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4 agosto 2015 2 04 /08 /agosto /2015 15:04

Lo scrittore  David Grossman interviene sulle violenze degli ultimi giorni: “Com’è possibile che il governo ignori il legame tra il fuoco che attizza e le fiamme di oggi? Contro i fanatici bisogna combattere come contro il terrorismo”

QUEL BAMBINO, Ali Saad Dawabsheh, non mi esce di mente. Nemmeno la scena mi esce di mente: la mano di un uomo apre una finestra in piena notte e lancia una bottiglia incendiaria in una stanza dove dormono madre, padre e due bambini. I pensieri, le immagini, sono strazianti. Chi è la persona, o le persone, capaci di un simile gesto? Dopo tutto loro, o i loro complici, questa mattina girano ancora fra noi. È forse possibile veder loro addosso un segno di ciò che hanno fatto? E cosa hanno dovuto cancellare dentro di loro per voler annientare così un’intera famiglia?

Benjamin Netanyahu e alcuni ministri di destra si sono affrettati a condannare con fermezza l’omicidio. Netanyahu si è anche recato in ospedale per una visita di condoglianze e ha espresso sgomento per l’accaduto. La sua è stata una reazione umana, sincera, e la cosa giusta da fare. Ciò che è difficile capire è come il capo del governo e i suoi ministri possano ignorare il legame tra il fuoco da loro attizzato per decenni e le fiamme degli ultimi avvenimenti. Come non vedano il nesso tra l’occupazione della Cisgiordania che dura da quarantotto anni e la realtà buia e fanatica creatasi ai margini della coscienza israeliana.

Una realtà i cui sostenitori e propugnatori aumentano di giorno in giorno, che si fa sempre più centrale, accettabile e legittima agli occhi dell’opinione pubblica, della Knesset e del governo.

Con una sorta di ostinata negazione della realtà il primo ministro e i suoi sostenitori si rifiutano di capire nel profondo la visione del mondo che si è cristallizata nella coscienza di un popolo conquistatore dopo quasi cinquant’anni di occupazione. L’idea, cioè, che ci sono due tipi di esseri umani. E il fatto che uno sia assoggettato all’altro significa, probabilmente, che per natura è anche inferiore all’altro. È, come dire, meno “umano” di chi l’ha conquistato. E questo fa sì che persone con una certa struttura mentale prendano la vita di altri esseri umani con agghiacciante facilità, anche se quell’essere umano è un bambino di solo un anno e mezzo.

In questo senso, gli episodi di violenza dello scorso fine settimana (l’aggressione al Gay Pride e l’omicidio del bambino) sono interconnessi e scaturiscono da una simile visione del mondo: in entrambi l’odio — l’odio in sé, essenziale, istintivo — è per alcuni un motivo legittimo e sufficiente per uccidere, per distruggere la persona odiata. Chi ha dato fuoco alla casa della famiglia Dawabsheh non sapeva nulla di loro, dei loro desideri, delle loro opinioni. Sapeva solo che erano palestinesi e questo per lui, per i suoi mandanti e sostenitori, era una ragione sufficiente per ucciderli. In altre parole la loro stessa esistenza giustificava, a suo vedere, l’omicidio e la loro scomparsa dalla faccia della terra.

Da oltre un secolo israeliani e palestinesi girano e rigirano in una spirale di omicidio e vendetta. Nel corso della lotta i palestinesi hanno trucidato centinaia di bambini israeliani, sterminato intere famiglie e commesso crimini contro l’umanità. Anche lo stato di Israele ha compiuto azioni analoghe contro i palestinesi utilizzando aerei, carri armati e armi di precisione. Ricordiamo bene ciò che è successo un anno fa durante l’operazione “Margine di protezione”.

Ma il processo in atto in questi ultimi anni all’interno di Israele, la sua forza e le sue ramificazioni maligne sono pericolosi e devastanti in un modo nuovo e insidioso. Si ha la sensazione che nemmeno ora la leadership israeliana capisca (o rifiuti di ammettere una realtà che le è insopportabile) che elementi terroristici al suo interno le hanno dichiarato guerra e che essa non è in grado, oppure teme, oppure è incerta se sia il caso di decifrare questa dichiarazione in maniera esplicita.

Giorno dopo giorno escono allo scoperto forze brutali e fanatiche, oscure ed ermetiche nel loro estremismo. Forze che si esaltano alla fiamma di una fede religiosa e nazionalista e ignorano completamente i limiti della realtà e le regole della morale e del buon senso. In questo turbinio interiore la loro anima si intreccia inesorabilmente con le linee più radicali, e talvolta più folli, dello spirito umano.

Più la situazione si fa pericolosa e incerta, più queste forze prosperano. Con loro non ci può essere nessun compromesso. Il governo israeliano deve combatterle esattamente come combatte il terrorismo palestinese perché non sono né meno pericolose né meno determinate. Sono forze massimaliste e in quanto tali, si sa, potrebbero anche commettere errori madornali. Per esempio colpire le moschee sulla Spianata del Tempio, un atto che potrebbe avere conseguenze disastrose per Israele e per tutto il Medio Oriente.

È possibile che l’orribile fine del bimbo bruciato vivo riscuota i leader della destra e li porti a capire finalmente ciò che la realtà grida alle loro orecchie da anni? Ovvero che l’occupazione e la mancanza di un dialogo con i palestinesi potrebbero avvicinare la fine di Israele in quanto stato del popolo ebraico e paese democratico? Come luogo con il quale i giovani si identificano, dove vogliono vivere e crescere i loro figli?

Netanyahu capisce veramente, nel profondo, che in questi anni, mentre si dedicava anima e corpo a ostacolare l’accordo con l’Iran, si è creata qui una realtà non meno pericolosa della minaccia iraniana? Una minaccia dinanzi alla quale lui appare smarrito e si comporta di conseguenza?

È difficile vedere come sia possibile sbrogliare questo groviglio e riportare le cose a una situazione di razionalità. La realtà creata da Netanyahu e dai suoi amici (nonché dalla maggior parte dei suoi predecessori), la loro acquiescenza all’attivismo dei coloni, la loro profonda solidarietà con loro, li hanno catturati in una rete che li ha resi impotenti e paralizzati.

Da decenni Israele mostra ai palestinesi il suo lato oscuro. L’oscurità, da tempo ormai, è filtrata al suo interno e questo processo si è accelerato notevolmente in seguito alla vittoria di Netanyahu alle ultime elezioni dopo la quale nessuna forza contrasta più l’arroganza della destra.

Episodi orrendi come l’omicidio del bambino bruciato vivo sono in fondo il sintomo di una malattia molto più grave e segnalano a noi israeliani la serietà della nostra situazione dicendoci, a lettere di fuoco, che la strada per un futuro migliore ci si sta chiudendo davanti.

 Traduzione di Alessandra Shomroni

 

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15 giugno 2015 1 15 /06 /giugno /2015 21:02

Marek Halter: “L’Occidente risponde solo con rifiuti ma le diseguaglianze le abbiamo create noi”

di MAREK HALTER  . La Repubblica

 

Anais Ginori (La Repubblica ) intervista Marek Halter: «Oggi il problema non è più redistribuire i disperati alle frontiere ma pensare ai milioni che seguiranno» Comprendere questo è solo un primo passo per capire che cosa occorre fare. Ma proseguire il ragionamento è molto faticoso e scomodo . La Repubblica, 14 giugno 2015

FUORI da una chiesa, quante persone si fermano per dare una moneta al mendicante? Pochissime. Eppure sarebbe un dovere prescritto in tutte le religioni, anche nell’Islam. Allo stesso modo, i governi si sottraggono alla loro responsabilità morale: non esiste una legge che obbliga a essere generosi». Lo scrittore francese Marek Halter ha vissuto per dieci anni come ebreo polacco sans papiers e poi trent’anni da rifugiato politico. «Porto con me la memoria delle mie origini. Ma non voglio essere un demagogo, né un sognatore », avverte. «L’immigrazione è un tema sul quale anche noi intellettuali dobbiamo provare a ragione in modo pratico».

Cosa pensa di due paesi europei che si rimpallano migranti al confine, come accade in queste ore a Ventimiglia?
«Non è un bello spettacolo ma il governo francese non lo fa per ragioni ideologiche. È sotto pressione dell’opinione pubblica che ha paura. Dagli anni ‘60 agli anni ‘90 l’Europa viveva in una relativa tranquillità sociale. La Francia ha accolto più di un milione di francesi di Algeria. Oggi non sarebbe più possibile. C’è la crisi, esistono tre milioni di disoccupati che vivono con i sussidi. Come può reagire un francese, o un italiano, che ha paura per l’avvenire dei suoi figli vedendo arrivare migliaia di migranti?».

Si può sconfiggere il discorso della paura?
«Dovremmo tutti farci una domanda: sono pronto ad accogliere una famiglia di rifugiati a casa mia? Io lo farei, perché mi ricordo nel 1938 quando Hitler non aveva ancora deciso di massacrare tutti gli ebrei ma voleva già sbarazzarsene. Ci fu la conferenza internazionale di Evian per sapere quali paesi erano disposti ad accogliere ebrei. La sola nazione che ha risposto positivamente è stata la Repubblica Dominicana. In fondo oggi accade la stessa cosa. La reazione dei governi a Bruxelles, davanti al piano della Commissione che prevede la redistribuzione dei rifugiati, è stata la stessa di Evian: una serie di rifiuti».

Il ruolo di chi governa non dovrebbe essere proprio affrontare con lucidità emergenze come queste?
«Oggi il problema non è più redistribuire i migranti che sono a Calais o Lampedusa. Bisogna pensare ai milioni che seguiranno. Dobbiamo essere capaci di immaginare una soluzione globale per l’Africa. Abbiamo lasciato che la miseria devastasse un continente e ne paghiamo le conseguenze». 

 

Si può trovare un’alternativa alla retorica del ritorno delle frontiere?
«Come aveva già previsto Karl Marx, il mondo è diventato uno. Ma dentro a questo mondo abbiamo creato delle disuguaglianze sociali ed economiche immense. La redistribuzione della ricchezza si fa attraverso ondate di immigrazione non controllata anche se prevedibile. Ho parlato qualche giorno fa con il presidente del Congo. Proponeva di riunire alcuni paesi africani per creare in Libia una zona sicura nella quale accogliere i rifugiati. Non sono sicuro che sia una buona idea. Ma bisogna ragionare su piccoli passi».

I campi di migranti evacuati nelle capitali, i piani Ue rifiutati, i muri anti-migranti ai confini. Qual è la differenza tra sinistra e destra sull’immigrazione?
«Magari non nelle azioni, ma almeno nelle parole. La destra non ha bisogno di trovare giustificazioni morali. La sinistra è costretta a fare dei gesti. La Francia è pronta a mandare coperte e cibo per dei migranti a patto che rimangano in Italia. Se il governo decidesse di aprire la frontiera a Ventimiglia, sa con matematica certezza che perderebbe le elezioni. E comunque la questione è complessa. Anne Hidalgo (sindaco socialista di Parigi, ndr ) ha chiesto di aprire un centro in cui accogliere i migranti. Ma per quanto tempo, e chi penserà al loro futuro? Non si tratta solo di accoglierli, bisogna anche sapere come integrarli nella società. Sono dilemmi umani che esistono dalla notte dei tempi. Caino si domanda se deve essere il guardiano di suo fratello. Di sicuro non deve essere il suo genitore ».

Perché si sente così poco la voce degli intellettuali?

«Prima erano battaglie politiche: dovevamo salvare vittime dei gulag, del regime in Cambogia o dell’apartheid in Sudafrica. Era facile. Si lanciavano campagne di boicottaggio, petizioni e manifestazioni. Erano battaglie da fare per persone che volevano la libertà. Oggi ci troviamo in una situazione imprevista: dobbiamo immaginare la condivisione della ricchezza del mondo. Certo, potremmo organizzare una manifestazione di solidarietà con i migranti a Ventimiglia. Ma sarebbe solo per darci una buona coscienza. 

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20 aprile 2015 1 20 /04 /aprile /2015 19:45

Vito Mancuso – La repubblica

Nonostante le dure parole delle gerarchie cattoliche, Papa compreso, un giorno la Chiesa arriverà ad accettare la sostanza di ciò che essa definisce “teoria del gender” e che oggi tanto combatte. Qual è l’autentica posta in gioco di tale supposta teoria? E perché la Chiesa giungerà ad accettarne la sostanza?

Occorre anzitutto chiarire che la teoria del gender, nei termini in cui ne parla la Chiesa cattolica, è una costruzione polemica che nella realtà non esiste. Nell’udienza del 15 aprile papa Francesco ha dichiarato: «Io mi domando se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione». Secondo queste parole, che riprendono quanto dichiarato da altri esponenti delle gerarchie cattoliche, vi sarebbe un’ideologia detta appunto teoria del gender che «mira a cancellare la differenza sessuale». Ma esiste veramente qualcosa del genere? Chi mai intende proporre tale “rimozione della differenza”?

Al di là di singoli episodi legati al mondo dello spettacolo dove si fa di tutto per emergere, in realtà nessuno nel mondo lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender) intende abolire il dato del maschile e del femminile. Si sostiene piuttosto che un essere umano, per quanto attiene alla sua sessualità, non è definito unicamente dal corpo biologico. La sessualità infatti, oltre a essere un dato biologico, è anche un costrutto sociale, e questo costrutto sociale detto “genere” può giungere, per alcuni, a essere diverso rispetto alla nativa identità sessuale e quindi a rappresentare una specie di gabbia. La sessualità (natura) e il genere (cultura) non sono sempre necessariamente la stessa cosa: se per la gran parte degli esseri umani vale “sesso = genere”, per altri sesso e genere sono diversi, e questo perché l’essere umano è un fenomeno complesso fatto di un corpo biologico, di una psiche e di una dimensione spirituale, le cui relazioni non sono sempre lineari. Vi sono uomini che hanno un corpo maschile e una psiche maschile e sono attratti dalle donne; ve ne sono altri che hanno un corpo maschile e una psiche maschile e sono attratti dagli uomini; ve ne sono altri ancora che hanno un corpo maschile e una psiche femminile così che interiormente non si sentono uomini ma donne; e gli esempi potrebbero continuare.

Ora la questione è: come definire le persone che rientrano nelle ultime due categorie? Malati? Peccatori? Criminali? Un tempo si pensava così e si agiva di conseguenza. Oggi però la coscienza sente che era un errore tale condanna, lo stesso Papa il 28 luglio 2013 dichiarò: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?».Occorre piuttosto comprendere come queste persone determinano la loro esistenza per vivere felici.In questa prospettiva nessuno vuole cancellare il maschile e il femminile, ma solo affiancare nuovi modi di essere maschi e di essere femmine ai modelli tradizionali. Si tratta di allargare le identità, prefigurando nuovi costrutti sociali più rispettosi delle diverse peculiarità, facendo sì che tutti possano giungere a quella armonia tra sesso e genere che è alla base di una vita felice.

La Chiesa oggi avversa duramente questa posizione, ma giungerà ad accettarla. Su cosa fondo la mia tesi? Nel Seicento avvenne la rivoluzione astronomica alla quale la Chiesa si oppose costringendo l’anziano Galileo ad abiurare in ginocchio la teoria copernicana: poi la Chiesa cambiò idea, adattandosi alla realtà. In seguito la rivoluzione politica portò i popoli a determinare laicamente la propria forma di governo e la Chiesa si oppose condannando in particolare lo Stato unitario italiano: poi la Chiesa cambiò idea, adattandosi alla realtà. In seguito la rivoluzione sociale inaugurò diritti umani come il suffragio universale, la parità uomo- onna, l’istruzione obbligatoria statale, la libertà religiosa, contro cui pure insorse l’opposizione ecclesiastica: che poi cambiò idea, adattandosi alla realtà. Contestualmente la rivoluzione biologica darwiniana mostrava che le specie risultano il frutto di una lunga evoluzione e non di una creazione puntuale: la Chiesa, prima acerrima nemica, poi cambiò idea, adattandosi alla realtà.

La Chiesa ha cambiato idea anche sul terreno propriamente religioso. La rivoluzione di Lutero prima era un’eresia, oggi è un’altra modalità di vivere il Vangelo. Gli ebrei sono passati da “perfidi giudei” a “fratelli maggiori”. Pio IX condannava l’idea che «gli uomini, nel culto di qualsiasi religione, possono trovare la via della salvezza eterna», oggi invece ampiamente accettata dalla Chiesa che non sostiene più la dannazione dei non cattolici. Analoghi cambiamenti riguardano l’interpretazione della Bibbia, la pena di morte e in genere l’uso della violenza, prima considerato del tutto legittimo, vedi le crociate e i roghi di uomini e di libri. La constatazione di tali mutamenti infastidisce la mentalità ecclesiastica, portata a considerare le proprie idee come dottrina “immutabile e infallibile”, ma si tratta di innegabili verità storiche. La Chiesa è quindi un’abile trasformista? No, è la logica della vita che è così e che trasforma ogni cosa. Nella vita ciò che non muta muore. Se la Chiesa dopo duemila anni è ancora qui, è perché è ampiamente mutata. Per lo più in meglio, mettendosi in condizione di essere sempre più “ospedale da campo”, come la vuole papa Francesco, cioè china sulle ferite degli esseri umani per curarne amorevolmente le ferite.

Oggi viviamo all’incrocio tra due rivoluzioni: la rivoluzione sessuale e la rivoluzione biotecnologica. La rivoluzione sessuale ha portato gli omosessuali a definirsi “gay”, cioè felici di essere così, assumendo la propria condizione non più come triste destino o malattia o colpa morale, ma come condizione naturale del loro essere al mondo. La rivoluzione biotecnologica consente ad alcuni esseri umani per i quali la sessualità è diversa dal genere di transitare in un genere più confacente alla loro vera identità sessuale dando vita al fenomeno detto transgender. Viviamo cioè l’ultima rivoluzione sociale sorta in Occidente, in prosecuzione del processo di legittimazione delle minoranze oppresse. Questa rivoluzione fa comprendere che la sessualità non è racchiusa solo dall’identità biologica, ma attiene anche alla psiche e allo spirito. Non è cioè un destino, ma una chiamata alla libertà e alla responsabilità che ogni essere umano deve forgiare da sé facendo i conti con l’irripetibile singolarità con cui è venuto al mondo (per i credenti, creato da Dio).

Un tempo, l’idea di stato laico non confessionale e di libertà di coscienza in materia religiosa appariva blasfema alla Chiesa cattolica: oggi essa comprende che la laicità dello Stato è un formidabile punto di forza della società e si dichiara a favore della libertà di coscienza in materia religiosa. Oggi alla Chiesa cattolica appare blasfema una famiglia diversa da quella tradizionale: in un tempo non lontano essa capirà che la pluralità degli amori umani è un altro punto di forza della nostra società, in quanto capace di accogliere tutti.

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21 agosto 2014 4 21 /08 /agosto /2014 15:46

 

Kibbutz e beduini. Lontano da Gaza arabi e israeliani sanno stare insieme

Linsediamento ebraico in Alta Galilea si "fonde" con il vicino villaggio islamico "Solo così inizieremo a cambire il paese"

Alberto Flores D'Arcais - La Repubblica

Nell'alta Galilea il kibbutz Kfar Hanassi lo conoscono un po' tutti. Fondato nel 1948 (ha la stessa età dello Stato di Israele) da immigranti ebrei britannici con il nome di Habonim — movimento culturale giovanile socialista-sionista — ha cambiato il suo nome con quello attuale, che in ebraico vuol dire "Il Villaggio del Presidente" (in onore di Chaim Weizmann, il primo capo dello Stato morto nel 1952). A neanche mezz'ora di cammino si arriva in un villaggio beduino: Tuba-Zangaria, che negli ultimi anni è cresciuta in fretta, vitale e caotica, con seimila abitanti che la rendono una piccola cittadina dalle tradizioni tribali e una vita moderna.

Un'area che politicamente, nel corso degli ultimi anni, si è fatta sempre più complicata. È qui che nel 2011 ebrei estremisti diedero fuoco a una moschea, è nei kibbutz qui attorno che gli ideali socialisti di un tempo hanno ceduto il passo all'Israele di oggi, più religiosa e nazionalista. Nei momenti topici del conflitto israeliano-palestinese in quest'area non sono mancati scontri, polemiche, qualche ferito di troppo. Adesso, mentre nei villaggi del sud torna la paura dei razzi di Hamas, l'Alta Galilea lancia un'iniziativa che qualcuno definisce «storica». Kfar Hanassi ha deciso di fondersi con la cittadina beduina, diventando un'amministrazione unica. «Non bisogna avere paura», sostiene il presidente del Consiglio regionale dell'Alta Galilea. Kibbutzim e beduini non ne hanno avuta e la settimana scorsa hanno firmato un eccezionale accordo che prevede una stretta cooperazione in campi quali l'istruzione, il welfare, la cultura e l'industria. Qualcuno storce il naso, perché a guadagnarci non sarebbero certo i kibbutz (ce ne sono 29 nell'area) che hanno un certo benessere economico, mentre Tuba-Zangaria è povera e con una piccola criminalità in costante aumento. «Penso che possiamo fare molte cose assieme, ma vivere assieme? ». Al sito online che ha rivelato la vicenda, una residente di Kfar Hanassi esprime i dubbi del kibbutz con un semplice ragionamento: «Da loro ci sono un sacco di uomini con due mogli, qui da noi tante ragazze alla ricerca di un uomo tutto per loro».

La maggioranza sembra però favorevole. L'iniziativa di cooperazione ha già ricevuto l'appoggio del ministero degli Interni e se il piano andrà avanti entro 4 anni i beduini di Tuba-Zangaria potranno anche votare alle elezioni locali. Giora Zelz, il presidente del Consiglio regionale, è ottimista: «Dobbiamo prenderci le nostre responsabilità e fare qualcosa che cambi veramente questa regione».

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30 luglio 2014 3 30 /07 /luglio /2014 16:20

 

Il Papa in elicottero sulla Terra dei fuochi "Che orribile sfregio"

Marco Ansaldo – La Repubblica

LA BELLEZZA ROVINATA: E’ terribile che una parte dell’Italia così bella sia rovinata dai rifiuti.

LA VITA DA DIFENDERE: So che soffrite ma chi diventa amico di Dio ama i fratelli, si impegna a difendere la loro vita e la loro salute rispettando l’ambiente

«Bisogna avere il coraggio di dire no a ogni forma di corruzione e di illegalità. Tutti sappiamo tutti i nomi di queste forme». Vanno ancora contro il potere della mafia e della camorra le parole di Papa Francesco, nel suo nuovo viaggio in periferia. Caserta, questa volta, mentre i napoletani, che il Pontefice argentino ha affettuosamente definito come «gelosi», potranno però incontrare Jorge Mario Bergoglio «sicuramente quest'anno », come ha annunciato lui stesso.

Un viaggio, quello di ieri, nato però in modo insolito, perché il Papa — rientrato in serata a Roma in elicottero — tornerà a Caserta domani, per vedere un pastore della Chiesa pentecostale, suo amico dai tempi di Buenos Aires. È stato anzi questo il motivo che lo aveva inizialmente spinto in Campania, suscitando — assieme al tributo offertogli ieri da 200 mila persone davanti alla Reggia di Caserta — una salve di polemiche da tradizionalisti e conservatori per le sue «aperture » nei confronti degli evangelici.

Vista dall'alto, la Terra dei Fuochi è un colpo d'occhio che ha lasciato Francesco sgomento. «È terribile — ha detto sorvolando la zona a monsignor Angelo Becciu, il Sostituto alla Segretaria di Stato vaticana che lo accompagnava — lo sfregio di questa bella terra». E subito, nell'omelia, ha parlato di «un territorio che tutelato e preservato», richiamando ai traffici legati allo sversamento dei rifiuti che avvelenano l'aria e i terreni.

Bergoglio ha così lanciato il suo appello a perseguire «il bene comune». «So che soffrite», si è rivolto alla folla, ma «chi diventa amico di Dio ama i fratelli, si impegna a salvaguardare la loro vita e la loro salute anche rispettando l'ambiente e la natura». E ha parlato dei migranti locali, che in una lettera gli avevano scritto: «Siamo tra gli scartati», chiedendo con forza il loro accoglimento.

Ha comunque colpito alcuni osservatori la modalità del viaggio a Caserta, la prima volta in assoluto che un Pontefice visita due volte la stessa città nel giro di 3 giorni. L'iniziativa di Francesco era nata proprio per andare a trovare il pastore pentecostale Giovanni Traettino, della Chiesa evangelica della riconciliazione. Un gesto di affetto nei confronti di un antico amico, letto poi come un messaggio di apertura al mondo protestante. Una visita da svolgersi, come diceva lo scorso 10 luglio lo stesso direttore della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, dopo alcune indiscrezioni su "Il Mattino", «in forma del tutto privata».

A Caserta però, sia in Curia che nei palazzi della politica, la notizia non veniva accolta nel modo migliore. «Bergoglio — si legge nella ricostruzione fatta da "Adista", sito specializzato in informazione religiosa — si sarebbe recato in città non per incontrare i cattolici, ma per andare a trovare un pastore evangelico. Si è messa allora in moto la macchina delle trattative, delle perorazioni e delle pressioni». Un cambio di programma operato su richiesta dello stesso vescovo di Caserta. Ha scritto infatti il "Corriere del Mezzogiorno" che mons. D'Alise ha inviato una lettera al Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, con la seguente frase: «Santità, incontri anche i miei concittadini: desiderio enorme». Dove quell'«anche» appare rivelatore del caso. Risultato finale: la visita privata del Papa al pastore evangelico il 26 luglio è stata annullata e sostituita con la visita pastorale lampo alla diocesi, con un programma stringatissimo e improvvisato; Bergoglio però tornerà a Caserta due giorni dopo, libero di visitare privatamente il suo amico.

L'intero fatto non è sfuggito al sito cattolico tradizionalista "Messainlatino": «Per la prima volta, nella storia moderna della Chiesa — si legge in una nota che è una stilettata — l'annuncio della visita del Papa ha colto di sorpresa proprio il vescovo diocesano ma non il pastore protestante che ne aveva dato preventivamente notizia…». E la polemica ha finito per investire non solo il mondo cattolico, ma anche quello evangelico, dove l'iniziativa ha sollevato obiezioni più o meno velate, in una galassia formata da una realtà piuttosto variegata. Alcune Chiese, infatti, non condividono un'apertura di dialogo così profonda con il Papa, visto come l'emblema di una autorità non riconosciuta e anche osteggiata. Il sito "Notizievangeliche. com" ad esempio, parla della «preghiera» di Traettino «con il suo fratello "papa" Francesco», come di «una cosa scandalosa, una vergogna, una cosa gravissima che porta discredito alla via della verità». Il dibattito, insomma, corre sulla rete, confermando come i gesti del Pontefice argentino rompano gli schemi. Domani mattina la seconda tappa di Francesco a Caserta.

"Un segnale contro i clan che ci hanno avvelenato"

Paolo Rodari – La Repubblica.

«Francesco ha detto quello che tutta la popolazione desiderava egli dicesse. Parole che sono un segnale forte per la legalità e il rispetto del creato. Ora tocca ai politici non deludere. E insieme agli industriali. La nostra terra è stata imbottita di veleni. La camorra ha più volte dichiarato che sapeva che commetteva un'azione grave interrando o bruciando rifiuti industriali insieme a quegli urbani, ma nello stesso tempo che non si aspettava fosse così grave. Posso anche crederle. Ma nello stesso tempo auspico che si metta la parola fine a questa situazione una volta per tutte.

La sua parte deve farla anche Confindustria.

Deve mettere alla porta tutti quegli industriali che fanno affari con i camorristi».

Don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano da anni in prima linea nella lotta allo sversamento e ai roghi di rifiuti tossici nella Terra dei Fuochi, ritiene che la giornata di ieri sia stata decisiva per le sue terre?

«È così. L'arrivo del Papa è una pietra miliare nella nostra comunità. Sentirlo vicino ai nostri problemi ci dà speranza. E spero possa dare la spinta giusta a che si metta finalmente fine ai roghi. Ho da poco scritto a Matteo Renzi. Gli ho inviato i messaggi di coloro che stanno morendo per tumori causati dai veleni. Negli ospedali pubblici hanno tempi troppo lunghi per curarli. Dovrebbero andare nelle strutture private ma non possono permettersele. Renzi mi ha chiamato appena ha ricevuto la lettera. Lo aspettiamo fra noi».

Ha incontrato il Papa in questi mesi?

«Due volte. Una prima quando andò in visita al Centro Astalli a Roma. Mi inginocchiai e gli baciai i piedi. Il cardinale Agostino Vallini mi presentò e lui mi incoraggiò ad andare avanti. Poi l'ho incontrato il 14 maggio scorso, in occasione dell'udienza generale del mercoledì alla quale partecipavano oltre mille abitanti delle nostre terre. Disse a tutti che "il rispetto e la dignità della persona umana e il diritto alla salute vengono prima di ogni altro interesse"».

"Le sue parole una speranza contro lo sfruttamento"

CASERTA .

«Papa Francesco sa bene che siamo venuti in questa terra perché vogliamo avere la possibilità di una vita più dignitosa». Thomas, un giovane ghanese sui trent'anni, viene da Castel Volturno. È uno di quelli che nel 2008 partecipò alla rivolta dopo la strage di sei ragazzi ghanesi da parte del gruppo criminale guidato da Giuseppe Setola. È in piazza Carlo III, la mattina ha venduto ombrelli sotto la pioggia poi quando ha smesso di piovere è rimasto tra le prime file per seguire le parole del Papa.

Ha sentito le parole di Bergoglio, ha accennato anche al vostro dramma?

«Sì, mi aspettavo che parlasse di quanto è accaduto nuovamente a Castel Volturno nelle settimane scorse. Sono venuto qui perché lui ha dedicato molta attenzione a noi migranti. È andato a Lampedusa nel suo primo viaggio. Castel Volturno non è da meno. Qui vivono i nuovi schiavi».

Ma il Papa ha parlato di speranza.

«Ho ascoltato con attenzione le parole dette da papa Francesco. Giuste le sue parole di speranza. Abbiamo bisogno di speranza ma anche di qualche certezza. Gli abbiamo indirizzato una lettera aperta a nome di tutti i migranti della nostra provincia.

Gli abbiamo spiegato che Castel Volturno è un laboratorio di schiavismo, di deformazione di quanto ci possa essere di bello nell'essere umano. Sarebbe bello se papa Francesco venisse proprio a Castel Volturno a rendersi conto di persona di come vivono i nostri fratelli immigrati».

Che cosa può fare per voi il Papa di concreto?

«Noi non esistiamo. Ci sfruttano, ci schiavizzano, ci pagano una miseria per dodici ore di lavoro. Il lavoro qui non c'è. Il Papa queste cose le sa. Speriamo in lui anche per ottenere il permesso di soggiorno. Francesco è un grande papa. Anche se sono musulmano, lo considero come un mio fratello. Vuol dire che andremo a Roma a parlargli direttamente. Una sua parola conta molto anche per il governo italiano. Noi ci speriamo veramente».

 

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26 luglio 2014 6 26 /07 /luglio /2014 07:56

 

Il no di 50 riservisti "È oppressione non combattiamo"

Vanna Vannuccini – La Repubblica

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/07/24/il-no-di-50-riservisti-e-oppressione-non-combattiamo14.html?ref=search

Per saperne di più: www.haretz.com    www.washingtonpost.com  

GERUSALEMME

A UNA delle tante piccole manifestazioni alle quali partecipano per le strade di Tel Aviv o di Haifa qualche centinaio di persone per protestare contro la guerra a Gaza — sono artisti, arabi-israeliani e pacifisti — lui non manca mai, spesso con la figlia di appena un anno sulle spalle. È l'ex pilota Yonathan Shapira. La sua vita cambiò radicalmente dodici anni fa, quando era un pilota delle Air Force, e sganciò una bomba "mirata" su un terrorista di Hamas. Insieme al terrorista morirono quindici persone, tra cui nove bambini.

Poco tempo dopo, lui e i suoi compagni di missione scrissero una lettera per dire che rinunciavano al servizio militare. Furono immediatamente sospesi dall'esercito e diventarono dei paria. Nella società israeliana le Forze Armate sono sacre. Non criticare l'esercito è l'undicesimo comandamento. In tempo di guerra è visto dalla maggior parte della popolazione come un tradimento.

 Ma oggi la voce di Yonathan Shapira e dei suoi pochi compagni di protesta ha trovato un'eco. Cinquanta riservisti hanno fatto sapere di aver rifiutato di servire nella riserva. Il servizio nella riserva è obbligatorio in Israele fino grosso modo ai 50 anni per gli uomini, fino ai 35 per le donne, e fa parte dell'ethos nazionale. Poco prima dell'operazione "Protective Edge" il governo ha deciso la mobilitazione di quasi 70 mila riservisti. In una lettera pubblicata dal Washington Post, che pubblica le cinquanta firme, i riservisti, dei quali una maggioranza donne, scrivono di aver servito finora in ruoli burocratici e logistici, non in ruoli di combattimento, ma di aver capito che anche in quei ruoli si rendevano strumenti «di oppressione »: perché «le Forze Armate contribuiscono all'oppressione ». «Le truppe che operano nei territori occupati non sono le sole che controllano le vite dei palestinesi. Tutte le Forze Armate sono coinvolte in questa oppressione. Per questo rifiutiamo di servire nella riserva e sosteniamo tutti coloro che faranno altrettanto». «Il ruolo centrale dell'esercito», scrivono ancora, «è la ragione dell'assenza di argomenti reali a favore di soluzioni non militari al conflitto. L'operazione militare a Gaza e il modo in cui la militarizzazione influenza la società israeliana sono inseparabili». E ancora: «Israele non è più capace di pensare ad una soluzione politica del conflitto se non in termini di potenza fisica: non stupisce dunque che il paese sia sottoposto a cicli infiniti di violenza mortale. E quando i cannoni sparano, nessuna critica deve essere sentita».

 

Infine: «Deploriamo la militarizzazione di Israele». Un'altra trentina di riservisti, secondo il Jerusalem Post, si sono rifiutati ieri sera di entrare a Gaza a bordo di un vecchio blindato del tipo che gli americani usavano in Vietnam, uguale a quello in cui persero la vita sabato sette soldati quando il blindato dovette fermarsi per un'avaria e fu colpito da un missile anticarro.

La lettera dei 50 riservisti ha fatto scalpore quanto le parole amare scritte da Gideon Levy su Haaretz prima ancora che cominciasse l'operazione di terra: «Sono i nostri giovani più brillanti che diventano piloti, i migliori piloti che ora perpetrano i delitti più crudeli, più ignobili. Mentre scrivo hanno già ammazzato 200 civili e feriti più di mille. Sono quelli che non si sporcano le mani come i poliziotti di frontiera che picchiano i bambini, i soldati della Brigata Kfir che stanno ai checkpoint o quelli della Brigata Golani che perquisiscono le case. Non insultano, non umiliano. Sono i piloti dell'esercito più morale del mondo ». Così scriveva Levy qualche giorno fa. Nel frattempo, i numeri da lui citati sono almeno triplicati.

 

«Non si può chiudere un milione e ottocentomila persone e pensare che non reagiscano», dice Yonathan Shapira applaudito dai manifestanti. La guerra contro Gaza è sbagliata: «Ogni popolo ha il diritto di difendersi e gli istraeliani dovrebbero essere i primi a saperlo». Shapira non è nemmeno per la soluzione dei due Stati: dovrebbe esserci «un solo Stato per tutti in cui ognuno abbia gli stessi diritti e possa vivere liberamente». «Ci vorrebbero dei leader politici coraggiosi e non ci sono», dice a sua volta lo scrittore Meir Shalev. «Se questa guerra non finirà con un negoziato vero, tra due anni saremmo daccapo, e anche questo nuovo massacro sarà stato inutile».

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