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17 novembre 2014 1 17 /11 /novembre /2014 17:50

“Venticinque anni fa qui vinse un sogno ora la mia Berlino lo insegni al mondo”,

Daniel Baremboin – La Repubblica

Gli intellettuali hanno una visione più chiara della realtà o sono più coraggiosi (ndr)

A distanza di 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine della Guerra fredda, la comunità internazionale si trova a dover far fronte a una serie di sfide senza precedenti. Nei titoli dei giornali e nella nostra coscienza collettiva predominano carestie, crisi come l’epidemia di Ebola, e incalcolabili focolai di conflitto in Medio Oriente, Africa ed Europa orientale. Il mondo pare quanto mai indifeso e i nostri governi sono divisi sulle modalità con le quali porre rimedio ai problemi. In tutto il mondo milioni di persone sono in movimento, fuggono da guerre, fame, repressione e povertà, e i paesi europei, in particolare la Repubblica Federale, appaiono loro come l’ultimo rifugio sicuro. Il pericolo che incombe sulle ricche nazioni occidentali è un’emergenza tanto morale quanto sociale. In questi tempi difficili, il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro è un momento appropriato per riflettere sulla situazione del mondo odierno e sulle responsabilità che ricadono sull’Europa tutta e specificatamente sulla Germania, riunificata da un quarto di secolo.

Il crollo dell’Unione Sovietica e la prospettiva di un nuovo ordine mondiale hanno segnato la fine di un equilibrio precario e l’inizio di un’apparente unipolarità dominata dall’Occidente – prima di tutto dagli Stati Uniti, seguiti dai paesi europei. Quando i sistemi capitalistici e democratici occidentali hanno preso il sopravvento, si sarebbe potuta venire a creare una chiara egemonia degli Usa e dell’Occidente, che avrebbe potuto plasmare la politica internazionale della nuova era. Invece, l’Occidente non è stato capace di affermarsi come leader globale. Con la mancanza di coesione, uno sconsiderato tripudio ideologico, e il suo fallimento morale in crisi internazionali come il genocidio in Ruanda e l’illegittima invasione dell’Iraq con gli scandali di Abu Ghraib e di Guantanamo, gli Stati Uniti d’America in particolare poco alla volta hanno abdicato all’autorità morale e politica che si erano saputi costruire in Europa con il piano Marshall all’indomani della Seconda guerra mondiale. Anche il sistema capitalistico ha le sue pecche, e l’occasione di dar vita a un sistema nuovo e sostanziale che incorporasse gli aspetti positivi di socialismo, capitalismo e democrazia non è stata colta. Non ultimi, gli attentati dell’11 settembre 2001 e la guerra al terrorismo che ha sprofondato un’intera regione in crisi senza fine, dimostrano che la posizione di potere dell’Occidente è radicalmente mutata. Oggi il mondo sembra privo di timoniere. Sorprende poco, di conseguenza, che perfino i piccoli conflitti locali si espandano e degenerino, andando fuori controllo. L’11 settembre, le guerre in Medio Oriente e in Ucraina: sarebbero stati inconcepibili se l’Occidente avesse trovato un nuovo equilibrio e avesse tenuto fede alle sue nuove responsabilità dopo la fine della Guerra fredda. Invece siamo in presenza di un vuoto di potere internazionale. Sono convinto che l’Europa in generale e la Germania in particolare in tempi così difficili debbano farsi maggiormente carico delle responsabilità.

Per molto tempo – e senza dubbio per ottimi motivi – la Germania si è rifiutata di assumere un ruolo di leader, preferendo una politica basata sul consenso e la cooperazione, soprattutto quando c’è di mezzo l’Unione europea. In futuro, la Germania non dovrebbe agire da sola, ma potrà in ogni caso prendere parte più attiva agli affari esteri di quanto abbia fatto finora.

Il successo della ricostruzione della Germania dopo la Seconda guerra mondiale fu possibile solo con l’aiuto internazionale. Ciò comporta una responsabilità, e nessun paese ne è più consapevole della Repubblica Federale, che adesso è nella posizione di poter fornire aiuto ai popoli che nel mondo soffrono e scappano. E dovrebbe farlo. La storia recente della Germania è la storia del successo della democrazia e di conseguenza alla Repubblica Federale spetta il compito di offrire ad altri popoli e Paesi una possibilità per ricostruire le loro nazioni e le loro vite.

Io, ebreo, ho vissuto a Berlino negli ultimi 23 anni, e non sarebbe stato possibile se non avessi creduto che i tedeschi hanno riflettuto a lungo e seriamente sul passato. Nessun altro è riuscito a farlo nella stessa misura, e per questo li ammiro. Ma l’auto-riflessione non dovrebbe precludere un impatto sulla politica estera.

La Germania ha un approccio di poco conto sul conflitto israelo-palestinese, perché non vuole urtare le suscettibilità a causa del suo rapporto con Israele. Ma se deve esserci una soluzione al conflitto, la Germania deve fare qualcosa: può e dovrebbe esercitare pressioni politiche su Israele. Dopo tutto, stiamo parlando del futuro intellettuale e politico dello Stato di Israele. La logica alla base di questo ragionamento è semplice: la Germania è impegnata nei confronti della sicurezza dello stato di Israele, ma ciò è possibile a lungo termine solo se il futuro del popolo palestinese sarà garantito in un suo stato sovrano. Se ciò non accadrà, le guerre e la storia di quella regione continueranno a ripetersi e proseguirà questo stallo intollerabile. C’è stato un uomo che non si è fatto illusioni in proposito, ed era il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin: «Sono stato un soldato e so che Israele può vincere guerre contro la Siria, il Libano e l’Egitto e forse sconfiggerli anche tutti insieme, contemporaneamente. Ma Israele non potrà vincere una guerra contro il popolo palestinese. Il mio primo dovere è proteggere la sicurezza del popolo israeliano e potrò onorare tale impegno soltanto se faremo pace con i palestinesi ». È stata proprio questa opinione, espressa in pubblico, a costare la vita a Rabin. Compito della Germania, in qualità di Paese leader nel mondo, è far comprendere con chiarezza questo dato di fatto al governo di Israele: che il futuro a lungo termine di Israele dipende dalla volontà del suo governo di firmare un genuino accordo di pace con i palestinesi. E va sottolineato che altrettanto occorrerà far comprendere ai palestinesi radunati attorno a Hamas. Entrambe le parti in causa devono capire che dovranno convivere, nel bene e nel male, e che l’odio, il terrore e l’esclusione territoriale, etnica e religiosa non hanno mai prodotto la pace, ma hanno causato invece sempre più morti. Anche questa è una lezione che la Germania, più di molti altri Paesi, ha appreso a caro prezzo. Ed è una lezione che potrebbe e dovrebbe improntare la politica estera della Repubblica Federale. (Traduzione di Anna Bissanti)

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10 novembre 2014 1 10 /11 /novembre /2014 18:03

Beni confiscati alle mafie, quando il tesoro dei boss diventa impresa sociale

Da Nord a Sud, i beni sequestrati e confiscati alle mafie nell'ultimo anno valgono come un quarto della prossima finanziaria; per legge devono essere riutilizzati per la collettività, ma mostrano prima di tutto che le cosche possano essere sconfitte. Il caso dell'agrumeto di una cooperativa sociale bruciato dalla 'ndrangheta e i dati forniti da don Ciotti: il 61% dei disoccupati è disposto a lavorare in un'attività collusa con la criminalità organizzata.

"Riprendiamoci il maltolto": recitava così la campagna di Libera che nel 1996 portò, con oltre un milione di firme raccolte, all'approvazione della legge sull'uso sociale dei beni confiscati alle mafie. "Andate a cercare dove investono il denaro, confiscate i beni e restituiteli alla comunità mi disse più di trent'anni fa il generale Dalla Chiesa", ricorda don Luigi Ciotti. Secondo il Ministero dell'Interno, sono 10.769 (di cui 709 aziende) i beni sequestrati e 3.513 (161 aziende) quelli confiscati in solo un anno, dal 1 agosto 2013 al 31 luglio 2014. Questo "tesoretto" vale 7 miliardi di euro, cioè un quarto della prossima Finanziaria o quanto lo Stato spende per l'intero sistema universitario. Tra le prime sei regioni interessate, ci sono l'Emilia Romagna e la Lombardia, a conferma di come non sia un fenomeno solo meridionale. A Milano, le ultime inaugurazioni sono un centro diurno per giovani, in un un'ex tavola calda usata come base dello spaccio nel quartiere Stadera, e la "Casa della legalità" in via Curtatone.

La pizzeria nel covo del boss e l'uliveto intitolato a Rita Atria. Se ne è parlato ieri al convegno "Fare impresa sociale e buona economia con i beni confiscati alle mafie si può!", organizzato a Milano dall'Unicredit Foundation in collaborazione con Libera. Nell'ultimo anno e mezzo, la Fondazione bancaria ha stanziato 1 milione e 200mila euro per sostenere dieci progetti in varie regioni italiane. Gli ultimi sono per la pizzeria "Wall Street" di Lecco, sorta nel covo che il boss della 'ndrangheta Franco Coco Trovato usava per riciclare denaro sporco, gestire traffici di droga, ordinare agguati, e per la cooperativa "Rita Atria" di Trapani, che si è vista distruggere gli ulivi di un terreno che ha in gestione e che prima apparteneva ad un boss. Del resto, il solo nome dell'attività è una sfida alla mafia: Rita è la diciassettenne, figlia di un mafioso ucciso da una cosca rivale, che nel 1991 decise di non lasciare che la verità "passeggiasse" per Partanna (Tp) senza che nessuno parlasse. Andò da Paolo Borsellino, a cui si legò come un padre, e raccontò tutto ciò che sapeva. Ma una settimana dopo che il giudice venne ucciso, si buttò dal settimo piano dell'appartamento di Roma dove viveva in segreto. Nessuno andò al funerale, la madre l'aveva ripudiata e andò al cimitero solo per distruggere la sua lapide a martellate.

Quando le mafie ti bruciano l'agrumeto. "L'uso sociale dei luoghi confiscati - spiega la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli - è la miglior bandiera della legalità perché mostra che vincere le mafie è possibile". Secondo don Ciotti, "questi beni diventano un'occasione di rigenerazione quando fanno nascere speranza, dignità e lavoro, nel segno di un'economia che non dimentica il senso etico d'impresa per il bene comune". Non mancano le difficoltà, specie al Sud, dove gli appezzamenti agricoli si prestano bene alle rappresaglie delle cosche. Lo racconta Giuseppe Carrozza del consorzio Terre del sole, che a Placanica di Melito Porto Salvo, provincia di Reggio Calabria, gestisce un terreno confiscato con 2100 alberi di agrumi e di bergamotto, alla base dell'industria profumiera. "Nel giugno 2013 - spiega - un incendio doloso ha distrutto buona parte delle piante; sono seguiti danni e attentati alle condutture d'acqua, in una zona dove il controllo delle risorse idriche è decisivo". A Isola Capo Rizzuto, in un terreno del clan Arena passato in gestione a Libera, nessuno voleva trebbiare l'orzo, finché non intervenne la Forestale.

La questione è di carattere giudiziale poiché il funzionario che ha in gestione i beni sequestrati finora ha avuto la preoccupazione di conservarli, mentre se viene confiscato un supermercato o una clinica sanitaria il problema è immetterli nel mercato: Finché il bene era in mano alla mafia questa trovava i fornitori, i clienti, i finanziamenti. Reimmetterli nel mercato vuol dire trovare dei professionisti e degli imprenditori che li gestiscono. Per questo è necessario un finanziamento iniziale che consenta di gestire l’operazione. Per tutti i beni si può pensare a un fondo statale adeguato ad hoc altrimenti l’operazione non parte e le persone che prima avevano un lavoro si trovano ora disoccupate. Questa è la sfida di fondo. Solo con un fondo adeguato e del personale adeguato si può pensare anche ad un futuro in cui ci possano essere degli autofinanziamenti con lo sviluppo del settore (ndr)

Fino a dieci anni per assegnare i beni confiscati. Tra i problemi, c'è anche la lentezza dello Stato. Occorrono in media cinque anni, a volte anche dieci, prima che il tesoro dei boss venga assegnato alle associazioni. In tutto questo tempo, i beni rischiano di rovinarsi e perdere valore. Molti puntano il dito contro l'Agenzia nazionale per i beni confiscati e sequestrati, con sede principale a Reggio Calabria e altre a Roma e Milano. Quella lombarda, inaugurata tre anni fa come l'avamposto della lotta alle mafie al Nord, oggi conta sul lavoro di solo due funzionari, meno della metà rispetto al 2011. Secondo Roberto Maroni, che istituì l'Agenzia quando era al Viminale, "la sua funzione è indispensabile, ma certo occorre maggiore efficienza e personale più preparato". È d'accordo il ministro delle Politiche agricole Martina, anche lui intervenuto al convegno di ieri annunciando che gli alimenti delle terre confiscate saranno presenti nel Padiglione Italia dell'Expo.

 

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18 agosto 2014 1 18 /08 /agosto /2014 13:18

  
Gad Lerner         Henk Zanoli

 

 

 Sembra la trama di un romanzo e invece è un tragico passaggio fra due secoli quello che ha scelto di fronteggiare, con portamento tuttora fiero nonostante i suoi 91 anni, Henk Zanoli: l'avvocato olandese proclamato Giusto fra le nazioni che per senso di giustizia ripudia l'onore concessogli a Gerusalemme da Yad Vashem. Così rendendo omaggio all'insieme di una straordinaria biografia: dapprima la sua famiglia, che fra il 1943 e il 1945 mise a repentaglio la vita pur di salvare un bambino ebreo; e ora i suoi acquisiti congiunti palestinesi uccisi il 20 luglio scorso dal bombardamento israeliano di Gaza. Di mezzo ci sono sette decenni, l'intreccio di quattro generazioni e il dilemma morale che lacera le nostre coscienze: l'Israele di oggi, l'Israele che c'è, non sta forse gettando un'ombra sinistra sull'eterno Israele messianico luogo di salvezza? Si chiamava Elhanan Pinto il bambino ebreo sottratto dai Zanoli alla furia nazista che già gli aveva strappato i genitori e i fratelli. Per decisione della madre Johana, l'allora ventenne Henk Zanoli andò a prenderlo in custodia a Amsterdam e con un viaggio avventuroso riuscì a nasconderlo per due anni nella casa di famiglia a Eemnes, nei pressi di Utrecht. Nel mentre che il padre Zanoli, di cui Henk porta orgogliosamente il nome, veniva deportato a Mauthausen, da dove non avrebbe più fatto ritorno. Elhanan, il salvato, nel dopoguerra, sarebbe approdato in Israele. Il destino ha voluto che una nipote di Henk Zanoli, Angelique Eijpe, entrata nel corpo diplomatico olandese, sposasse un palestinese nato nel campo profughi di Al-Bureij nella Striscia di Gaza. Dove una bomba israeliana ha distrutto la casa dei nuovi parenti di Angelique, che naturalmente Henk sente anche suoi: Muftiya, Jamil, Omar, Youssef, Bayan e il dodicenne Shaaban. Sei morti fra le macerie. Cosi Henk Zanoli ha deciso di chiedere appuntamento all'ambasciatore dello Stato d'Israele presso il Regno d'Olanda e gli ha restituito la medaglia di Giusto fra le nazioni— Chasidei umot haolam in ebraico — il riconoscimento più alto tributato da Israele, dopo lunga istruttoria, a quei Gentili che, senza chiedere nulla in cambio, hanno rischiato la loro vita per salvare anche uno solo dei perseguitati. La scelta compiuta dal Giusto, che tale naturalmente rimane, è terribile e nobile al tempo stesso. Come la lettera con cuil'ha motivato. Scelta terribile perché, anche senza volerlo, ripropone un'insidiosa, ambigua comparazione fra i crimini di cui furono vittime gli ebrei settant'anni fa in Europa, e gli atti criminali compiuti nel corso di azioni di guerra dallo Stato che di quelle vittime si sente erede e portavoce. Scelta nobile perché investe la sua autorevolezza nel denunciare l'ottenebrarsi delle coscienze, spinte atollerare come necessari la strage dei civili e la prospettiva dell'apartheid. «Conservare l'onorificenza concessami dallo Stato d'Israele in queste circostanze — ha scritto Henk Zanoli all'ambasciatore—sarebbe un insulto alla memoria della mia coraggiosa madre così come un insulto alle ultime quattro generazioni della miafamiglia». Ma non basta È qui che Zanoli introduce l'argomento più controverso: «Dopo l'orrore della Shoah la mia famiglia ha sostenuto con forza il popolo ebraico anche riguardo alle sue aspirazioni a un focolare nazionale. Ma in più di sei decenni ho cominciato a realizzare che il progetto sionista fin dall'inizio conteneva in sé un elemento razzista mirante a costruire uno Stato esclusivamente per gli ebrei». Credo sia necessario dissentire da questo passaggio. L'esclusivismo negatore di una possibile convivenza con gli arabi di Palestina fu teorizzato solo da una corrente interna al movimento sionista, da altri contrastato, e dunque non ne rappresentava un esito inevitabile. Il che non toglie che riesca arduo disgiungere l'anelito di redenzione, l'impronta socialista e ugualitaria del movimento di liberazione ebraico, da quell'altro ineludibile dato di fatto che Ari Shavit, nel suo bel libro La mia terra promessa ( Sperling & Kupfer) ha avuto la franchezza di definire «la brutalità sionista». Henk Zanoli, dall'alto della sua veneranda età, potrebbe testimoniare che le violenze perpetrate nella prima metà del secolo scorso in Palestina apparivano poco più che un dettaglio della storia, al cospetto del genocidio di milioni di ebrei di cui allora l'Europa portava freschissima la macchia. II problema è che quella brutalità si sarebbe perpetuata nei decenni successivi, fino a oggi, quando il mondo ( per fortuna ) fatica a sopportarla. Henk Zanoli non è il primo testimone a coinvolgere Yad Vashem, cioè la suprema istituzione che elabora e onora la memoria della Shoah, nel confronto con le guerre mediorientali. Pochi ricordano il sopravvissuto ai lager, Shlomo Schmalzman, che nell'estate 1982, quando Begin e Sharon scatenarono uri offensiva portando le truppe di Tsahal fino alla conquista di Beirut, sali sul monte Herzl a Gerusalemme e, all'interno di Yad Vashem, intraprese uno sciopero della fame. Voleva cosi protestare contro l'osceno strumentale paragone con cui il premier Begin aveva sostenuto: «L'alternativa all'attacco in Libano è Treblinka". Durante quella stessa guerra un comandante di brigata, Eli Geva, rifiutò di guidare le sue truppe alla presa di Beirut partecipando da soldato semplice per evitare insinuazioni sul suo coraggio. Ancora oggi una delle voci più note del dissenso israeliano, la giornalista di Haaretz Amira Hass, rivendica la sua opera di denuncia delle discriminazioni inflitte ai palestinesi come tributo all'esperienza vissuta dai suoi genitori: la madre deportata a Bergen Belsen; il padre rinchiuso nel ghetto di Shogorad. Né va dimenticato un predicatore del dialogo come Marek Halter - che non esita a incontrare i dirigenti di Hamas presentandosi loro come sopravvissuto del ghetto di Varsavia. La forza del gesto di Henk Zanoli ripropone l'insidia dei paragoni storici. Può davvero esistere un buon uso, non strumentale di simili comparazioni? Quante volte, in malafede, si è calpestato perfino il più elementare senso delle proporzioni? In Europa oltre 5 milioni di morti in quattro anni, in Palestina centomila morti in un secolo... Una risposta la fornì a suo tempo il sopravvissuto vicecomandante della rivebrei polacchi sterminati. Nel 1993 decise di accompagnare fin dentro a Sarajevo assediata un convoglio di aiuti umanitari. Diciamo che si è proposto egli stesso come "allusione" necessaria. Se serve, a fin di bene, con la dovuta cautela, in casi eccezionali, i Giusti possono violare il paradigma sacrale dell'unicità dello sterminio che ha sfregiato l'Europa. Di fronte agli armeni, agli zingari, ai cambogiani, ai tutsi, agli yazidi, ai milioni di profughi di nuovo oggi in fuga dalle loro case, chi mai avrebbe titolo per proibirlo? Un tragico destino ha voluto che all'età di 91 anni la vita romanzesca dell'avvocato olandese Henk Zanoli giungesse a racchiudere in sé una multipla appartenenza: vittima del nazismo che gli ha ucciso il padre, coraggioso amico e salvatore degli ebrei, prozio acquisito dei palestinesi di Gaza. Mi auguro che nel Giardino dei Giusti a Yad Vashem il suo albero cresca rigoglioso. Egli consegna una testimonianza preziosa, se saprà accoglierla, innanzitutto alla coscienza lacerata d' Israele. L'Israele che è in noi, offuscato dall'Israele che c'è.  

  
Gad Lerner         Henk Zanoli

Sembra la trama di un romanzo e invece è un tragico passaggio fra due secoli quello che ha scelto di fronteggiare, con portamento tuttora fiero nonostante i suoi 91 anni, Henk Zanoli: l'avvocato olandese proclamato Giusto fra le nazioni che per senso di giustizia ripudia l'onore concessogli a Gerusalemme da Yad Vashem. Così rendendo omaggio all'insieme di una straordinaria biografia: dapprima la sua famiglia, che fra il 1943 e il 1945 mise a repentaglio la vita pur di salvare un bambino ebreo; e ora i suoi acquisiti congiunti palestinesi uccisi il 20 luglio scorso dal bombardamento israeliano di Gaza. Di mezzo ci sono sette decenni, l'intreccio di quattro generazioni e il dilemma morale che lacera le nostre coscienze: l'Israele di oggi, l'Israele che c'è, non sta forse gettando un'ombra sinistra sull'eterno Israele messianico luogo di salvezza? Si chiamava Elhanan Pinto il bambino ebreo sottratto dai Zanoli alla furia nazista che già gli aveva strappato i genitori e i fratelli. Per decisione della madre Johana, l'allora ventenne Henk Zanoli andò a prenderlo in custodia a Amsterdam e con un viaggio avventuroso riuscì a nasconderlo per due anni nella casa di famiglia a Eemnes, nei pressi di Utrecht. Nel mentre che il padre Zanoli, di cui Henk porta orgogliosamente il nome, veniva deportato a Mauthausen, da dove non avrebbe più fatto ritorno. Elhanan, il salvato, nel dopoguerra, sarebbe approdato in Israele. Il destino ha voluto che una nipote di Henk Zanoli, Angelique Eijpe, entrata nel corpo diplomatico olandese, sposasse un palestinese nato nel campo profughi di Al-Bureij nella Striscia di Gaza. Dove una bomba israeliana ha distrutto la casa dei nuovi parenti di Angelique, che naturalmente Henk sente anche suoi: Muftiya, Jamil, Omar, Youssef, Bayan e il dodicenne Shaaban. Sei morti fra le macerie. Cosi Henk Zanoli ha deciso di chiedere appuntamento all'ambasciatore dello Stato d'Israele presso il Regno d'Olanda e gli ha restituito la medaglia di Giusto fra le nazioni— Chasidei umot haolam in ebraico — il riconoscimento più alto tributato da Israele, dopo lunga istruttoria, a quei Gentili che, senza chiedere nulla in cambio, hanno rischiato la loro vita per salvare anche uno solo dei perseguitati. La scelta compiuta dal Giusto, che tale naturalmente rimane, è terribile e nobile al tempo stesso. Come la lettera con cuil'ha motivato. Scelta terribile perché, anche senza volerlo, ripropone un'insidiosa, ambigua comparazione fra i crimini di cui furono vittime gli ebrei settant'anni fa in Europa, e gli atti criminali compiuti nel corso di azioni di guerra dallo Stato che di quelle vittime si sente erede e portavoce. Scelta nobile perché investe la sua autorevolezza nel denunciare l'ottenebrarsi delle coscienze, spinte atollerare come necessari la strage dei civili e la prospettiva dell'apartheid. «Conservare l'onorificenza concessami dallo Stato d'Israele in queste circostanze — ha scritto Henk Zanoli all'ambasciatore—sarebbe un insulto alla memoria della mia coraggiosa madre così come un insulto alle ultime quattro generazioni della miafamiglia». Ma non basta È qui che Zanoli introduce l'argomento più controverso: «Dopo l'orrore della Shoah la mia famiglia ha sostenuto con forza il popolo ebraico anche riguardo alle sue aspirazioni a un focolare nazionale. Ma in più di sei decenni ho cominciato a realizzare che il progetto sionista fin dall'inizio conteneva in sé un elemento razzista mirante a costruire uno Stato esclusivamente per gli ebrei». Credo sia necessario dissentire da questo passaggio. L'esclusivismo negatore di una possibile convivenza con gli arabi di Palestina fu teorizzato solo da una corrente interna al movimento sionista, da altri contrastato, e dunque non ne rappresentava un esito inevitabile. Il che non toglie che riesca arduo disgiungere l'anelito di redenzione, l'impronta socialista e ugualitaria del movimento di liberazione ebraico, da quell'altro ineludibile dato di fatto che Ari Shavit, nel suo bel libro La mia terra promessa ( Sperling & Kupfer) ha avuto la franchezza di definire «la brutalità sionista». Henk Zanoli, dall'alto della sua veneranda età, potrebbe testimoniare che le violenze perpetrate nella prima metà del secolo scorso in Palestina apparivano poco più che un dettaglio della storia, al cospetto del genocidio di milioni di ebrei di cui allora l'Europa portava freschissima la macchia. II problema è che quella brutalità si sarebbe perpetuata nei decenni successivi, fino a oggi, quando il mondo ( per fortuna ) fatica a sopportarla. Henk Zanoli non è il primo testimone a coinvolgere Yad Vashem, cioè la suprema istituzione che elabora e onora la memoria della Shoah, nel confronto con le guerre mediorientali. Pochi ricordano il sopravvissuto ai lager, Shlomo Schmalzman, che nell'estate 1982, quando Begin e Sharon scatenarono uri offensiva portando le truppe di Tsahal fino alla conquista di Beirut, sali sul monte Herzl a Gerusalemme e, all'interno di Yad Vashem, intraprese uno sciopero della fame. Voleva cosi protestare contro l'osceno strumentale paragone con cui il premier Begin aveva sostenuto: «L'alternativa all'attacco in Libano è Treblinka". Durante quella stessa guerra un comandante di brigata, Eli Geva, rifiutò di guidare le sue truppe alla presa di Beirut partecipando da soldato semplice per evitare insinuazioni sul suo coraggio. Ancora oggi una delle voci più note del dissenso israeliano, la giornalista di Haaretz Amira Hass, rivendica la sua opera di denuncia delle discriminazioni inflitte ai palestinesi come tributo all'esperienza vissuta dai suoi genitori: la madre deportata a Bergen Belsen; il padre rinchiuso nel ghetto di Shogorad. Né va dimenticato un predicatore del dialogo come Marek Halter - che non esita a incontrare i dirigenti di Hamas presentandosi loro come sopravvissuto del ghetto di Varsavia. La forza del gesto di Henk Zanoli ripropone l'insidia dei paragoni storici. Può davvero esistere un buon uso, non strumentale di simili comparazioni? Quante volte, in malafede, si è calpestato perfino il più elementare senso delle proporzioni? In Europa oltre 5 milioni di morti in quattro anni, in Palestina centomila morti in un secolo... Una risposta la fornì a suo tempo il sopravvissuto vicecomandante della rivebrei polacchi sterminati. Nel 1993 decise di accompagnare fin dentro a Sarajevo assediata un convoglio di aiuti umanitari. Diciamo che si è proposto egli stesso come "allusione" necessaria. Se serve, a fin di bene, con la dovuta cautela, in casi eccezionali, i Giusti possono violare il paradigma sacrale dell'unicità dello sterminio che ha sfregiato l'Europa. Di fronte agli armeni, agli zingari, ai cambogiani, ai tutsi, agli yazidi, ai milioni di profughi di nuovo oggi in fuga dalle loro case, chi mai avrebbe titolo per proibirlo? Un tragico destino ha voluto che all'età di 91 anni la vita romanzesca dell'avvocato olandese Henk Zanoli giungesse a racchiudere in sé una multipla appartenenza: vittima del nazismo che gli ha ucciso il padre, coraggioso amico e salvatore degli ebrei, prozio acquisito dei palestinesi di Gaza. Mi auguro che nel Giardino dei Giusti a Yad Vashem il suo albero cresca rigoglioso. Egli consegna una testimonianza preziosa, se saprà accoglierla, innanzitutto alla coscienza lacerata d' Israele. L'Israele che è in noi, offuscato dall'Israele che c'è. 
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25 luglio 2013 4 25 /07 /luglio /2013 21:30

Progressisti, smettete di rimpiangere il passato

di Michele Serra ("la Repubblica", 16 luglio 2013)

Se dire "qualcosa di sinistra" fosse così facile, in molti l'avrebbero già detta, questa cosa. O per ruolo politico o per dovere intellettuale o anche solo per fare bella figura. Ma così non è stato, specie negli ultimi anni; tanto da far sospettare (i più sospettosi) che la sinistra abbia trascurato apposta i suoi doveri e i suoi compiti, pur sapendo bene quali fossero, per viltà o per opportunismo; o da far temere (i più timorosi) che la sinistra abbia esaurito strada facendo la sua funzione storica, e taccia, dunque, non per calcolo ma per inettitudine. Per totale smarrimento.

Sono abbastanza vecchio di questi luoghi - la sinistra, le sue persone, le sue parole, i suoi giornali, i suoi interminabili dibattiti - da poter azzardare un'ipotesi un poco (solo un poco) più precisa. La sinistra, dalla Rivoluzione francese in poi, è quella vasta area della politica e del pensiero che pretende di organizzare il cambiamento della società. Prima interpretandolo e poi orientandolo. Progettare il cambiamento è la sua stessa funzione, la sua ragione d'essere; e il verbo "cambiare" è stato, per molte generazioni di intellettuali e di militanti, di uso quotidiano. Quasi stucchevole per quanto spesso lo si impiegava: l'Italia che cambia, cambiamo l'Italia, l'Italia da cambiare. Nella celebre definizione del giovane Marx, "il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato delle cose presente". È un assetto di pensiero del tutto radicale, si capisce; ma contiene lo stesso germe che anima i riformismi anche più blandi: lo "stato delle cose presente" è insoddisfacente e dunque va cambiato. Si deve lavorare per cambiarlo. Si deve studiare come cambiarlo (in meglio, si intende) e attraverso quali leve, quali mezzi. Il mondo deve migliorare e la storia deve andare avanti.

Per quanto approssimativa e schematica, la vecchia distinzione storica tra conservatori e progressisti, per generazioni, non ha conosciuto sostanziali smentite: la destra era per la conservazione, la sinistra per il progresso. Dire "qualcosa di sinistra", dunque, è dire qualcosa in grado di descrivere o anticipare o favorire o provocare un cambiamento. Le parole della sinistra dovrebbero essere (o provare a essere) in qualche modo preveggenti: aiutare a immaginare il futuro, ad architettarlo. Le famose "parole d'ordine" del passato, tutte, quelle giuste e quelle sbagliate, quelle intelligenti e quelle stupide, quelle nobili e quelle ignobili, erano comunque l'indicazione di un obiettivo da raggiungere, di un percorso da fare. Erano "dinamiche", forza in movimento.

Nel suo Manifesto dei conservatori (1972) Giuseppe Prezzolini attribuisce alla Destra "i libri e la cultura"; alla Sinistra le canzonette, la televisione, i consumi futili, le mode, l'irresistibile marea montante della massificazione. Per dire quanto fosse radicata - appena dieci anni prima che Berlusconi apparisse sulla scena - l'idea che il "cambiamento", virtuoso o vizioso non importa, fosse comunque qualcosa "di sinistra". Che riguardava la sinistra. Oggi (qui volevo arrivare) la sola traccia profondamente identitaria che la sinistra ha sempre avuto - la vocazione a cambiare "lo stato delle cose presente" - sembra perduta. Peggio, sembra che il cambiamento - proprio quello, massificante e mutageno, detestato dal conservatore Prezzolini e descritto con ben maggiore potenza e disperazione dal comunista Pasolini - abbia così spaventato la sinistra da al suo interno forti pulsioni conservatrici. Più che l'impulso a progettare "un altro cambiamento", ha pesato l'impulso a proteggersi da quello in corso. Ne è nata una sinistra-ossimoro, conservatrice e terrorizzata dai mutamenti in atto. Ed è soprattutto per questo, secondo me, che è così difficile dire "qualcosa di sinistra": perché la sinistra ha perduto le parole del cambiamento, a partire dalla parola "cambiamento". E dunque ha perduto le sue parole.

La si è nuovamente udita, quella parola, echeggiare come un esorcismo nelle tremende settimane successive al voto di febbraio. A pronunciarla fu Bersani, non si sa quanto memore dello spirito ottimista e "progressista" del riformismo emiliano nel quale si è fatto le ossa. Disse, per la precisione, che "non c'è responsabilità senza cambiamento" (parlava ai suoi, si è poi capito quanto inutilmente) e che "non c'è cambiamento senza responsabilità " (parlava a Grillo, si è poi capito quanto inutilmente). L'ambito era - come dire - strettamente politologico, tattico e non strategico, e non scomodava certo sconquassi negli assetti economici e sociali, tanto meno modelli di sviluppo alternativi. Ma in quanto capo della sinistra Bersani "sapeva", direi istintivamente, che la domanda (tumultuosa, quasi smaniosa) di cambiamento uscita dalle urne non poteva che investire in pieno la sinistra, fisiologicamente: la richiamava bruscamente alla sua funzione tradita o comunque sbiadita. Rovesciandosi a valanga verso le Cinque Stelle, la speranza di "cambiare le cose" per la prima volta abbandonava in misura così massiccia e così allarmante la sinistra italiana.

La verità - forse - è che nessuno, in questa fase, riesce non dico a determinare, ma ad azzardare i connotati del futuro, ivi compreso il futuro prossimo. E non per caso l'aspetto più debole - e più ridicolo, francamente - del movimento di Grillo e Casaleggio è quello che affida al web una specie di palingenesi politica, e di reincarnazione della democrazia, che fa impallidire, per ingenuità, il mito della "futura umanità" forgiata "nei campi e nelle officine". Che il vecchio materialismo scientifico possa lasciare il campo alla fede fantascientifica in un Avvento internautico non sembrerebbe proprio - quanto a cambiamento - un passo avanti. Riassumendo. Direi che un buon criterio, di qui in avanti, per provare a dire "qualcosa di sinistra", e per capire se qualcuno sta dicendo davvero "qualcosa di sinistra", sia valutare, sempre, se e quanto questa cosa contiene il proposito, e magari la capacità, di incidere nel futuro, anche un piccolo pezzo di futuro, e di immaginarlo più equo, e migliore. Non è più vero, neanche per la più settaria delle persone di sinistra, che senza sinistra non c'è futuro: il futuro ha già dimostrato di poterne fare allegramente a meno, della sinistra. Ma è certamente vero che senza futuro non c'è una sinistra, che senza futuro la sinistra muore. Dunque la paura del cambiamento - qualunque sorpresa, qualunque incognita possa riservarci il futuro - è per la sinistra un indugio mortale.

Ogni pigrizia conservatrice, dentro la sinistra e dentro le sue parole, parla prima di tutto di quella paura. Compresa la paura di sbilanciarsi, di dire cose azzardate, di sembrare stravaganti o ingenui o imprecisi. La paura dell'errore intellettuale. Ma per dire qualcosa di sinistra sarà obbligatorio, di qui in poi, ricominciare a rischiare. Chi si ferma è perduto. E chi tace acconsente.

 Michele Serra 

Progressisti, smettete di rimpiangere il passato

di Michele Serra ("la Repubblica", 16 luglio 2013)

Se dire "qualcosa di sinistra" fosse così facile, in molti l'avrebbero già detta, questa cosa. O per ruolo politico o per dovere intellettuale o anche solo per fare bella figura. Ma così non è stato, specie negli ultimi anni; tanto da far sospettare (i più sospettosi) che la sinistra abbia trascurato apposta i suoi doveri e i suoi compiti, pur sapendo bene quali fossero, per viltà o per opportunismo; o da far temere (i più timorosi) che la sinistra abbia esaurito strada facendo la sua funzione storica, e taccia, dunque, non per calcolo ma per inettitudine. Per totale smarrimento.

Sono abbastanza vecchio di questi luoghi - la sinistra, le sue persone, le sue parole, i suoi giornali, i suoi interminabili dibattiti - da poter azzardare un'ipotesi un poco (solo un poco) più precisa. La sinistra, dalla Rivoluzione francese in poi, è quella vasta area della politica e del pensiero che pretende di organizzare il cambiamento della società. Prima interpretandolo e poi orientandolo. Progettare il cambiamento è la sua stessa funzione, la sua ragione d'essere; e il verbo "cambiare" è stato, per molte generazioni di intellettuali e di militanti, di uso quotidiano. Quasi stucchevole per quanto spesso lo si impiegava: l'Italia che cambia, cambiamo l'Italia, l'Italia da cambiare. Nella celebre definizione del giovane Marx, "il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato delle cose presente". È un assetto di pensiero del tutto radicale, si capisce; ma contiene lo stesso germe che anima i riformismi anche più blandi: lo "stato delle cose presente" è insoddisfacente e dunque va cambiato. Si deve lavorare per cambiarlo. Si deve studiare come cambiarlo (in meglio, si intende) e attraverso quali leve, quali mezzi. Il mondo deve migliorare e la storia deve andare avanti.

Per quanto approssimativa e schematica, la vecchia distinzione storica tra conservatori e progressisti, per generazioni, non ha conosciuto sostanziali smentite: la destra era per la conservazione, la sinistra per il progresso. Dire "qualcosa di sinistra", dunque, è dire qualcosa in grado di descrivere o anticipare o favorire o provocare un cambiamento. Le parole della sinistra dovrebbero essere (o provare a essere) in qualche modo preveggenti: aiutare a immaginare il futuro, ad architettarlo. Le famose "parole d'ordine" del passato, tutte, quelle giuste e quelle sbagliate, quelle intelligenti e quelle stupide, quelle nobili e quelle ignobili, erano comunque l'indicazione di un obiettivo da raggiungere, di un percorso da fare. Erano "dinamiche", forza in movimento.

Nel suo Manifesto dei conservatori (1972) Giuseppe Prezzolini attribuisce alla Destra "i libri e la cultura"; alla Sinistra le canzonette, la televisione, i consumi futili, le mode, l'irresistibile marea montante della massificazione. Per dire quanto fosse radicata - appena dieci anni prima che Berlusconi apparisse sulla scena - l'idea che il "cambiamento", virtuoso o vizioso non importa, fosse comunque qualcosa "di sinistra". Che riguardava la sinistra. Oggi (qui volevo arrivare) la sola traccia profondamente identitaria che la sinistra ha sempre avuto - la vocazione a cambiare "lo stato delle cose presente" - sembra perduta. Peggio, sembra che il cambiamento - proprio quello, massificante e mutageno, detestato dal conservatore Prezzolini e descritto con ben maggiore potenza e disperazione dal comunista Pasolini - abbia così spaventato la sinistra da al suo interno forti pulsioni conservatrici. Più che l'impulso a progettare "un altro cambiamento", ha pesato l'impulso a proteggersi da quello in corso. Ne è nata una sinistra-ossimoro, conservatrice e terrorizzata dai mutamenti in atto. Ed è soprattutto per questo, secondo me, che è così difficile dire "qualcosa di sinistra": perché la sinistra ha perduto le parole del cambiamento, a partire dalla parola "cambiamento". E dunque ha perduto le sue parole.

La si è nuovamente udita, quella parola, echeggiare come un esorcismo nelle tremende settimane successive al voto di febbraio. A pronunciarla fu Bersani, non si sa quanto memore dello spirito ottimista e "progressista" del riformismo emiliano nel quale si è fatto le ossa. Disse, per la precisione, che "non c'è responsabilità senza cambiamento" (parlava ai suoi, si è poi capito quanto inutilmente) e che "non c'è cambiamento senza responsabilità " (parlava a Grillo, si è poi capito quanto inutilmente). L'ambito era - come dire - strettamente politologico, tattico e non strategico, e non scomodava certo sconquassi negli assetti economici e sociali, tanto meno modelli di sviluppo alternativi. Ma in quanto capo della sinistra Bersani "sapeva", direi istintivamente, che la domanda (tumultuosa, quasi smaniosa) di cambiamento uscita dalle urne non poteva che investire in pieno la sinistra, fisiologicamente: la richiamava bruscamente alla sua funzione tradita o comunque sbiadita. Rovesciandosi a valanga verso le Cinque Stelle, la speranza di "cambiare le cose" per la prima volta abbandonava in misura così massiccia e così allarmante la sinistra italiana.

La verità - forse - è che nessuno, in questa fase, riesce non dico a determinare, ma ad azzardare i connotati del futuro, ivi compreso il futuro prossimo. E non per caso l'aspetto più debole - e più ridicolo, francamente - del movimento di Grillo e Casaleggio è quello che affida al web una specie di palingenesi politica, e di reincarnazione della democrazia, che fa impallidire, per ingenuità, il mito della "futura umanità" forgiata "nei campi e nelle officine". Che il vecchio materialismo scientifico possa lasciare il campo alla fede fantascientifica in un Avvento internautico non sembrerebbe proprio - quanto a cambiamento - un passo avanti. Riassumendo. Direi che un buon criterio, di qui in avanti, per provare a dire "qualcosa di sinistra", e per capire se qualcuno sta dicendo davvero "qualcosa di sinistra", sia valutare, sempre, se e quanto questa cosa contiene il proposito, e magari la capacità, di incidere nel futuro, anche un piccolo pezzo di futuro, e di immaginarlo più equo, e migliore. Non è più vero, neanche per la più settaria delle persone di sinistra, che senza sinistra non c'è futuro: il futuro ha già dimostrato di poterne fare allegramente a meno, della sinistra. Ma è certamente vero che senza futuro non c'è una sinistra, che senza futuro la sinistra muore. Dunque la paura del cambiamento - qualunque sorpresa, qualunque incognita possa riservarci il futuro - è per la sinistra un indugio mortale.

Ogni pigrizia conservatrice, dentro la sinistra e dentro le sue parole, parla prima di tutto di quella paura. Compresa la paura di sbilanciarsi, di dire cose azzardate, di sembrare stravaganti o ingenui o imprecisi. La paura dell'errore intellettuale. Ma per dire qualcosa di sinistra sarà obbligatorio, di qui in poi, ricominciare a rischiare. Chi si ferma è perduto. E chi tace acconsente.

Michele Serra

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