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13 luglio 2017 4 13 /07 /luglio /2017 15:33

Per la prima volta sul palcoscenico un'orchestra composta  da musicisti italiani e persiani " Questi concerti sono utili: l'arte è universale, non fa differenze nè di religione nè di cultura"

L'OPERA. Non sono un santo credo nel potere della bellezza

CULTURA Lo scambio culturale Riccardo Muti dirige Giuseppe Verdi a Teheran. I media iraniani: "Un concerto che fa la storia" Oltre 200 tra strumentisti e coristi, iraniani ed italiani alla Vahdat Hall per un programma interamente dedicato a Verdi. Ieri le prove, in cui i musicisti hanno trovato l'affiatamento che servira' anche per la 'replica' dell'8 luglio a Ravenna, dove si esibira' per la seconda volta l'intera formazione creata a Teheran Tweet Grande successo per Riccardo Muti a Teheran Da Teheran a Spoleto, passando per Venezia. Con il maestro Riccardo Muti, Borghi e Abbagnato Riccardo Muti racconta a Rainews il suo commosso ritorno alla Scala Il presidente iraniano Rohani a Roma: "L'Italia è la nostra porta verso l'Europa" Italia-Iran: siglati 7 accordi istituzionali e 10 industriali. 564 milioni di euro alla Sace Fine sanzioni Iran, per l'Italia 3 miliardi in più di export Riccardo Muti dirigerà l'Orchestra Mozart di Abbado 06 luglio 2017 Grandi manifesti con il volto di Riccardo Muti sono comparsi nel centro di Teheran per annunciare il concerto che il maestro dirige oggi, 6 luglio, alla Vahdat Hall di Teheran, con oltre 200 tra strumentisti e coristi, iraniani ed italiani, per un programma interamente dedicato a Verdi. Ieri le prove, in cui i musicisti hanno trovato l'affiatamento che servira' anche per la 'replica' dell'8 luglio a Ravenna, dove si esibira' per la seconda volta l'intera formazione creata a Teheran. Palpabile tra gli iraniani l'emozione, per chi ha potuto assistere alle prove, per l'opportunita' di lavorare con Muti. In quello che lui stesso Muti ha definito lo spirito di fratellanza in cui e' stato concepito l'evento, a partire dalla sua prima edizione di vent'anni fa a Sarajevo. "La musica ha la capacita' di comunicare e di toccare le corde piu' profonde in maniera diretta, senza bisogno di traduzioni", ha detto Muti alla vigilia dell'evento. L'attesa del concerto, che celebra il ventennale de "Le vie dell'amicizia" del Ravenna Festival, e' testimoniata dal fatto che tutto i biglietti sono andati esauriti per la serata, cui partecipera', con le autorita' iraniane, anche la sottosegretaria ai beni ed alle attivita' culturali Dorina Bianchi. ampia copertura dai media iraniani in attesa del concerto, con i principali quotidiani e agenzie di stampa che lo annunciano, insieme ad un'esibizione gratuita  per gli studenti di musica e discipline artistiche. Per l'agenzia Tasnim, riportata dal quotidiano conservatore Kayhan, i 200 musicisti delle due nazionalita' "faranno storia" e Muti viene definito "ambasciatore culturale dell'Iitalia". Il concerto vede protagonisti l'orchestra sinfonica e il coro di Teheran, ricostituiti due anni fa dopo 80 anni di storia e diretta da Sharhad Rouhani, l'orchestra giovanile Luigi Cherubini, il tenore Pietro Pretti, il baritono Luca Salsi e il basso Riccardo Zanellato. L'appuntamento e' ospitato dalla fondazione Roudaki, in collaborazione la Farabi Foundation con i nostri ministeri esteri e beni culturali, la Regione Emilia Romagna e le ambasciate dei due paesi. Tweet - See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/RIccardo-Muti-dirige-Giuseppe-Verdi-a-Teheran-media-iraniani-concerto-che-fa-la-storia-3215f192-3dfa-4bd6-8616-bc54dc12eef3.html

 

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3 luglio 2017 1 03 /07 /luglio /2017 15:49

Da sabato 11 marzo in edicola c’è Dlui. Con storie di cowboy e di supereroine, l’uomo di Amnesty international e gli spin doctor della lotta al terrore, l’epopea dei cowboy e il successo dei fratelli nel business. E il filosofo rockstar Michael Sandel: il suo pensiero, da Harvard, sta conquistando il mondo. Con le sue lezioni riempie teatri e stadi: dagli Usa alla Corea del Sud. Qui, in anteprima, l’intervista che leggerete su di lui.
 TONIA MASTROBUONI –  La Repubblica

Michael Sandel ha l’aria timida e il sorriso mite. Difficile pensare che sia una rockstar della filosofia moderna, uno che riempie stadi interi (dagli States alla Corea del Sud) parlando di bene comune e scelte morali. O che sia l’uomo che gli implacabili autori dei Simpson hanno scelto come modello per costruire una parodia al rovescio, quella del crudele Mr Burns. Ma, soprattutto, che i suoi socratici dialoghi con gli studenti e il pubblico, divenuti una popolarissima serie per la Bbc, continuino ad affascinare migliaia di persone.

Abbiamo incontrato il filosofo di Harvard al Forum economico mondiale di Davos (guarda il suo intervento a 
Davos), dove ha detto cose che suonano decisamente rivoluzionarie alle orecchie (piuttosto sorde) dei potenti del mondo. E lo abbiamo intervistato su questioni fondamentali come l’ascesa dei populismi e la logica equivoca del concetto di meritocrazia, ma anche sulle ragioni vere del successo di un americano come lui: Donald Trump. Il tutto, scomodamente seduti su una stretta panchina davanti a un guardaroba, nel mezzo del chiassoso viavai di premiati economisti, politici di ogni latitudine e gestori di hedge fund miliardari.

«Il populismo crescente non è soltanto un problema economico: è un problema civico, che ha a che vedere con la sensazione, provata da molti cittadini, di avere perso il potere di intervenire nella cosa pubblica». Sandel sfata subito l’idea dell’uomo avulso dal suo contesto sociale, della monade meccanica che funziona per incentivi, raccontata per anni dai liberisti. Nelle sue lezioni, che non sono mai “cattedratiche”, tenta di stimolare un dialogo costante con l’auditorio. Dal web ne abbiamo scaricate e ascoltate parecchie, prima di incontrarlo. Di solito il professore di diritto e filosofia coinvolge il pubblico facendo alzare le mani, mettendo a confronto tesi e antitesi su questioni come: «Perché non ho il diritto di vendere il mio diritto di voto?» oppure «È giusto, se i freni della mia auto si rompono, scegliere di investire una persona invece di cinque?».
Questioni apparentemente assurde, ma che mettono profondamente in gioco il senso morale e i concetti di giustizia e bene comune. Sandel vuole recuperare queste dimensioni, e gli interessa più la discussione in sé che le eventuali risposte o conclusioni. Come a Socrate. Interrogativi che colmano in parte un grande vuoto lasciato dalla sinistra, e riempito in questi ultimi anni dalle risposte sbagliate della destra. «Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80», spiega Sandel, «comincia l’era della fiducia incondizionata nei mercati. Thatcher e Reagan arrivano al potere con la tesi esplicita che il governo è il problema e i mercati liberi la soluzione. Successivamente i due abbandonano la scena politica e la lasciano al centrosinistra, ai progressisti come Blair o Schroeder. Ma i nuovi leader non mettono mai in discussione quella fiducia, non smussano gli angoli ma non intaccano la premessa: che i mercati siano lo strumento migliore per conquistare il bene comune. Risultato: hanno condannato se stessi all’irrilevanza. E la reazione odierna contro il capitalismo globalizzato ha tolto consenso soprattutto a sinistra . La copertina di Dlui in edicola Sabato 11 marzo
Fin qui, la tesi di Michael Sandel ricorda quella del Nobel dell’economia Paul Krugman, formulata in libro ormai divenuto un classico, 
La coscienza di un liberal (Laterza). Ma il professore ne fa anche una questione di linguaggio: «Consegnandosi al mercato, perseguendo l’unico obiettivo di far funzionare il sistema, i partiti di centrosinistra hanno lasciato che il ragionamento e il vocabolario tecnocratico prendessero il sopravvento». E il problema è che quel linguaggio non ispira granché: «La dimensione tecnocratica non ha il potere di motivare». Storicamente, ricorda il filosofo nato 64 anni fa a Minneapolis, «l’ascesa dei populismi di destra è il sintomo del fallimento di partiti progressisti e socialdemocratici». E, come insegna l’implosione della Repubblica di Weimar che preparò l’ascesa del nazismo, «è sempre un fallimento dalle enormi conseguenze. Anche adesso l’energia populista, la rivolta contro le élite e la rabbia per le diseguaglianze sono intercettate dai partiti di destra. La sinistra balbetta, dopo avere dimenticato per decenni la questione morale, il nodo delle diseguaglianze, il significato della parola “cittadino”». In alcuni scritti (Giustizia. Il nostro bene comune, o Quello che i soldi non possono comprare, entrambi editi in Italia da Feltrinelli) Sandel mette in discussione alcuni pilastri del pensiero contemporaneo. A partire da quello che ha sempre improntato la discussione economica: il potere degli incentivi monetari. Il filosofo cita numerosi esempi in cui la teoria classica si inceppa. Narra per esempio di un asilo che cercò di scoraggiare i ritardi dei genitori introducendo una multa. I ritardi, viceversa, aumentarono. I genitori avevano interpretato quella sanzione come una tariffa, non come una punizione. In un’altra scuola, in Israele, a un gruppo di studenti fu offerto un premio monetario perché raccogliessero soldi per beneficenza. A un secondo gruppo della stessa scuola fu chiesto lo stesso sforzo ma gratis, senza remunerazione. Fu quest’ultimo a impegnarsi molto di più del primo.
Ma Sandel non si ferma mai alla superficie delle cose e sta mettendo in discussione un’altra narrazione ostinata delle democrazie occidentali degli ultimi decenni: quella delle magnifiche sorti progressive della meritocrazia. «Pochi ci hanno fatto caso, ma Barack Obama e Hillary Clinton hanno continuato a parlare per tutta la campagna elettorale di opportunità e merito». Al contrario, il populista repubblicano Trump e il candidato di sinistra dei democratici, Bernie Sanders, hanno sempre evitato di menzionare quei concetti. «Hanno parlato entrambi di potere, o di vincitori e perdenti». Il fatto è, ragiona Sandel, che «né la mobilità, né la retorica delle opportunità fanno sognare. I partiti progressisti devono trovare un nuovo vocabolario». 
Uno che sembra averlo capito, in queste settimane, è il candidato anti-Merkel dei socialdemocratici tedeschi, Martin Schulz. Anche lui, dopo l’infatuazione della generazione progressista stile Gerhard Schroeder per i precetti del neoliberismo, ha cominciato a parlare di solidarietà e di diseguaglianze. Neanche lui parla di merito. Per Sandel, «il punto filosofico è questo. Il messaggio della campagna clintoniana è stato: se lavori duro e ti attieni alle regole, vai avanti. Se ci sono ostacoli, pregiudizi o discriminazioni, in una società meritocratica vengono abbattuti. Sembra incontrovertibile. «Ma quando continua a essere ripetuto per decenni, ti viene il sospetto che non sia vero. E i democratici non hanno visto quanto quel messaggio abbia smesso di ispirare». Soprattutto, non hanno capito quanto sia ormai contraddetto da una società dove la mobilità è ferma, e dove il figlio dell’avvocato, prevedibilmente, diventerà avvocato, ma il figlio dell’operaio ha molte meno possibilità di diventare avvocato rispetto a trent’anni fa. «La possibilità di stare meglio dei propri genitori è crollata, in Europa e in Usa. Oggi diseguaglianze e scarsa mobilità sono due facce della stessa medaglia».
Sandel cita un libro visionario, una satira sulle oligarchie future. Già nel 1958, con 
L’avvento della meritocrazia, il grande sociologo inglese Michael Young capì che «l’ascesa della meritocrazia avrebbe creato un disequilibrio. Vide che, nella Gran Bretagna dei suoi tempi, la vecchia società aristocratica, dove il destino dipendeva semplicemente dalla famiglia, veniva rimpiazzata dal merito. Ma lui predisse che una società perfettamente meritocratica non sarebbe stata affatto più equa: avrebbe creato basi diverse per riorganizzare le diseguaglianze. Lo vediamo oggi. Nella società odierna chi è in cima pensa di meritarselo, si inebria del proprio successo e tratta di conseguenza chi è in fondo». E chi non ce la fa, conclude Sandel, «ha il senso di colpa ma anche la rabbia verso chi sta in cima». È questo, scandisce, il veleno che nutre i populismi. «E Donald Trump, purtroppo, l’ha capito perfettamente».

 

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2 luglio 2017 7 02 /07 /luglio /2017 09:01
SICUREZZA E DIFESA DELL'UNIONE ADESSO SIAMO PIÙ FORTI

 

Federica Mogherini   -  La Repubblica

Gli ultimi dodici mesi hanno rappresentato una sfida per la nostra Unione europea. Un anno fa, dopo il referendum sull'uscita del Regno Unito dall'Unione, molti prevedevano che sarebbe stato l'inizio della fine. Non solo non è stato così, ma l'Unione europea oggi è più forte. Abbiamo capito ciò che rischiavamo di perdere: non solo sessanta anni di pace, ma anche diritti, un'economia che ha ripreso a crescere, stabilità. E abbiamo trovato, insieme, il modo di rilanciare la nostra Unione. Dagli impegni presi durante le celebrazioni dei Trattati di Roma così come dalle elezioni in diversi paesi è arrivato un messaggio chiaro e comune: che nel mondo globalizzato non è l'illusione del "sovranismo" a proteggerci, ma che al contrario solo insieme, come europei, possiamo riconquistare vera sovranità, proteggere e promuovere i nostri interessi e valori.

Al primo posto tra i bisogni degli europei, oltre alla crescita economica, c'è la sicurezza, di fronte alla minaccia interna del terrorismo e in un contesto di grandi tensioni internazionali. La nostra sicurezza dipende in gran parte dalla nostra capacità di contribuire alla pace e alla stabilità fuori dai nostri confini: con la diplomazia innanzitutto, ma anche con un'Unione europea della sicurezza e della difesa. Esattamente un anno fa ho presentato la Strategia globale per la politica estera e di sicurezza europea, che ha indicato un percorso di rilancio del ruolo globale dell'Ue. Da allora abbiamo fatto più passi avanti che negli ultimi decenni.

Soldati con la bandiera europea sull'uniforme fermano ogni giorno trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo, salvano vite, addestrano le forze armate dei nostri partner in regioni fondamentali per la nostra sicurezza, contrastano la pirateria al largo delle coste della Somalia; sono lontani dall'Europa, ma lavorano per la sicurezza di tutti gli europei. Per questo i nostri partner ci considerano sempre di più una potenza indispensabile, anche sul piano della sicurezza, dall'Africa alla Cina.

Solo poche settimane fa abbiamo inaugurato a Bruxelles il primo centro di pianificazione e comando per tutte le missioni militari Ue di addestramento, superando antiche resistenze contro la creazione di un quartier generale unico. Sempre poche settimane fa, come Commissione europea abbiamo lanciato un fondo per la difesa che a regime svilupperà 5,5 miliardi di investimenti l'anno per la ricerca e lo sviluppo industriale nel settore militare. Non si tratta di "militarizzare" l'Ue, ma di razionalizzare la spesa per la difesa creando economie di scala, perché il modo più efficiente di investire è farlo insieme.

Questo consentirà all'Europa di essere all'avanguardia dal punto di vista industriale e tecnologico, e di operare con una certa autonomia strategica, in un momento della storia del mondo in cui è saggio non dover necessariamente contare sulla forza militare dei nostri alleati. E può aiutare l'industria, così come le piccole e medie imprese europee. Anche per questo avvieremo già quest'anno un meccanismo di coordinamento dei bilanci della difesa.

Le ultime decisioni storiche sono di questi giorni. Giovedì il Consiglio europeo ha concordato di finanziare il dispiegamento, in caso di necessità, della forza di reazione rapida Europea — i

Battlegroups — che pur esistendo dal 2007 non è mai stata operativa sul campo.

Il Consiglio ha anche deciso di avviare entro la fine dell'anno la cooperazione strutturata permanente, prevista già dal trattato di Lisbona ma mai attivata: gruppi di stati membri potranno realizzare insieme progetti comuni di difesa, in un quadro di cooperazione europea che sosterremo con il Servizio Europeo di azione esterna e l'Agenzia Europea per la difesa.

È un lavoro enorme, fatto insieme con grande unità (ancora a ventotto) e rapidità. E coordinando ogni passo anche con i nostri principali partner, a cominciare dalle Nazioni Unite e dalla Nato, con la quale abbiamo rafforzato la cooperazione in questi ultimi mesi attraverso 42 progetti operativi, tra cui la prima esercitazione parallela tra Nato e Ue. Rafforzare l'Europa della difesa rafforza anche la Nato.

Così come continuiamo a investire nelle capacità di sicurezza e di difesa dei nostri partner: poche settimane fa ho concordato con i cinque paesi del G5 Sahel un sostegno Ue di 50 milioni di euro per la loro Forza militare congiunta, che combatterà terrorismo e organizzazioni di trafficanti.

La difesa europea è stata una bandiera per tanti grandi italiani che prima e più di altri hanno capito che insieme siamo più sicuri e più forti: da De Gasperi a Napolitano e Andreatta. Oggi, finalmente, da quell'idea è partito il rilancio dell'Unione europea.

Federica Mogherini è Alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza

" Solo insieme, come europei, possiamo riconquistare vera sovranità, proteggere e promuovere i nostri interessi e i nostri valori

 

 

Federica Mogherini

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29 giugno 2017 4 29 /06 /giugno /2017 14:57

Si riconosce la grande e vasta  conoscenza dell'uomo in ambito giuridico.  Ha contribuito all'affermarsi di una visione democratica, di libertà e progressista   in ambito giuridico. Ma non è stato un politico perchè le sue iniziative, in questo ambito, non hanno portato vantaggio alla sinistra ma hanno creato confusione e il risultato ha favorito la destra. E' una figura integerrima di uomo del passato che non ha mai tratto vantaggio economico e di potere personale dalle sue iniziative, ma  grande produttore di diritti legata alla persona e di bene  comune, basta ricordare quest'ultima iniziativa per l'acqua. Non basta avere principi e belle idee occorre sapere a quali cittadini e strati sociali rivolgersi; saper gestire  le proprie proposte, i propri programmi, indicando chiaramente gli ostacoli da superare e i tempi di realizzazione perchè per la loro realizzazione è necessario costruire un movimento nello scorrere del tempo (ndr.)    

Il 7 settembre 2014, Silvia Truzzi ha intervistato il giurista per la sua rubrica Autografi. Nella lunga conversazione, il professore ha ripercorso la sua storia civile, personale e politica. Un documento che oggi, dopo la scomparsa del professore, sembra quasi un testamento culturale

di Silvia Truzzi | 24 giugno 2017

Siccome nell’Eugénie GrandetBalzac mette in guardia dall’adulazione (“Non appartiene alle anime grandi, ma è appannaggio di quelle meschine. L’adulazione presuppone un interesse“), non diremo a Stefano Rodotà che moltissimi rimpiangono la sua mancata elezione al Colle. Ma forse è solo la verità dire che ora, nei tempi delle riforme costituzionali last minute, l’Italia avrebbe bisogno di quel garantismo che è stata la cifra di una lunga esistenza. E che viene da lontano. “L’unico momento in cui mi sono visto riconoscere una sorta di continuità genetica con l’origine arbëreshe dei miei avi fu quando Cesare Luporini mi disse: ‘Ho capito tutto questo tuo garantismo, vieni da una minoranza oppressa’. Anche se non posso dire di essermi portato dentro un pezzo di quella cultura“. Soprattutto ci sono i libri, nei ricordi del professore. Una casa, quella dei nonni a Cosenza, invasa da volumi catalogati, stanza per stanza, in ordine cronologico. “Da ragazzino, li divoravo, soprattutto quelli di varia letteratura, storia e filosofia. Quelli di diritto invece li snobbavo proprio”

Poi però ha scelto Giurisprudenza.
“Mi domando ancora oggi perché. Gli unici due zii che avevano studiato Legge si erano laureati ma poi avevano fatto altro. M’interessava il rapporto con la realtà, come si organizza lo Stato. Mi sono convertito al Diritto privato per Alberto Asquini, le cui lezioni di Diritto commerciale erano apparentemente noiosissime, ma dimostravano dall’interno come funzionava il meccanismo del diritto. Poi mi sono laureato con Emilio Betti, un grandissimo giurista: uomo severissimo e rigorosissimo. C’è un paradosso, perché entrambi erano stati molto legati al fascismo: Asquini era stato addirittura sottosegretario. Betti si era esposto durante la Repubblica di Salò, con articoli sul Corriere della Sera in cui giustificava le esecuzioni dei partigiani con argomentazioni giuridiche e formali. Lui era marchigiano, nei giorni della Liberazione, a Giuseppe Ferri – partigiano e docente di Diritto commerciale – dicono: ‘Hanno preso un professore’. Ferri capisce subito che si tratta di Betti, si precipita dal comandante della brigata partigiana e gli dice: ‘Ma è un professore, lasciamolo perdere’. Quello gli dice: ‘Il tuo professore ha scritto cose gravissime, adesso lo fuciliamo’. Vanno a parlargli. E Betti ripete le sue tesi, parola per parola. Alla fine questo contadino comandante partigiano dice a Ferri: ‘Il professore non ci sta con la testa, portatelo via’.

La mia vicenda accademica è stata poi segnata dall’incontro con Rosario Nicolò, uomo generoso e aperto all’innovazione culturale. Cos’era Roma per un ragazzo che arrivava dalla Calabria negli anni Cinquanta? Per me era la Biblioteca nazionale, era andare al cinema. Precisamente al Circolo del cinema Charlie Chaplin, che era quello di sinistra i cui spettacoli si tenevano la domenica mattina al cinema Rialto in via IV Novembre: tu andavi lì e incontravi Moravia e Pasolini. A Roma c’era un’infinità di cose da fare, da vedere. Sono partito da Cosenza con una certa premeditazione. Non volevo tornare. Poi c’è stato l’incontro con la politica: al terzo anno, non avevo ancora compiuto ventun’anni, scopro che esiste l’Ugi, l’Unione goliardica italiana. M’incuriosiva. Allora l’Ugi si trovava a metà di via del Tritone, in un palazzetto dove c’era la sede dell’Associazione italiana per la libertà della cultura presieduta daIgnazio Silone. Arrivo e in fondo alla sala si alza un tipo, piccolino, e mi viene incontro: era Tullio De Mauro. Così entro in questo giro e chi conosco, tra i primi? Marco Pannella. Comincio a frequentare l’Ugi, che nel frattempo si dota di una giunta, presieduta da un cattolico, e io divento vicepresidente degli organismi rappresentativi, cioè del parlamentino. C’erano anche fondi a disposizione: insomma era un piccolo partito universitario. Presiedo l’Unione goliardica romana, quando Togliatti decide di sciogliere l’organizzazione universitaria comunista e di far confluire gli iscritti nell’Ugi, che era molto laica. All’interno dell’Ugi c’erano molte resistenze ad accogliere i comunisti. Ed è proprio l’associazione romana a fare da cavia, per vedere come vengono accolte le domande dei comunisti. I primi ad arrivare sono due ragazzi che si chiamano Alberto ed Enzo. Di cognome Asor Rosa e Siciliano. Marco Pannella invece era liberale, ma a me non interessava. A quel mondo mi sono avvicinato, perché m’interessava molto Ugo La Malfa, che ho conosciuto bene nonostante la differenza d’età. Era un vero politico, di straordinaria vivacità. In realtà nemmeno il Partito repubblicano m’interessava. Però il Partito radicale sì.

Ci arrivai attraverso Il Mondo. Marco mi dice: ‘Raimondo Craveri fa una rivista, Lo spettatore italiano, andiamo a trovarlo’. E così andiamo in questa casa bellissima di piazza Santi Apostoli. Lì conosco Elena Croce, figlia di Benedetto e moglie di Craveri: una donna intelligentissima, spiritosa, interessatissima ai giovani. Elena un giorno annuncia a me e Tullio: ‘Voglio presentarvi Pannunzio‘. Così andiamo in via di Campo Marzio dove c’era la sede del giornale. Pannunzio era circondato da una fama di grande intransigenza: aveva fatto riscrivere l’articolo sui fratelli Cervi a Einaudi, presidente della Repubblica. Non concedeva niente a nessuno. A un certo punto dell’incontro ci dice: ‘Pensate a farmi qualche proposta’. Avevo ventitré anni. Il Mondo per noi allora era una passione quasi morbosa, avevamo un’adorazione per questa impresa straordinaria. Tanto che andavamo alla stazione, la notte prima dell’uscita del giornale, a comprare le copie appena arrivate in edicola.

E fece qualche proposta a Pannunzio?
Certo! Scrivo subito un articolo sulla mia facoltà, e lo porto in redazione. Due settimane dopo compro Il Mondo e in prima pagina di spalla c’è il mio articolo. Titolo: “L’ideale dei mediocri“. Sono quasi svenuto! A questo punto sono stato ammesso in quel circolo. Non ho scritto tanti articoli, ma moltissimi taccuini, cioè i commenti anonimi ai fatti della settimana che stavano nella seconda pagina. Una cosa che per me era motivo di orgoglio assoluto.

E Silone che tipo era?
Una persona scostante e molto antipatica. A un certo punto lui non voleva noi ragazzi tra i piedi. E allora dovemmo cercare un’altra sede. C’era il Centro culturale di Comunità, voluto da Adriano Olivetti anche a Roma, in via di Porta Pinciana 6, dove si trasferì l’Ugi e dove io passai veramente un pezzo della mia vita: ci andavo tutte le sere. E ogni tanto faceva una visita Olivetti che mi prese in grandissima simpatia. Facevamo lunghissime chiacchierate. Qualche volta passava Guglielmo Negri, che dirigeva il Centro di Comunità. E diceva: “Ingegnere, non si faccia incantare da Rodotà. Guardi che qui all’Ugi ogni tanto i libri se li rubano!” E lui: “Li rubano? Ma allora vuol dire che li leggono”. Aveva un po’ ragione e un po’ no: eravamo tutti senza una lira e qualcuno se li rivendeva pure. Un anno dopo la laurea, vado in Inghilterra. È il 1957. Mi arriva una lettera di mio padre che mi dice: “Caro Stefano, ha telefonato l’ingegner Adriano Olivetti. Dice che se vai alla Barclays Bank di Londra c’è una cosa per te”. In banca c’erano trecentomila lire, un regalo per una persona che lui stimava. Al mio ritorno, Olivetti m’invita a Ivrea. Parto da Roma e viaggio tutta la notte. Arrivo a Ivrea in una giornata di novembre gelida, nebbiosa. Non era certo Ivrea la bella di Gozzano! A ricevermi c’è Ottiero Ottieri, che poi avrebbe raccontato questa sua esperienza di reclutatore in Donnarumma all’assalto. Ottieri invece di invogliarmi, mi fa un discorso sulla tristezza dell’intellettuale chiuso a Ivrea. Alla fine dissi no, anche se l’offerta economica era molto generosa. Avevo deciso che quello che mi piaceva fare era studiare. Ero già assistente, non avevo un incarico fisso, ma allora la carriera universitaria era scandita dai tempi e uno si poteva programmare la vita, non certo come adesso. Ho avuto la fortuna di poter fare quel che più mi piaceva, in primo luogo nella ricerca e nell’insegnamento, con un progetto di reintegrare il diritto in un più largo contesto culturale che mi sono poi portato in giro per il mondo.

La passione per la politica continua.
È stata intensissima negli anni universitari, ed è proseguita nel rapporto col Mondo. Quando il giornale diventa il motore della scissione nella sinistra liberale e della costituzione del Partito radicale, io che non avevo mai bazzicato nei partiti, trovo l’esperienza interessante. Il Mondo si schiera fortemente a favore della Legge truffa, su cui mia moglie ha scritto un libretto. Carla ogni tanto mi dice: “Ma che cosa ho fatto! Ho trattato così male dei signori perbene. Guardando cosa succede oggi con il Porcellum e tutto il resto, dovrei chiedere scusa!”. Comunque Il Mondo si schiera incondizionatamente a favore della Legge truffa. La frase: “Turatevi il naso e votate i laici alleati con la Dc” è di Gaetano Salvemini, che la dice in quell’occasione. Ma allora io stavo dalla parte di quelli che si opponevano. Il riferimento per me fu il raggruppamento creato da ParriCalamandrei e Jemolo, cioè Unità popolare, che fu importante per impedire che scattasse il 50,1 per cento che avrebbe dato il tanto vituperato premio di maggioranza che, paragonato alle attuali proposte, era un modello di democrazia.

La sua carriera di commentatore comincia allora?
Nella prima fase del Partito radicale sono stato molto attivo. Con il caso Piccardi – ex ministro del governo Badoglio, di cui si scoprì la partecipazione a un convegno con i nazisti – il partito si spacca. E Marco ne raccoglie la bandiera con Ernesto Rossi. Ma io non li seguo. In quegli anni comincio a scrivere sui giornali: prima per Il Globo, diretto da Antonio Ghirelli e sul quale scriveva mia moglie, poi per Il Giorno di Afeltra, poi su Panorama, dove ho tenuto una rubrica settimanale fino all’avvento di Berlusconi. Ogni settimana ricevevo reazioni, molte telefonate di politici. In quegli anni ero molto vicino al Partito socialista di De Martino, anche se non sono mai stato iscritto: ho collaborato allora con vecchi amici come Giuliano AmatoEnzo Cheli, Federico Mancini, Gino Giugni, Gianni Ferrara. Ricordo benissimo uno dei primi scioperi della fame di Pannella. Una notte suonò il telefono tardissimo: era De Martino, preoccupatissimo. “Rodotà, faccia qualcosa. Quello mi muore”. Una volta scrissi una rubrica per criticare Pertini, allora presidente della Camera, che non convocava il Parlamento in seduta comune per eleggere un giudice costituzionale. La questione riguardava Lelio Basso, sul quale c’era un veto della Dc e soprattutto una fortissima e antica antipatia di Pertini. Un giorno alzo il telefono: “Mi dicono che tu sei un compagno”. Era Pertini, che voleva spiegarmi le sue ragioni. E io gli risposi: “Anche a me dicono che tu sei un compagno. Ma i compagni certe cose non le fanno”. Da questa furibonda litigata è nata una profondissima amicizia.

Perché decise di accettare la candidatura come indipendente del Pci nel ’79?
Quando cominciò la fase del terrorismo, io criticai duramente le posizioni incarnate da Ugo Pecchioli. Mi chiamò Pannella e mi offrì la candidatura. Marco lo conoscevo molto bene. Gli ho sempre riconosciuto grandi meriti: nelle sue battaglie ci ha messo tutto, anche il corpo. Però era un autocrate, non ha mai permesso che si costruisse nulla. Decise di fare l’operazione di apertura al Movimento sociale, perché riteneva che in quel momento, dopo le battaglie su aborto, divorzio, obiezione di coscienza, il partito potesse avere una capacità attrattiva verso quel mondo: non potevo candidarmi con loro. A questo punto mi chiama Luigi Berlinguer: premetto che io mi ero pubblicamente schierato contro la Legge Reale e le norme “a tutela dell’ordine pubblico”. Erano i tardi anni Settanta, gli anni di piombo, io ero convintamente garantista. Ricordo un articolo di Paolo Mieli sull’Espresso in cui prendeva in giro il partito dei garantisti: “Segretario Mancini, vicesegretario Rodotà”. Erano momenti difficili di minacce e accuse, mi dicevano “difensore dei terroristi”. Luigi mi dice che l’altro Berlinguer, Enrico, mi vuole vedere per propormi una candidatura. Ma io volevo incontrare Pecchioli, che era esattamente dall’altra parte. Il 6 aprile 1979 entro per la prima volta a Botteghe Oscure. E gli dico: “Senta voglio capire i motivi di questa offerta, visto che ho preso posizioni pubbliche molto nette, facendo nomi e cognomi tra cui il suo”. Pecchioli mi dice: “In questo momento le tue posizioni su diritti e garanzie ci interessano. Però se tu avessi preso posizioni diverse sul caso Moro, non te l’avremmo chiesto”. Ero stato anch’io, come Repubblica, sostenitore della linea della fermezza, cioè ero contrario a ogni trattativa con i terroristi. Il che non mi aveva impedito di avere rapporti con la famiglia quando si cercò la via di una trattativa non con lo Stato, ma tramite terzi, come la Croce Rossa. L’idea di andare in Parlamento m’interessava: un giurista ha delle carte da giocarsi. Così decido di candidarmi. Pannella divenne una belva, Gino Giugni e Giuliano Amato erano molto sconcertati.

L’impatto con la Camera?
Ci ho messo quasi un anno a capire dove stavo: c’era un’altissima professionalità parlamentare, non si improvvisava. Si studiava, non si andava a orecchio: bisognava stare al passo. Ho discusso infinite volte con Nilde Iotti. Le dicevo: “Nilde, la maggioranza si tutela con i numeri che ha, tu devi tutelare le minoranze“. Le minoranze erano le opposizioni, cioè il Pci. Ma lei non voleva dare l’impressione di avere un occhio di riguardo e poi non condivideva alcune forme di lotta parlamentare, come l’ostruzionismo. C’era un’idea del Pci, molto condivisa anche da Giorgio Napolitano, che le istituzioni dovessero funzionare. Ma come presiedeva Nilde Iotti… Aveva un’autorevolezza, qualcuno le imputava perfino un’aura regale. Entrava in aula spaccando il secondo, non tollerava sbavature. Tutto quello che abbiamo visto in questi anni – cartelloni, magliette, la mortadella, il cappio – con lei non sarebbe potuto accadere.

In quegli anni il capo dello Stato era Francesco Cossiga. O meglio, Kossiga.
I miei rapporti personali con Cossiga fino a un certo punto sono stati eccellenti. Chiamava così spesso a casa che a volte i miei figli si dimenticavano di riferirmi che mi aveva cercato. Mio padre ogni tanto mi chiamava e diceva: “Stefano, mi ha telefonato il presidente della Repubblica, dice che ti ha cercato ma tu non lo richiami. Richiamalo”. Lui era così. Certe sere, siccome c’è la regola che nessuno se ne può andare prima del presidente, Carla gli diceva: “Presidente, sono le tre, ho sonno”. Telefonava: “Vengo a fare una passeggiata in montagna con voi”. Purtroppo
i suoi metodi erano inaccettabili. Minacciava le persone, faceva delle vere mascalzonate. Mi chiamava e mi diceva: “Dì ai tuoi amici di Magistratura democratica che se non la piantano con la storia della massoneria, faccio l’ira di Dio”. Quando andò a occupare il Csm, io ero lì. Disse contro di me: “Rodotà pratica l’indipendenza al Csm, ma non nelle piazze della Sardegna“. E citò delle località dove io ero appena stato: più che una coincidenza.

Come sono stati gli anni di Tangentopoli visti dal Parlamento?
Già prima di Mani Pulite, il Parlamento era diventato un luogo guardato con sospetto, non più con rispetto. La sera in cui si diffonde la notizia che la Camera aveva negato l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, esco dal Parlamento e m’imbatto in gruppi di persone furibonde: ho dovuto dire a tutti che io avevo votato a favore, erano fuori dalla grazia di Dio. Sostenere che la famosa serata delle monetine è stata organizzata è una sciocchezza. La protesta era già montata. Un giorno Vito Laterza mi chiama e mi dice: “Gianni Barbacetto ed Elio Veltri hanno scritto un libro sugli scandali della politica milanese, faresti la prefazioneBobbio non ha voluto”. Io lo leggo, lo trovo interessante e scrivo. Apriti cielo: vengo addirittura deferito al collegio dei probiviri del partito, perché in quel libro veniva chiamato in causa anche il Pci milanese. E secondo loro come presidente del Pds non avrei dovuto scrivere la prefazione. Poi la cosa davanti ai probiviri si risolve in niente, e si scopre che il Pci milanese era coinvolto nelle vicende di Tangentopoli. Su questo ho avuto molti scontri con i vertici del Pci.

Ce li racconta?
Io vengo eletto presidente del Pds perché loro sbagliano i conti al congresso di Rimini e Occhetto non viene eletto, perché la maggioranza era troppo alta. Si rinvia tutto e comincia un assedio a me perche´ accetti di fare il presidente. D’Alema insiste molto, Ingrao anche. Tant’e` che vengo eletto con maggioranza bulgara. Ma non serve a tenere insieme il partito e soprattutto a fare quello che secondo me era implicito nella Bolognina, e cioè l’apertura all’esterno. Mi ostacolano in ogni modo: il cambiamento del nome sì, l’autocritica sì. Ma chi aveva in mano il partito, voleva gestirlo esattamente come prima. Allora il partito discuteva moltissimo. Io proposi che le commissioni di lavoro fossero composte per metà da iscritti e per metà da esterni. Tutti contrari. E dicevo: ma guardate che nessuno vi verrà a chiedere nomine o candidature. La verità è che mi hanno sempre considerato un corpo estraneo. Già Berlinguer aveva sollevato la questione morale. In quell’intervista a Eugenio Scalfari parlava anche al suo partito. Per me era assolutamente evidente. Io so, perché negli ultimi anni ebbi rapporti assidui con Enrico, che voleva fare pulizia nel partito, ma anche che voleva valorizzare il contributo esterno. Ricordo il mio ultimo intervento come presidente del Pds: chiesi che il partito convocasse un’assise sulla corruzione, con gli amministratori locali. C’erano stati casi, non solo a Milano.

Prima ha citato Napolitano. In che rapporti siete?
Ho avuto divergenze e buoni rapporti con Napolitano, fino a ieri. Anche la vicenda della presidenzadella Camera nel ’92 non l’ho mai personalizzata. Sono stato il primo a congratularmi con Napolitano per la sua elezione al Quirinale. Ci sono stati rapporti cordialissimi: è venuto alle nostre nozze d’oro, siamo stati spesso al Quirinale e Castelporziano. Nella questione della mia candidatura al Colle, non ho mai pensato che avrebbe portato alla mia elezione. Però pensavo che potesse dare una scossa, per uscire dalla prigionia delle larghe intese. Soprattutto, in quel momento, la rielezione di Napolitano non era nemmeno ipotizzata. Sulla vicenda delle riforme ho sempre sostenuto la loro necessità, anche in Parlamento, fin dal 1985, a cominciare dall’eliminazione del bicameralismo perfetto. A condizione però di tutelare sempre i principi fondamentali della Costituzione, di cui il presidente della Repubblica dovrebbe sempre ricordare il necessario rispetto.

Secondo lei Renzi avrà la forza di concludere questa riforma?
Spero di no, ma ormai c’è un intreccio d’interessi che va oltre. Capisco che l’espressione “autoritarismo” abbia dato fastidio, ma evidentemente abbiamo toccato un nervo scoperto. Questa parola ha svelato che il re è nudo: quel che si vuole fare è modificare la Costituzione in maniera assolutamente illegittima, per realizzare un accentramento dei poteri mascherato con l’esigenza
della governabilità. Se passano l’Italicum e questa riforma costituzionale la democrazia parlamentare è superata. E questo non si può fare. Io vedo un’enorme fragilità di questo governo. La riforma è peggio di quella che aveva voluto Berlusconi.

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21 giugno 2017 3 21 /06 /giugno /2017 20:34

Unioni civili, la senatrice chiede una legge per la maternità surrogata: "Ancora troppa omofobia, anche nel Pd"

 MARIA NOVELLA DE LUCA - La Repubblica


Finché legge non vi unisca, episodio 1 - Andrea e Christophe: ''Abbiamo svegliato l'Italia''
ROMA - Matrimonio egualitario. Riconoscimento alla nascita dei figli nelle coppie gay. Adozioni aperte a single e omosessuali. Una legge che regolamenti (ma non vieti) la gestazione per altri. "Abbiamo dimostrato che l'Italia può conquistare diritti impensabili fino a ieri, ma siamo soltanto all'inizio del cammino". Mentre le coppie omosessuali celebrano una nuova estate di unioni civili, Monica Cirinnà, 54 anni, senatrice del Pd, relatrice della legge che ormai porta il suo nome, festeggia e racconta i primi dodici mesi di un'Italia che a passi lenti cambia nel profondo, muta pelle, abbatte pregiudizi. "Ho partecipato a decine di cerimonie da Nord a Sud. Un'esperienza umana incredibile. Ho visto coppie anziane "legalizzare" i propri amori coronando il sogno di una vita, donne e uomini vittime di emarginazione e discriminazioni ritrovare coraggio, persone malate che hanno detto sì in punto di morte. E tanti giovani felici di iniziare una vita insieme".

Ma, appunto, Monica Cirinnà rilancia. Dalla stepchild adoption alla "gestazione per altri". "Li ritengo diritti fondamentali. Aver dovuto sacrificare il futuro dei bambini nati nelle coppie gay per far passare la legge è stato per me un passo forzato e doloroso. Del resto, nel nostro Parlamento l'omofobia è ancora un sentimento tutt'altro che nascosto e soprattutto trasversale ai partiti...".

Anche nella sinistra senatrice Cirinnà?
"Sì, e nemmeno il Pd ne è immune. Esiste una componente ultraclericale che di certo non ha favorito la legge. E si è opposta con forza all'adozione coparentale".

Ma c'è la volontà politica di riformare una legge appena nata?
"Più che riformare direi integrare, se si abbandona la "balcanizzazione" dei rapporti tra destra e sinistra. L'obiettivo è il matrimonio egualitario. Esiste già una proposta di legge depositata. E poi lo prevede l'articolo 3 della Costituzione: tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione... Ma così non è".

Però avete sempre detto che le unioni civili assicurano gli stessi diritti del matrimonio.
"Certo. Ma all'interno di una formazione sociale specifica destinata solo alle coppie omosessuali. Era giusto fare quel primo passo. Però il matrimonio dovrebbe essere unico, senza differenze. E l'eguaglianza sarebbe fondamentali là dove ci sono i figli".

Le coppie gay sposate così potrebbero riconoscerli alla nascita?
"Nelle famiglie formate da un uomo e da una donna, lei partorisce, il padre riconosce il bambino. Mica adotta suo figlio. E così per estensione dovrebbe avvenire nelle coppie formate da due madri o da due padri".

Due padri. Appunto. I quali per diventare genitori devono ricorrere all'utero di una mamma portatrice...
"Sì, e anche all'ovocita di una donna donatrice...E francamente per quanto mi riguarda ritengo tutto questo un atto d'amore straordinario".

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Lei dice donare. Ma la surrogacy è tutt'altro che gratuita.
"Finché è su base volontaria e non c'è sfruttamento, per me è legittima. La ricerca dimostra che motivazione altruistica e passaggio di denaro - ad esempio in forma di rimborso spese - possono convivere. Facciamo piuttosto una legge severa che non permetta abusi, visto che il 95% degli italiani che ne fa ricorso all'estero sono eterosessuali. Mi stupisce invece la battaglia contro la maternità surrogata che stanno portando avanti alcune compagne femministe".

L'idea è che la surrogacy sia una nuova drammatica forma di sfruttamento delle donne.
"Si sono dimenticate di quando dicevamo l'utero è mio e lo gestisco io? Perché l'autodeterminazione del corpo è accettata se dolorosamente scelgo di abortire ma non lo è quando dono il mio utero? Sa qual è stato uno dei momenti più violenti nella battaglia sulle unioni civili?".

Quale?
"Quando il senatore Gasparri definì in aula "bambini comprati" i figli nati attraverso la gestazione per altri. Chi ha subito l'orrore di quella discussione? I bambini, che continuano a pagare il prezzo più alto. Non solo nelle coppie gay, se pensiamo ad esempio alle adozioni".

Previste oggi soltanto per le coppie etero e sposate.
"Negare l'adozione ai singoli e ai gay è anacronistico: lo ha detto anche la commissione Giustizia della Camera. Così come viola la pari dignità sociale, vietare l' eterologa a una single o a una coppia lesbica. Tanti italiani continuano ad andare all'estero per far nascere e purtroppo anche per morire: ci vogliono leggi nuove. Ce l'abbiamo fatta per le unioni civili, possiamo ricominciare".

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21 giugno 2017 3 21 /06 /giugno /2017 20:20

Lo scrittore libico Hisham Matar racconta un suo viaggio nell’America di Trump insieme a “Lord Jim”: “Mi ha insegnato l’arte del dubbio”

HISHAM MATAR - La Repubblica

Lo scorso novembre, qualche giorno dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali, sono volato in Arkansas per un reading alla biblioteca pubblica di Fayetteville. Il tragitto dall’aeroporto all’albergo costeggiava i ranch. Ancora oggi, dopo secoli, gran parte dell’architettura americana, con le sue frettolose certezze, appare provvisoria. Io pensavo allo sventurato marinaio, un personaggio minore che compare brevemente in “Lord Jim”. Perde la pazienza e impreca in un inglese sgrammaticato: «Io faccio me zittadino americano ». Il narratore di Conrad ci dice che il marinaio «sbuffava, smaniava e torceva i piedi come per liberare le caviglie da un invisibile e misterioso laccio». L’immagine di un uomo adulto che lotta per liberarsi, mentre dichiara con enfasi che intende mondarsi dalla storia, mi aveva fatto ridere durante il volo.

Perché avevo portato Lord Jim con me? L’avevo già letto parecchie volte e l’avevo messo in valigia, a Londra, con la sensazione di infilarci un talismano. Ero contento di visitare luoghi degli Stati Uniti dove non ero mai stato, luoghi come l’Arkansas, e di farlo in un momento di profonda divisione politica del paese. Eppure, benché io sia nato negli Stati Uniti, mia moglie sia americana e i miei genitori ci abbiano vissuto nei primi anni del loro matrimonio, nessun paese mi rende più malinconico. In nessun luogo mi sento più estraneo, più fuori posto e fuori tempo. È come se nel momento in cui atterro nel paese, si chiudessero le porte alle mie spalle.

Forse per questo avevo portato con me Lord Jim. Le frasi di Conrad mi fanno sentire meno spaesato, il che è strano dal momento che sono esse stesse minuscole illustrazioni di spaesamento. Spesso si considera eccezionale il fatto che Conrad abbia scritto numerosi capolavori non nella sua lingua madre, il polacco, e neppure nella sua più accessibile seconda lingua, il francese, bensì nella sua terza, l’inglese, riuscendo per di più a creare una prosa che è al contempo interamente sua e tra le più belle che siano mai state scritte in tale lingua. Ma ciò che più mi affascina è il modo in cui – intenzionalmente o meno, per un’abitudine acquisita negli anni passati in mare o, dopo che si stabilì a Bishopsbourne nel Kent e fece dell’Inghilterra la sua patria, per una caparbia reazione al carattere nazionale che può far sembrare impermeabile l’inglese – nelle sue narrazioni riuscì a mantenere e sviluppare quella che si potrebbe chiamare arte del dubbio, della sospensione del giudizio. Leggere Conrad ci avvicina quanto più è possibile a vedere come sarebbe potuta andare se la storia umana fosse diversa e noi appartenessimo meno alle nazioni e più alla natura.

Ho lasciato i bagagli in albergo e sono andato alla biblioteca. Dovevo leggere passi del mio nuovo libro, Il ritorno, in cui descrivo il mio ritorno in Libia dopo trentatré anni di esilio. Avevo, come al solito, riflettuto troppo su quali pagine leggere e, anche questo come al solito, continuavo a dubitare della mia scelta perfino mentre raggiungevo il podio. Nel pubblico c’erano persone di varie età. Parecchie facce arabe. Arabi in Arkansas. Perché stupirsi? Dopo tutto, questo è un posto nuovo, un posto dove la gente approda da anni, per eludere o cercare un qualche sé inventato.

Dopo il reading ho risposto alle domande, fino a quando il moderatore ha annunciato che c’era tempo solo per l’ultima. Una donna, che era rimasta per tutto il tempo in piedi in fondo alla grande sala, ha chiesto la parola. «Sono siriana», ha detto. «Non so come chiederglielo, ma... ecco, ho letto il suo libro e quello che non capisco è come lei riesca a scrivere in tempi come questi. Con tutte le cose orribili che succedono, in Libia, in Siria, in tutta la nostra regione... vedendo le immagini, sentendo le storie, insomma tutto», ha detto. Poi ha aggiunto: «Io non sono più riuscita a pensare ad altro, meno che mai a scrivere. Credo di aver perso la fede. C’è qualcosa che può dirmi?». Non so perché, forse per esprimere il mio apprezzamento verso di lei, o forse per rendermi più vulnerabile alla sua domanda, o forse il contrario, sta di fatto che mi sono meccanicamente spostato da dietro il podio e ho raggiunto l’orlo della pedana, per andarle più vicino. Mi domandavo se fosse la poetessa di cui mi aveva parlato un amico.

«La sua intuizione...», ho detto. Volevo essere il più rigoroso e paziente possibile. «La sua intuizione che politica e letteratura siano connesse, è giusta, credo, ma eviterei di vederla come una connessione diretta, lineare o perfino ovvia. In altre parole, gli scrittori devono evitare il rischio di aderire alla logica del discorso scontato. Il danno peggiore che ci può infliggere il despota è ridurci al suo ventaglio di scelte, dirci non solo come dobbiamo vivere ma anche come dobbiamo esercitare la nostra immaginazione».

Dopo l’incontro la donna siriana mi si è avvicinata e, fin troppo gentilmente, ha detto: «Grazie. Mi è stato d’ispirazione».

Ho fatto il nome del mio amico e lei ha sorriso.

«Sì, mi ha detto che sarebbe venuto».

Non credo che la gente si renda conto di quanto sono difficili le cose oggi per gli arabi. E sono difficoltà di lunga data. Non credo, per esempio, che la gente capisca davvero come sia stato orribile crescere guardando la Palestina divorata giorno per giorno. Credo che neppure noi arabi comprendiamo appieno gli effetti psicologici che ciò ha avuto su di noi come popolo, la disperazione e la rabbia. E non credo che ci rendiamo conto di quanto quella lunga e protratta corrosione abbia alterato la nostra politica. Il mio non è un tentativo riduttivo di attribuire tutta la complessità e i disastri del Medio Oriente alla questione palestinese, bensì di mostrare quanto profondamente influisca sul presente. E non credo sia facile comprendere appieno l’effetto che ha sulle nostre società vedere il proprio popolo che massacra e da noi stessi viene massacrato. La guerra civile è un trauma nazionale, ma è anche, e forse in modo più intenso e duraturo, una tragedia personale. Tinge ogni ora. Ti riempie di infinito sconcerto. In una guerra civile, non sai da che parte guardare.

Non ho detto alla poetessa siriana che vive in Arkansas quante volte durante la rivoluzione libica avevo pensato di deporre la penna e imbracciare un fucile. Non le ho detto che la scrittura funziona solo se si smette di usarla come un’arma. Che ogni volta che ho tentato di piegarla a un altro scopo mi è parso di tradirla. Vorrei averglielo detto. Vorrei averle detto che la scrittura è intransigente riguardo alla propria libertà, e che è sempre, per sua natura, contro la semplificazione eccessiva e contro la tirannia; che predilige la complessità, ed è interessata agli uomini e alle donne capaci di scostarsi da sé, interessata alla possibilità di essere l’altro, interessata alla conradiana condizione di essere – innanzitutto e soprattutto – umani.

Hisham Matar 2017 Traduzione di Anna Nadotti

Non credo che la gente si renda conto di quanto oggi siano difficili le cose per gli arabi. E sono difficoltà di lunga data La guerra civile è un trauma nazionale, ma è anche una tragedia personale. Tinge ogni ora. E ti riempie di sconcerto

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20 giugno 2017 2 20 /06 /giugno /2017 17:18

C'è una contraddizione tra il titolo e l'articolo, un punto di vista (ndr.)

Lo storico spiega la modernità della Riforma protestante avviata nel 1517: "Le cose che oggi ci preoccupano sono già accadute 500 anni fa, quando gli uomini facevano esperienza dell'insicurezza"

ALBERTO MELLONI - La Repubblica

Nell'ultimo centenario della morte di Martin Lutero (1546), una settantina di anni fa, né Horst Kasner, pastore luterano della DDR, né Rosa Vassallo, pia piemontese cattolica emigrata in Argentina, avrebbero mai immaginato che per il giubileo delle tesi con cui iniziò la Riforma protestante, la figlia del pastore - la cancelliera della Germania unita Angela Merkel - e il nipote di nonna Rosa - papa Francesco - si sarebbero incontrati come accade oggi per parlare di politica e di pace in un mondo che sembra avere reso la fede di Lutero non più un punto di divisione, ma un punto di contatto. Opera dello Spirito che ha svelenito la violenza confessionale?

Prova della banalità di una società percorsa da un devastante analfabetismo religioso? Per capirlo bisogna ritornare al Lutero della storia. Una delle cose che farà la European Academy of Religion: una piattaforma di ricerca fra Europa, Mediterraneo Medio Oriente e Russia che si riunisce a Bologna da domani al 22 giugno per la "conferenza zero". Ci saranno 500 istituzioni aderenti, 1000 studiosi di 46 Paesi, 140 panel, 600 papers, 15 lezioni: e fra queste l'intervento di Heinz Schilling, il grande storico tedesco, autore di una monumentale biografia di Lutero (uscita in Italia da Claudiana, a cura di Roberto Tresoldi), in cui ha riversato decenni di studi.

"Lo storico deve prendere decisamente posizione e resistere alle tentazioni e alle pretese della politica e soprattutto delle Chiese, che dichiarano: "Non vogliamo avere nulla a che fare con la storia" - dice Schilling - . Il dovere dello storico è mostrare cosa Lutero e tutti gli altri protagonisti del tempo fecero in un mondo estraneo, che non è il nostro. E chiedersi quali sono quegli elementi che hanno influenzato la vita degli europei nel corso degli ultimi 500 anni, non solo dalla prospettiva della Riforma protestante, ma anche da quella delle altre Chiese, soprattutto della cattolica".

Il "suo" Lutero viene liberato dalla caricatura del monaco modernizzatore lanciato contro un papato medievale.
"La campagna per le indulgenze, a mio parere, fu uno strumento moderno nelle mani del papato per raccogliere denaro per un fine importantissimo come la costruzione della più grande Chiesa della cristianità. Il Papa fu il primo tra gli uomini di Stato e i principi dell'età moderna a sviluppare qualcosa come uno Stato sovrano. Addirittura la politica militare della Chiesa - si pensi a quella di papa Giulio II - era la migliore del tempo. Insomma, il papato non era - come hanno affermato i protestanti guardando Roma con gli occhi di Lutero - ai margini del processo di modernizzazione. Era all'avanguardia come la Spagna. Tutto questo, però, per Lutero non contava".

Cosa contava per Lutero?
"Il suo interesse era profondamente religioso: per lui Roma tradiva la fede proprio perché si stava incamminando verso la modernità. Lutero non era interessato agli sviluppi della sua epoca. Era alla ricerca di un Dio misericordioso. La sua domanda non poteva essere nel cuore del papato e della curia di allora, che lo affrontarono con la bolla di scomunica. Lutero si trovò davanti a un dilemma. Si domandò: "Torno alla sicurezza della vita monastica, sapendo di raggiungere la salvezza eterna, oppure affronto il Papa e mostro ai miei contemporanei che la strada della Chiesa romana porta alla rovina, rischiando così la mia vita?". Alla fine decise di affrontare Roma e il Papa in persona, insultandolo e chiamandolo Anticristo".

Perché quella scelta oggi può ancora risultare interessante?
"Quello che stupisce le persone, almeno in Germania, è scoprire che le cose che oggi ci preoccupano sono già accadute 500 anni fa, quando gli uomini facevano esperienza di un'insicurezza religiosa e intellettuale, quando si svilupparono dei conflitti tra potenze mondiali di allora come gli Ottomani e gli Asburgo. E quando si scatenarono guerre in territori dove si combatte anche oggi come la Siria e l'Iraq, dove furono prese delle decisioni che cambiarono il corso della storia del califfato, che passò dalla predominanza araba a quella ottomana. Grazie a Lutero e alla Riforma, ma anche a causa dell'incertezza di oggi, è diventato chiaro come sia importante studiare e prendere in considerazione un ampio periodo storico per comprendere gli sviluppi del presente. In Germania si era finito per non insegnare più la storia precedente al XX secolo: è un errore pericoloso".

Cosa dovrebbero fare le Chiese?
"Dobbiamo stare attenti a non perdere interesse per le differenze storiche e teologiche. Non ci si può limitare a dire: "In fondo siamo tutti cristiani e prima o poi torneremo uniti". Questo punto di vista è pericoloso perché rischia di far perdere la sostanza delle singole culture confessionali che alla fine non riconoscono più il nocciolo della loro fede. Certo, non ci si può non rallegrare - e questo vale naturalmente anche per papa Francesco - che si ascolti e accetti l'altro in amicizia".

A cosa dovrebbe portare allora questo giubileo della Riforma protestante?
"Dovrebbe spingere a rafforzare l'amicizia e l'accettazione reciproca da un lato. E dall'altro provocare anche l'elaborazione in prospettiva storica di

quello che è stato il nostro sviluppo teologico. Dobbiamo essere finalmente consapevoli di quanto si sia diversificata la cultura religiosa europea, nella consapevolezza che siamo tutti parte di una famiglia che segue riti differenti senza combattersi l'un l'altro".

Già senza combattersi.

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28 maggio 2017 7 28 /05 /maggio /2017 10:25

Eraldo Affinati - La Repubbblica

Dobbiamo spiegare che il mondo può essere malvagio ma noi abbiamo la possibilità di contrapporci alla solitudine cui destinato é destinato il vendicatore Chi usasse l'ennesima tragedia come un'arma retorica , si metterebbe sullo stesso piano dei terroristi. E allora come sottrarci alla violenza senza fine?

I bambini e gli adolescenti caduti come fantocci accanto ai loro genitori nell’arena di Manchester sfondano le nostre difese psicologiche, al punto che vorremmo immaginarli chissà dove a riscuotere un sacrosanto risarcimento. Ma il Paradiso e l’Inferno, fino a prova contraria, sono qui, fuori e dentro di noi: dipendono dalle scelte che facciamo giorno per giorno, ora per ora, nei luoghi in cui viviamo, al cospetto delle persone che incontriamo. I vecchi maestri avevano ideato espressioni specifiche per illustrare queste azioni di discernimento: responsabilità e libero arbitrio, parole troppo grosse che oggi quasi non possiamo più pronunciare perché consunte dall’uso improprio che ne è stato fatto.

Penso a un piccolo scolaro tunisino venuto a Roma col quale mi piaceva giocare a calcio nei pressi della comunità educativa in cui era ospite. Una volta il pallone finì sulle scale della chiesetta adiacente e lui, dopo averlo ripreso, scappò via a gambe levate. Gli chiesi cosa lo avesse spaventato. Con rapidi gesti eloquenti mi rispose che là abitavano i cristiani: per questo si era dato alla fuga. A quel frugoletto qualcuno aveva insegnato l’odio. Ci vollero diversi mesi di scuola, amici, partite e play station per rabbonirlo: fargli capire che il mondo può essere malvagio, sì, ma noi abbiamo le possibilità di contrapporci al rancore, all’invidia, all’arroganza, all’egoismo, all’amarezza e, in ultima analisi, alla solitudine cui è inevitabilmente destinato il vendicatore.

La risposta militare, che non può essere evitata, è sale sulla ferita. La pura e semplice contrapposizione ci costringe all’interno del conflitto mimetico, secondo la classica definizione di René Girard, in un circuito chiuso, interminabile, privo di sbocchi, almeno finché non troviamo il capro espiatorio. Stiamo parlando di zone d’ombra, boschi biologici, cervelli rettili che albergano dentro il nostro animo e tuttavia hanno nome e cognome, sigle e sistemi di potere: non cadono dall’alto ma scaturiscono dal pensiero degli individui spargendo veleno. Mi vengono in mente certi ragazzi albanesi venuti in Italia anche per sfuggire alla faida regolata dal codice del Kanun: alcuni di loro mi hanno raccontato che, se fossero rimasti a casa, avrebbero rischiato la vita ogni giorno.

Chi speculasse su Manchester, usando l’ennesima tragedia come un’arma retorica, si metterebbe sullo stesso piano dei terroristi: questo ormai lo sappiamo. E allora cosa dovremmo fare? Come sottrarci alla catena della violenza senza fine? Diciamo la verità: istintivamente saremmo tutti dalla parte di Renzo che, nel finale dei Promessi sposi, vorrebbe farsi giustizia da solo. A stento Fra Cristoforo lo trattiene. E quando nel lazzaretto degli appestati giungono entrambi al cospetto di Don Rodrigo morente, il religioso, indicando l’antico avversario ridotto allo stremo, dichiara: «Può essere gastigo, può esser misericordia».

Difficile ritrovare in noi la chiarezza interiore che aveva consentito a Lucia di promettere il perdono al Nibbio mentre questi la rapiva, suscitando lo sconcerto del bravo e il tumulto spirituale dell’Innominato. Ci vorrebbe la forza del signor Antoine Leiris, al quale i fondamentalisti parigini uccisero la moglie al Bataclan, che, rivolto ai colpevoli, dichiarò: «Non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete». Dopo l’ennesimo eccidio dovremmo ripartire da lui. Dall’esempio straordinario di quell’uomo ferito. Dalla sua capacità di distinguere. Di non fare di tutta l’erba un fascio. Soltanto se ci riuscissimo potremmo staccare la spina della carica elettrica che, di fronte al sopruso subito, sentiamo come fosse una scossa.

Non dimenticando il male ricevuto, questo no, sarebbe ingiusto oltreché impossibile, bensì dandogli un senso. «Accettare il debito non pagato, accettare di essere e rimanere un debitore insolvente, accettare che ci sia una perdita» ha scritto Paul Ricoeur. Per farlo bisogna ricucire lo strappo che Salman Abedi, il terrorista di Manchester, ha inferto al tessuto connettivo già tanto fragile del Vecchio Continente. Ritrovare, proprio in questo momento critico, la convinzione politica e l’energia vitale che nei giorni scorsi, prima a Barcellona poi a Milano, ha spinto centinaia di migliaia di persone a partecipare alle ultime marce in favore dell’accoglienza nei confronti degli immigrati, rifiutando qualsiasi logica divisiva che, al contrario, ogni colpo inferto dagli attentatori vorrebbe imporci.

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25 maggio 2017 4 25 /05 /maggio /2017 15:23

 

E'utile ripubblicare questo post 

I comportamenti, il modo di vivere nella quotidianità di due persone normali sconfiggeranno i populisti e le paure diffuse a piene mani dalla cultura del guardarsi indietro. Queste persone dimostrano che si può impostare la vita di ogni giorno nel vero piacere e nella felicità anche in occasioni tragiche e se si è circondati dalle tenebre(ndr.)

http://www.corriere.it/esteri/17_aprile_21/compagno-l-impegno-diritti-gay-l-incubo-bataclan-chi-era-xavier-poliziotto-ucciso-parigi-ccd936e0-2697-11e7-b6b1-a150ed5c16fd.shtml

http://video.corriere.it/ricordo-compagno-poliziotto-ucciso-parigi-questo-odio-non-ti-appartiene/e0356e74-29a9-11e7-9909-587fe96421f8

Attentato sugli Champs Élysées,
il compagno del poliziotto ucciso:
«Sarai nel mio cuore per sempre»

Etienne Cardiles, per quattro anni compagno di Xavier Jugelé, il poliziotto ucciso a Parigi lo ricorda: «Dovevamo andare in vacanza, ora soffro senza odio perché l’odio non ti apparteneva, resterai nel mio cuore per sempre. Ti amo» Questo odio non lo provo perché non ti appartiene, perchè non corrisponde a nulla di ciò che faceva battere il tuo cuore che ti aveva reso agente e guardiano della pace. Perchè l'interesse generale, il servizio verso gli altri e la protezione di tutti facevano parte della tua educazione e convinzione .La comprensione, il dialogo e la tolleranza sono le armi migliori.

Elisabetta Rosaspina

«Quando si è sparsa la voce che qualcosa grave stava accadendo sui Champs Élysées e che un poliziotto era stato ucciso, una piccola voce dentro di me mi ha detto che eri tu, Xavier. E mi sono subito venute in mente quelle parole: non avrete il mio odio»: nel silenzio del cortile della Prefettura di Polizia, davanti alla bara dell’agente caduto nell’ultimo attacco terroristico che ha colpito la Francia, il suo compagno cita la memorabile lettera aperta ai terroristi scritta da Antoine Leiris, marito di Héléne Muyal, una delle 90 vittime della strage al Bataclan, il 13 novembre del 2015. «È stata una lezione di vita che mi ha fatto crescere e che oggi mi protegge», ha detto, riconoscente a Leiris, che ha incontrato e abbracciato.

«Dovevamo andare in vacanza»

Da questa mattina per la Francia, grazie a Etienne Cardiles, che ha condiviso gli ultimi quattro anni di vita di Xavier Jugelé, il poliziotto assassinato giovedì 20 aprile, a poche decine di metri dall’Arco di Trionfo, non è più soltanto il volto pulito di un ragazzo in divisa, falciato in servizio dai colpi di un fanatico, a 72 ore dalle elezioni presidenziali. Per la prima volta, a una cerimonia di omaggio nazionale, ha preso la parola – prima del presidente della Repubblica – il congiunto di una vittima. E lo ha fatto per restituirne al Paese l’immagine più intima e personale. Partendo dagli ultimi momenti passati con lui: «Xavier, giovedì mattina quando sono uscito per andare come ogni giorno al lavoro, tu dormivi ancora – Etienne Cardiles ha esordito nel cortile dell’onore della Prefettura di polizia dove le massime autorità dello Stato, della capitale e delle forze armate erano schierate stamattina per l’estremo saluto al giovane capitano, promosso a titolo postumo -. Durante la giornata ci siamo scambiati innumerevoli messaggi sulla nostra prossima vacanza in un Paese lontano, che sognavi da tempo. Avevamo comprato i biglietti martedì».

«Resterai sempre nel mio cuore»

Non si è dimenticato del lavoro e della sofferenza dei colleghi di Xavier: «Ancora prima di conoscerti, ammiravo già questa vocazione di proteggere e garantire i diritti di tutti i cittadini» ha aggiunto Etienne Cardiles, prima di raccontare con semplicità chi era, nel suo tempo libero, il poliziotto disteso nella bara davanti a lui, il suo amore per la musica, per la cultura, il cinema: «Cinque film di fila in un pomeriggio di sole, non ti facevano paura – ha ricordato il compagno di Xavier -. Resterai nel mio cuore per sempre. Ti amo. Restiamo degni e vegliamo sulla pace, conserviamo la pace», ha concluso nel silenzio totale del cortile della Prefettura e dei poliziotti in borghese, radunati all’esterno, davanti allo schermo gigante su cui si proiettavano le immagini della cerimonia.

“Vous n’aurez pas ma haine”

Vendredi soir vous avez volé la vie d’un être d’exception, l’amour de ma vie, la mère de mon fils mais vous n’aurez pas ma haine. Je ne sais pas qui vous êtes et je ne veux pas le savoir, vous êtes des âmes mortes. Si ce Dieu pour lequel vous tuez aveuglément nous a fait à son image, chaque balle dans le corps de ma femme aura été une blessure dans son coeur.

Alors non je ne vous ferai pas ce cadeau de vous haïr. Vous l’avez bien cherché pourtant mais répondre à la haine par la colère ce serait céder à la même ignorance qui a fait de vous ce que vous êtes. Vous voulez que j’ai peur, que je regarde mes concitoyens avec un oeil méfiant, que je sacrifie ma liberté pour la sécurité. Perdu. Même joueur joue encore.

Je l’ai vue ce matin. Enfin, après des nuits et des jours d’attente. Elle était aussi belle que lorsqu’elle est partie ce vendredi soir, aussi belle que lorsque j’en suis tombé éperdument amoureux il y a plus de 12 ans. Bien sûr je suis dévasté par le chagrin, je vous concède cette petite victoire, mais elle sera de courte durée. Je sais qu’elle nous accompagnera chaque jour et que nous nous retrouverons dans ce paradis des âmes libres auquel vous n’aurez jamais accès.

Nous sommes deux, mon fils et moi, mais nous sommes plus fort que toutes les armées du monde. Je n’ai d’ailleurs pas plus de temps à vous consacrer, je dois rejoindre Melvil qui se réveille de sa sieste. Il a 17 mois à peine, il va manger son goûter comme tous les jours, puis nous allons jouer comme tous les jours et toute sa vie ce petit garçon vous fera l’affront d’être heureux et libre. Car non, vous n’aurez pas sa haine non plus.

 

“Non avrete il mio odio”
Venerdì sera avete rubato la vita di un essere eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio ma non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio saperlo, siete delle anime morte. Se questo Dio per il quale voi uccidete ciecamente ci ha fatto a sua immagine, ogni proiettile nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore.

Allora io non vi farò questo regalo di odiarvi. Voi l’avete cercato ma tuttavia rispondere all’odio con la rabbia vorrebbe dire cedere nella stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Volete che io abbia paura, che guardi i miei concittadini con occhi diffidenti, che sacrifichi la mia libertà per la sicurezza. Perso. Stesso giocatore gioca ancora.

L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era così bella, come quando è uscita questo venerdì sera, così bella come quando me ne innamorai perdutamente più di 12 anni. Certamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma vi assicuro che sarà di breve durata. So che lei ci accompagnerà ogni giorno e che noi ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere a cui voi non avrete mai accesso.

Siamo in due, io e mio figlio, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo raggiungere Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha 17 mesi appena, mangerà la sua pappa come tutti i giorni, poi giocheremo come tutti i giorni e per tutta la sua vita questo piccolo ragazzo vi farà l’affronto di essere felice e libero. Perché no, non avrete neanche il suo odio.

Il compagno del poliziotto ucciso sfida i terroristi e fornisce una indicazione civile per le nazioni e per tutti noi  con due sole parole: ti amo

Il discorso del compagno dell'agente Xavier Jugelé, ucciso durante l'attacco sugli Champs Élysées, è di alto profilo etico: non è entrando nel circolo vizioso dell'odio e della violenza che si può combattere e contrastare l'intolleranza, l'integralismo e la barbarie

MICHELA MARZANO -  La Repubblica

"Non avrete il mio odio" ha detto Etienne Cardiles ricordando Xavier Jugelé, l'agente trucidato a Parigi lo scorso 20 maggio durante un attacco terroristico di matrice islamista. Utilizzando le stesse parole che Antoine Leiris aveva usato nei confronti degli assassini della moglie subito dopo gli attentati del 13 novembre 2015, Etienne rende così omaggio al proprio compagno, con semplicità, rigore e dignità. Xavier era l'amore della sua vita e si batteva per la giustizia e la sicurezza di tutti e di tutte. Xavier non avrebbe tollerato che il proprio sacrificio si trasformasse in una sconfitta della tolleranza e della civiltà. Come si fa d'altronde a odiare, anche se si è completamente distrutti dal dolore e si sperimenta il vuoto assoluto della perdita, quando è con l'altra persona che si è imparato l'amore? "Quest'odio non ti somiglia, resterai nel mio cuore per sempre. Ti amo", ha continuato Etienne salutando il compagno. A tratti commosso. A tratti teso. A tratti contratto. Coerente fino in fondo con gli ideali per i quali Xavier non aveva mai smesso di battersi impegnandosi in prima persona non solo per la difesa della democrazia e dei valori della République, ma anche per i diritti delle persone omosessuali.

Il messaggio che ci giunge ancora una volta dalla Francia è di alto profilo etico:
non è entrando nel circolo vizioso dell'odio e della violenza che si può combattere e contrastare l'intolleranza, l'integralismo e la barbarie che si stanno riversando in questi ultimi anni in Occidente. Al contrario. È solo mostrandosi capaci di amore fino in fondo, anche quando si è circondati dalle tenebre, che si può poi dare un messaggio di speranza ai più giovani e trasformarsi in scudo della democrazia. Per non dire poi dell'evidente normalità con cui un gay parla del proprio compagno, senza esibizionismo e senza paura, mostrando come l'amore non solo non abbia limiti, ma non sia nemmeno legato al sesso o al genere come ancora talvolta si pensa o si sospetta in Italia.

In un momento delicato della vita politica francese, a pochi giorni dalle
elezioni presidenziali che vedono al secondo turno la candidata del Front National, il messaggio d'amore di Etienne ci ricorda non solo quanto tutti noi dobbiamo alle forze dell'ordine - solo in Francia, nel 2016, sono stati otto i poliziotti e quattordici i gendarmi assassinati in attacchi terroristici - ma anche quanto è importante non perdere mai di vista i valori fondanti delle nostre democrazie occidentali. Ci si deve difendere contro la barbarie, ma non per questo ci si può dimenticare che chiunque, come spiegava Hannah Arendt, può "banalmente" commettere il male quando immagina che l'unico modo per contrastare l'intolleranza e la violenza sia quello di diventare a propria volta intolleranti e violenti.

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25 maggio 2017 4 25 /05 /maggio /2017 15:17

Attentato di Manchester - L'orrore spiegato ai nostri figli

http://www.cislscuola.it/typo3temp/pics/A_09ff21aad7.jpg

 

E’ dedicata all’ennesimo mostruosa carneficina - quella di Manchester di lunedì scorso, 22 maggio, che ha causato la morte di 22 persone (soprattutto teen ager) e il ferimento di altre svariate decine - la “controcopertina” di Repubblica del 24 maggio 2017. Attraverso tre preziosi e lungimiranti articoli, Massimo Recalcati, Massimo Ammaniti ed Eraldo Affinati ci introducono nel “compito di chi sopravvive alla tragedia”, nelle “parole giuste per non turbare i più piccoli”, nella “sfida di resistere alla rabbia, a partire dalla scuola”

 

Il compito di chi sopravvive alla tragedia
Massimo Recalcati – La Repubblica

Quale responsabilità hanno gli adulti che osservano impotenti lo scempio compiuto sulle vittime innocenti? Quello di far sì che la nostra resti una società aperta.

L’obiettivo tragicamente chiaro: uccidere nel mucchio le vite dei nostri figli in un luogo di festa. Lo strumento terribilmente noto: una bomba cieca costruita per fare a pezzi i loro giovani corpi offrendoli al Dio pazzo e sanguinario che vuole la morte degli infedeli. E noi? Noi che restiamo attoniti di fronte a questa orrida malvagità? Non siamo solo esposti allo sgomento della nostra vulnerabilità impossibile da proteggere, al fatto semplice e brutale che niente può garantirci una sicurezza adeguata se il “nemico” ci colpisce in questo modo moltiplicando infinitamente i nostri punti sensibili. Siamo anche investiti di una responsabilità enorme.

Cosa fare, cosa dire di fronte all’angoscia dei nostri figli? Quale responsabilità hanno gli adulti che osservano impotenti lo scempio compiuto sulle vite innocenti? Cosa possiamo fare per aiutare quelle vite che non sono state spezzate dalla violenza assurda della morte? L’obiettivo del narcisismo folle del terrorista islamico è quello di generare angoscia. Colpire l’innocente è colpire tutto il mondo. In gioco non è solo la punizione dell’Occidente corrotto, ma la chiusura, l’annientamento dell’orizzonte stesso del mondo. Dopo ogni attentato dove i nostri figli muoiono, muore con loro anche un pezzo di mondo. Dopo ogni attentato l’orizzonte del mondo si restringe, la libertà si riduce, si contrae, non è più libera.

Siamo tutti, a causa della follia terrorista, nella condizione paradossale di vivere in una sorta di libertà prigioniera. È questo il vero messaggio di morte che il terrorismo ogni volta rinnova soprattutto quando stronca la vita nel pieno della sua giovinezza. La nostra prima responsabilità è fare in modo che questo lutto possa diventare davvero collettivo. Ma cosa significa? Condividere il lutto — renderlo collettivo — significa condividere un dolore sordo che vorrebbe separarsi e allontanarsi da tutto, significa continuare a scegliere l’apertura del mondo alla tentazione della sua chiusura. È il terrorismo che vuole il muro, la guerra, lo scontro, il conflitto senza tregua. È il terrorismo che vuole che il mondo si chiuda, che perda la sua apertura.

Condividere il lutto significa allora preservare il mondo come un luogo aperto del quale non si deve avere paura. Come accade in quel noto esperimento di psicologia evolutiva dove si invita un bambino piccolo a gattonare verso un precipizio illusorio. Se il volto della madre che lo osserva reagisce con un’espressione di spavento, il bambino si blocca e si mette a piangere disperatamente. Se, invece, la madre risponde con un sorriso il bambino, dopo un attimo di esitazione, riprende a gattonare attraversando felice e sicuro il precipizio. La paura è dissolta.

Ecco la responsabilità che ci investe: dare prova di saper resistere, di fronte allo sguardo impaurito dei nostri figli, alla tentazione della chiusura. Nella vita dei nostri figli — nella vita dell’innocente — è custodito il segreto del mondo. La vita dei nostri figli coincide con l’avvenire, con il dono, con la vita stessa del mondo. Sopprimerla è voler sopprimere la vita del mondo. Tenere aperto il mondo è, dunque, la sola possibilità di continuare a fare vivere i nostri figli. Solo se non tutto è morte, la vita può avere ancora un senso.

Questo non significa sottovalutare il delirio teologico che ispira questi assassini. Il loro mondo vorrebbe sopprimere il mondo in quanto tale. È la manifestazione più odiosa del fondamentalismo. Essi ci dicono: «Il tuo mondo non vale nulla, è fatto di concerti e cose frivole, è fatto solo di polvere; il solo mondo che conta è il mondo al di là del mondo dove i martiri saranno ricompensati illimitatamente del loro sacrificio». Ecco, noi siamo, invece, quelli che abitano il mondo. È questa la prova che dobbiamo sostenere per amore dei nostri figli: mostrare loro che questo mondo fatto di polvere è in realtà anche ricco di luce, che non tutto è morte.

Si tratta di testimoniare più che spiegare. Testimoniare cosa? Testimoniare l’apertura e non la chiusura del mondo. Come? Non avendo paura, rifiutando l’angoscia, respingendo la rassegnazione. Mostrare che la morte non è l’ultima parola sulla vita. Non lasciare che l’illusione teologica dei terroristi trasformi il nostro mondo in un luogo di polvere e di paura. Di fronte al flagello inesorabile dell’epidemia che trascinava con sé le vite di bambini innocenti, il padre gesuita Paneloux, uno dei protagonisti del romanzo “La Peste” di Camus, distingueva gli uomini in due tipi: quelli che fuggono dal dolore e dalla malattia e quelli che restano. Condividere il lutto — fare del lutto un evento collettivo — significa mettersi, di fronte agli occhi smarriti dei nostri figli, dalla parte di quelli che sanno restare, che sanno, appunto, mantenere sempre aperto l’orizzonte del mondo.

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