futuro e quello della nazione. Gli uomini con il solo diploma di scuola superiore hanno visto diminuire enormemente il loro reddito reale negli ultimi vent’anni, un declino che ha interessato a dismisura gli afroamericani. La segregazione esplicita su base razziale nelle scuole è proibita dalla legge ma in realtà la segregazione nell’istruzione si è accentuata negli ultimi decenni, come hanno documentato Gary Orfield ed altri studiosi. In parte il motivo è che il Paese registra una maggior segregazione economica. E più probabile che i bambini neri poveri vivano in comunità in cui la povertà è concentrata. Stando ai dati forniti dall’Economic Policy Institute sono circa il 45% , contro il 12% dei bambini poveri bianchi. Quest’anno ho compiuto i settanta. Gran parte della mia attività accademica e pubblica negli ultimi decenni – incluso il servizio presso il Consiglio dei consulenti economici dell’amministrazione Clinton e, in seguito, presso la Banca Mondiale, è stata dedicata alla riduzione della povertà edell’ineguaglianza. Spero di aver saputo rispondere all’appello lanciato da King mezzo secolo fa.King aveva ragione quando diceva che il persistere di queste discrepanze è un cancro nella nostra società, mina la nostra democrazia e indebolisce la nostra economia. Il suo messaggio era che le ingiustizie del passato si potevano evitare. Ma sapeva anche che sognare non bastava.

© The New York Times 2013 (Traduzione di Emilia Benghi)

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