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17 ottobre 2016 1 17 /10 /ottobre /2016 20:52

Quando il cittadino si sente insicuro

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Diminuiscono gli omicidi, in Italia e negli altri paesi occidentali. Una buona notizia, ma basta per dire che siamo tutti più sicuri? Anche altri reati minano il senso di sicurezza dei cittadini. Per alcuni la situazione è migliorata rispetto agli anni Novanta, ma non rispetto a periodi più lunghi.

Marzio Barbagli – La voce info

Meno omicidi in Italia

“Gli italiani sono convinti di vivere in un paese insicuro” – ha detto, qualche tempo fa, Piercamillo Davigo. Eppure, ha aggiunto, abbiamo meno omicidi di Francia e Germania. È un senso di insicurezza provocato dai media. Chi si dichiara impaurito e allarmato non lo è per esperienza diretta, perché “non ha mai visto un reato: pensa di vivere in un paese insicuro perché lo dice la tv”. Ha ragione il presidente dell’Associazione nazionale magistrati? È sicura oggi l’Italia? È la domanda a cui cercherò di rispondere in questo e nel prossimo articolo.
Quando si giudica il grado di sicurezza (dalla criminalità) di un paese, lo si fa, esplicitamente o implicitamente, in termini relativi, mettendo a confronto la sua situazione attuale con quella del passato o con quella di altri paesi. E Piercamillo Davigo si è attenuto rigorosamente, nelle sue dichiarazioni, a queste regole.
Ora, non vi è dubbio che se facciamo confronti riguardo al reato più grave, quello di omicidio, arriviamo rapidamente alla conclusione che il livello di sicurezza del nostro paese è molto alto. Se analizziamo i numerosi e solidi dati dei quali disponiamo per questo delitto, rimaniamo colpiti dallo straordinario aumento del livello di sicurezza che vi è stato nel corso del tempo. Oggi il rischio che corrono gli italiani di essere uccisi è incomparabilmente più basso che nel 1991, nel 1951 o nel 1861. Il cambiamento è stato ancora più forte in alcune regioni o in alcune città del nostro paese. A Palermo, ad esempio, nel 1982 furono commessi ben centododici omicidi, nel 2015 invece otto.
Il confronto con altri paesi porta alla stessa conclusione. Per un lunghissimo periodo di tempo (secoli, non decenni), l’Italia ha avuto un tasso di omicidi più alto di ogni altro paese dell’Europa centro settentrionale. Oggi l’ha più basso della Francia, del Regno Unito o della Grecia (anche se non della Germania).

Reati dagli Usa al Nord Europa

Ma l’omicidio, pur essendo il più grave, non è l’unico delitto. Vi sono anche i reati dei colletti bianchi e quelli della criminalità predatoria. I primi sono spesso più dannosi dei secondi per la collettività. Purtroppo, però, non disponiamo di dati affidabili che permettano di analizzare le loro variazioni nello spazio e nel tempo. Per i secondi, i dati oggi esistono, grazie alle indagini di vittimizzazione condotte in Italia e in altri paesi occidentali, che consentono di stimare il numero oscuro, cioè la quota dei reati commessi ma non denunciati. Si può tuttavia pensare che il tasso di omicidi sia il più sicuro indicatore del livello di sicurezza di un luogo, perché correlato con quello degli altri reati. Ma è proprio così? Per rispondere vale la pena di ricordare cosa è successo nei paesi occidentali nell’ultimo mezzo secolo, un periodo nel quale hanno avuto luogo due tendenze del tutto diverse, prima un fortissimo aumento e poi una diminuzione dei delitti di molti tipi.
In alcuni paesi, l’aumento è cominciato fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, cioè nel più lungo periodo di prosperità economica fino ad allora conosciuto. Un periodo in cui, in Svezia, il governo laburista cercava di ridurre le diseguaglianze sociali e di migliorare le condizioni di vita degli strati più poveri della popolazione. Prendiamo, ad esempio, gli Stati Uniti, il paese sul quale la documentazione statistica disponibile è più solida. Qui la crescita è cominciata verso il 1961 e ha riguardato tutti i tipi di reato presi in considerazione nella figura 1: omicidi, stupri, rapine, furti di auto e in appartamento. È stata forte, continua e per i primi tre ha toccato il picco trent’anni dopo, all’inizio degli anni Novanta, per gli altri due dieci anni prima. Di conseguenza, nel 1991, il livello di sicurezza negli Usa era molto minore che nel 1961, perché i suoi abitanti correvano più rischi di prima di essere uccisi, stuprati o rapinati. Negli ultimi venti anni, il tasso dei cinque reati è diminuito, anche se non nella stessa misura. Così oggi si può dire che gli americani sono in complesso più sicuri che all’inizio degli anni Novanta. Hanno lo stesso livello di sicurezza del 1961 riguardo ai furti di auto e in appartamento. Ma uno leggermente minore per gli omicidi e molto minore per gli stupri, che sono oggi oltre due volte e mezzo più frequenti di un tempo.

Figura 1 – Tasso di criminalità per 100 mila abitanti, cinque reati, Stati Uniti – 1960-2012

 

Fonte: Tonry (2014)

Nb: per poter inserire in una stessa figura i dati di cinque reati, i tassi di omicidio e di stupro per 100 mila abitanti sono stati moltiplicati per 10, quelli dei furti in appartamento sono stati divisi per 10.
Se analizziamo, per lo stesso lungo periodo, l’andamento dei furti nei paesi nordici (figura 2) vediamo che, dopo aver toccato il picco all’inizio degli anni Novanta, la loro frequenza è diminuita ovunque, ma in misura diversa, e senza tornare al livello di partenza, quello degli anni Sessanta. Così oggi sia gli svedesi che i danesi corrono meno rischi di essere derubati di venti o venticinque anni fa, ma ne corrono di più rispetto a mezzo secolo fa, e questi rischi sono aumentati ancora di più per norvegesi e finlandesi.
Ma che dire dell’Italia? Lo vedremo la prossima volta.

Figura 2 – Furti ogni 100 mila persone, quattro paesi scandinavi – 1960-2012

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21 aprile 2015 2 21 /04 /aprile /2015 18:15

Non esiste la perfezione nella giustizia, la certezza del diritto. Esiste una procedura giuridica che conviene rispettare, ma bisogna ricordarsi che è un costrutto dell’uomo in cui inoltre intervengo gli errori che l’uomo inevitabilmente compie. Altro problema é il rispetto delle regole, che è fuori discussione, proprio nel nostro paese dove sono scarsamente rispettate. (ndr)

Bufera sugli investigatori americani. I controlli sospetti hanno ingiustamente mandato a morte 32 persone.

VITTORIO ZUCCONI – La Repubblica

WASHINGTON - MORIRE per un capello, nell'illusione della pseudoscienza investigativa piegata agli imperativi della politica e di indagini che devono produrre un colpevole a tutti i costi e persino ucciderlo: è la morale raggelante della scoperta che l'Fbi ha sopravvalutato, male interpretato o addirittura truccato per anni migliaia di "prove" costruite sull'esame dei capelli.

Prima che la genetica smentisse, con gli esami del Dna, decine di sentenze rivelando l'innocenza dei condannati, il Federal Bureau of Investigation aveva individuato nei capelli trovati sui luoghi del delitto, più attendibili delle controverse impronte digitali, una della direttissime per identificare i responsabili. Ma dopo un riesame minuzioso condotto dalla Associazione Nazionale degli Avvocati Difensori, la Nacdl, e dal "Progetto Innocenza", emerge che l'Fbi ha barato quasi sempre a favore dell'accusa utilizzando l'esame microscopico dei capelli. Trentadue imputati furono condannati a morte e quattordici di loro giustiziati, sulla base di queste presunte prove truccate.

L'espressione che l'inchiesta condotta sui processi prima del 2000 e pubblicata ieri dai media americani come il Washington Post è volutamente cauta, per non creare l'impressione che la massima agenzia investigativa del governo federale e la sola nazionale bari al gioco terribile della verità giudiziaria: l'Fbi ha overstated, si dice, ha esagerato, ha sopravvalutato le evidenze probatorie cercate con il microscopio nei capelli e nei peli sui luoghi del delitto, offrendo agli investigatori, all'accusa, alle giurie popolari certezze che certezze non erano.

Ma le parole non possono cambiare i numeri che sono raggelanti. Nei 268 casi nei quali i capelli sono stati usati contro l'imputato l'Fbi ha portato in dibattimento prove che non erano prove, elementi fasulli. Nel 95 per cento dei casi studiati, l'errore è andato a favore dell'accusa, contribuendo alla sentenza di colpevolezza. Soltanto raramente l'errore, che sempre e comunque è possibile, ha portato all'assoluzione. Sono dati, comunque parziali perché ancora le polizie e le procure della repubblica rifiutano di aprire gli archivi su 1200 processi, che tendono a confermare il classico sospetto di ogni avvocato difensore e di ogni imputato, che la macchina investigativa, l'apparato della Giustizia siano costruiti intenzionalmente non per portare alla determinazione della colpevolezza o della non colpevolezza, ma per raggiungere a ogni costo una sentenza di condanna.

L'Fbi, che dopo i decenni della implicita, autocratica certezza di infallibilità che il suo creatore e zar, J. Edgar Hoover aveva creato con instancabile propaganda, ha risposto, insieme con il Ministero della Giustizia, che il Bureau, come tutti i magistrati inquirenti e i tribunali "sono fortemente impegnati a perfezionare e rendere ancora più accurate le analisi dei capelli, così come l'applicazione di tutte le scienze forensi ". Mentre tutti i condannati in processi basati sull'esame dei capelli saranno informati dei possibili errori giudiziari.

Un impegno che sarà di poco conforto per i quattordici uomini già passati attraverso le camere della morte nei penitenziari. La rivelazione, che si aggiunge alle vicende di detenuti, alcuni addirittura da anni nei bracci della morte, scagionati completamente dai nuovi test sul Dna, non certifica la fallibilità dei test sui capelli, ma fa di peggio: insinua il dubbio che l'Fbi, come le Procure, le polizie, la pubblica accusa giochino a carte truccate pur di ottenere prima l'incriminazione e poi la condanna dell'accusato. E così giustificare davanti a elettori che chiedono "giustizia" indagini e celebrazioni di processi, valutate positivamente soltanto se portano a una condanna. I prosecutor, i magistrati dell'accusa, sono misurati in funzione delle sentenze di colpevolezza che riescono a ottenere.

Il principio del dubbio pro reo, che deve valere nelle aule di giustizia quando il procedimento è pubblico, non vige nei laboratori delle analisi scientifiche dove, se questi dati sono concreti, sembra funzionare l'esatto opposto: nel dubbio, si va contro il presunto reo. Un dubbio che apre un altro, amarissimo capitolo nell'amministrazione della Giustizia anche nelle nazioni apparentemente più garantiste e rispettose dei diritti dell'accusato e dell'imputato. Che siano i soldi e non la scienza ha determinare l'esito di un procedimento. Nel sospetto che anche le prove e gli indizi qualificati con la solennità della scienza siano piegati alla soggettività di chi investiga e conduce l'accusa "nel nome del popolo", la difesa deve ricorrere a controanalisi e controperizie capaci di confutare, o almeno di mettere in discussione le conclusioni degli accusatori. Un diritto che ha un enorme e ovvio limite nei costi: non tutti gli imputati possono permettersi le batterie di contro analisi forensi e quelli che non possono si devono affidare al lavoro di agenzie governativa teoricamente al di sopra delle parti.

Una semplice, quanto evidente spiegazione del perché sia molto più facile mandare in carcere o al patibolo i poveri e sia più facile scampare, per i ricchi. Eppure anche i meno ricchi pagano le tasse che finanziano il lavoro dei funzionari governativi che li trascinano in carcere tirandoli per i capelli.

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21 aprile 2015 2 21 /04 /aprile /2015 17:59

Più che una migrazione si tratta di fuga. Anche se percepiamo la misura della tragedia solo quando i numeri sono smisurati. Salvo assuefarci

ILVO DIAMANTI - La Repubblica

 Oltre novecento persone morte in un barcone, in viaggio dalla Libia verso la Sicilia. Sparite in fondo al mare. Insieme ad altre migliaia, vittime di molti altri naufragi. Accomunate e travolte dalla stessa disperazione. Che spinge ad affrontare il mare "nemico" per sfuggire alla fame, alla miseria, alla violenza. Oggi: alla guerra. Più che di "migrazione", si tratta di "fuga". Anche se noi percepiamo la "misura" della tragedia solo quando i numeri sono "smisurati". Salvo assuefarci anche ad essi. Ed è questo, come ho già scritto, che mi fa più paura.

L'abitudine. La distanza da una tragedia che, invece, è a due passi da noi. La tentazione di "piegarla" e di "spiegarla" in chiave politica. Per guadagnare voti. Eppure le migrazioni sono un fenomeno ricorrente. Tanto più e soprattutto in fasi di cambiamento e di trasformazione violenta (in ogni senso), come questa. Allora, le popolazioni si "mobilitano", alla ricerca di nuove e diverse condizioni di vita. È capitato a noi italiani, lo sappiamo bene. In passato, ma anche oggi. Soprattutto ai più giovani. D'altronde, due italiani su tre pensano che i loro figli, per fare carriera, se ne debbano andare all'estero (Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis).

Come, puntualmente, avviene. Infatti, l'Italia è al quinto posto in Europa, come Paese di immigrazione. Dopo Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia. Ma - il fenomeno è meno noto - è al quarto posto come Paese di "emigrazione". Gli stranieri che vivono - e lavorano - in un Paese dell'Ue sono infatti soprattutto turchi, marocchini, rumeni e, appunto, italiani. In Germania, Svizzera e Francia, dunque, noi siamo come i marocchini e i turchi. Proprio per questo, peraltro, le paure sono, al proposito, comprensibili. La xenofobia, letteralmente: paura dello straniero, riflette l'impatto con un fenomeno nuovo. Che si è sviluppato in modo rapido e violento.

Secondo il Centro Studi e Ricerche Idos, gli stranieri in posizione regolare, alla fine del 2013, erano circa 5 milioni e 440 mila. Cioè, l'8% della popolazione. Con un aumento rispetto all'anno precedente di circa il 4%. In confronto al 2004, quando gli immigrati erano meno di 2 milioni, significa un aumento di quasi tre volte. E di 4, rispetto al 2001. Il nostro paesaggio sociale e demografico, dunque, è cambiato profondamente e molto in fretta. Difficile che questo avvenga senza fratture, senza reazioni. Tuttavia, nonostante tutto, la società italiana si è adattata. Per necessità, ovviamente, visto che gli occupati stranieri sono 2,4 milioni, oltre il 10% del totale, mentre nel 2001 erano solo il 3,2%. Ma anche perché ha cominciato ad abituarsi alle diversità, alle differenze etniche e culturali. Come altrove si sono abituati a noi, in passato. Anche se la recente Indagine dell'Osservatorio sulla sicurezza in Europa (febbraio 2015), condotta da Demos (insieme all'Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis), rileva un deterioramento degli atteggiamenti verso i migranti, in Italia. Più di un italiano su tre percepisce, infatti, gli immigrati come un "pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone" (33%). Tuttavia, occorre rammentare che, fra il 2007 e il 2009, questo indice aveva proporzioni ben diverse: fra il 45 e il 50%. Da allora l'immigrazione non ha smesso di crescere. Ma è cambiato l'approccio. Da parte della società, anzitutto. Perché, come si è detto, ci siamo abituati agli "altri intorno a noi". E abbiamo cominciato, per questo, a percepirli come "altri noi". Così, la diffidenza ha cominciato a declinare. Per altro verso, è cambiata la narrazione del fenomeno da parte dei media. Come ha sottolineato l'Osservatorio di Pavia, negli ultimi anni le notizie sull'immigrazione, sui notiziari di prima serata delle principali reti nazionali, continuano ad essere numerose: 1007 notizie nel 2013 e 901 nel 2014. Ma, soprattutto dopo la visita di papa Francesco a Lampedusa, nel 2013, i sopravvissuti al mare diventano "migranti" e non più "clandestini". E le ordinarie storie di intolleranza, raccontate in precedenza, lasciano il passo a storie di solidarietà, altrettanto ordinarie. Dai luoghi dei naufragi.

Lo stesso avverrà, sicuramente, anche questa volta. Vale la pena di aggiungere, ancora, che l'immigrazione è vissuta come un problema anche altrove. In Europa. L'immigrazione è, infatti, considerata una delle due principali emergenze dal 13% degli italiani (Pragma per l'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza in Europa), ma da quasi il 50% in Gran Bretagna e in Germania. D'altronde, da noi l'immigrazione è sempre più di "passaggio". Verso altri Paesi che offrono prospettive di lavoro migliori. Perché l'immigrazione, non dobbiamo dimenticarlo, può essere fonte di preoccupazione, ma è, comunque, un indice di sviluppo. Quando gli immigrati cominciano ad andarsene, come effettivamente avviene da qualche tempo, è perché il nostro mercato del lavoro non è più in grado di attrarli e di assorbirli. Tuttavia, ieri come oggi, in Italia come altrove, gli immigrati possono essere una risorsa politica. Soprattutto in tempo di campagna elettorale. Un argomento agitato da imprenditori politici della paura, per tradurre l'insicurezza - e le vittime degli scafisti - in voti. Il Front National, in Francia. Ukip di Farage, in Gran Bretagna. La Lega di Salvini, in Italia. Così diversi eppure così vicini.

Nel segno dell'Anti-europeismo e della paura degli altri. Ma invocare blocchi navali e respingimenti, di fronte a tragedie immense, come quella avvenuta ieri nel mare di Sicilia, non è in-umano. È semplicemente ir-reale. Come se fosse possibile - oltre che giusto - fermare la fuga dalla guerra e dal terrore che ci assediano. A pochi chilometri da noi.(Questi dichiarano di preferire morire piuttosto che tornare nei paesi d'origine) Ma l'unico modo per fermare i disperati che, a migliaia, si dirigono verso le nostre coste - e, a migliaia, muoiono nel viaggio. Ostaggi di mercanti di morte.

L'unico modo possibile per respingerli, per tenerli lontani da noi: è chiudere gli occhi.

Fingere che non esistano.

Rinunciare alla compassione verso gli altri.

Non avere pietà di noi stessi.

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