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8 dicembre 2014 1 08 /12 /dicembre /2014 18:14

“Palazzi venduti a prezzi stracciati” Il Vaticano mette sotto accusa il capo dello Ior dell’era Wojtyla

 PaoloRodari – La repubblica

Bloccati i conti correnti dell’ex presidente della banca Caloia e dell’ex direttore generale Scaletti Sono indagati per peculato. Gli immobili poi ceduti a valore di mercato con guadagni per 60 milioni.

CITTÀ DEL VATICANO – Il Promotore di Giustizia del Tribunale vaticano ha aperto un’indagine nei confronti di due ex dirigenti dello Ior per operazioni immobiliari avvenute nel periodo 2001-2008. Pesante l’ipotesi di reato: peculato. Gli indagati sono l’ex presidente dello Ior Angelo Caloia e l’ex direttore generale Lelio Scaletti, insieme all’avvocato Gabriele Liuzzo per concorso. In sostanza, si tratta della dirigenza che ha governato la banca vaticana nell’era di Karol Wojtyla e, in parte, sotto il pontificato di Joseph Ratzinger: Caloia è stato presidente dal 1989 al 2009, poi dimissionato in favore di Ettore Gotti Tedeschi.

Anche quest’ultimo fu costretto a lasciare l’Istituto nel 2012 ma è stato successivamente del tutto prosciolto da accuse relative ad altre vicende. Prima di Caloia, dal 1971 al 1989, presidente era stato monsignor Paul Marcinkus, il “banchiere di Dio” come veniva definito alternativamente con Roberto Calvi. L’indagine, aperta dallo scorso gennaio, è per peculato e si riferisce a operazioni per la vendita d’immobili di proprietà dello Ior, un patrimonio che valeva circa 160 milioni di euro e che i vertici dell’Istituto decisero di mettere sul mercato. Secondo quanto rivelato dall’agenzia Reuters si tratta di 29 immobili tra Roma e Milano. Dalle verifiche interne condotte grazie anche alla consulenza della società Promontory, è emerso che quel patrimonio d’immobili sarebbe stato svenduto, con la cessione dei beni a prezzi molto bassi e l’applicazione di tariffe per compensi professionali molto alte. In alcuni casi, sembra che dietro le società compratrici ci fossero gli stessi Caloia, Scaletti e Liuzzo. Una volta rivenduti a prezzi di mercato, quindi molto maggiori, gli immobili avrebbero fruttato, a danno dello Ior, un guadagno di almeno 50-60 milioni di euro.

Le operazioni nel mirino condotte tra il 2001 e il 2008 . Il patrimonio perduto 29 proprietà tra Roma e Milano e 160 milioni di euro.

Tutti e tre gli indagati hanno ancora dei conti allo Ior nei quali, all’atto del sequestro eseguito unmese fa, sono stati bloccati circa 17 milioni di euro, ritenuti dagli inquirenti frutto proprio del presunto peculato nella compravendita degli immobili. A insospettire lo Ior, sembra sia stato inizialmente un conto da tempo intestato allo Ior preso la banca Unicredit. Gli investigatori vaticani sono oggi anche alla ricerca del resto dei presunti proventi illeciti e, se sarà necessario, potranno procedere anche tramite rogatoria internazionale con le autorità italiane.

«Siamo molto lieti che le autorità vaticane stiano agendo con risolutezza», afferma Jean-Baptiste de Franssu, presidente del Consiglio di Sovrintendenza dello Ior, che ha preso il posto a luglio di Ernst von Freyberg, il presidente sotto la cui gestione è stata effettuata la verifica. Della vicenda è stato subito informato Papa Francesco. Secondo un comunicato diramato ieri dall’Istituto, l’indagine aperta «sottolinea l’impegno a favore della trasparenza e della tolleranza zero, anche in relazione a sospetti su fatti del passato». «Il problema — dice il portavoce vaticano padre Lombardi — è stato presentato alla magistratura della Città del Vaticano dalle stesse autorità dello Ior a seguito delle operazioni di verifica interne avviate lo scorso anno».

Pell: «Centinaia di milioni di euro di fondi nascosti in Vaticano»

Fondi extrabilancio. Il segretario per l’economia: «La Santa sede non è in fallimento». «Una gestione del passato, ma stiamo portando le finanze nel 21esimo secolo»

di M. Antonietta Calabrò -La Repubblica

 Il lavoro di riforma della finanze vaticane ha fatto scoprire centinaia di milioni di euro che non comparivano nei bilanci ufficiali della Santa Sede. Lo afferma lo Zar delle finanze vaticane, il cardinale australiano George Pell, sul settimanale Catholic Herald in un articolo di oggi e anticipato sul sito dello Spectator sottolineando che paradossalmente a motivo di «fondi neri» le casse della Santa Sede sono più in salute di quanto inizialmente apparissero. «È importante sottolineare che il Vaticano non è in fallimento - scrive Pell -. A parte il fondo pensione, che ha bisogno di essere rafforzato per le richieste su di esso nei prossimi 15 o 20 anni, la Santa Sede sta facendo la sua strada,

Il bilancio del 2014: 24 milioni in rosso

Per rendersi conto della portata delle dichiarazioni di Pell , bisogna considerare che il consuntivo consolidato della Santa Sede per l’anno 2013 , approvato nel luglio 2014 , ha chiuso con un deficit di 24.470.549 dovuto soprattutto alle fluttuazioni negative derivanti dalla valutazione dell’oro per circa 14 milioni di euro. Quindi la scoperta di centinaia di milioni di euro extrabilancio dimostra che singole «parti» del Vaticano sono molto più floride della Santa Sede in quanto tale.

Fondi neri e possibili abusi

«In realtà - afferma il Prefetto vaticano per l’Economia -, abbiamo scoperto che la situazione è molto più sana di quanto sembrasse, perché alcune centinaia di milioni di euro erano nascosti in particolari conti settoriali e non apparivano nei fogli di bilancio. È un’altra questione, a cui è impossibile rispondere, quella se il Vaticano dovrebbe avere riserve molto più grandi». Secondo Pell, finora nelle finanze vaticane «Congregazioni, Consigli e, specialmente, la Segreteria di Stato, hanno goduto e difeso una sana indipendenza. I problemi erano tenuti “in casa” (come si usava nella maggior parte delle istituzioni, laiche e religiose, fino a poco tempo fa). Pochissimi erano tentati di dire al mondo esterno che cosa stava accadendo, tranne quando avevano bisogno di un aiuto supplementare». Il porporato sostiene che per secoli personaggi senza scrupoli hanno approfittato della ingenuità finanziaria e delle procedure segrete del Vaticano. Le finanze della Santa Sede erano poco regolate e autorizzate a «sbandare, ignorando i principi contabili moderni». Ma ora non è più così: le nuove strutture e organizzazioni stanno portando le finanze vaticane nel 21/mo secolo e rendendo il loro funzionamento trasparente, con piena responsabilità. Sempre secondo Pell, «chi era nella Curia seguiva modelli a lungo consolidati. Proprio come i re avevano permesso ai loro governanti regionali, principi o governatori di avere quasi mano libera, purché i libri fossero in equilibrio, così hanno fatto i Papi con i cardinali di Curia (come fanno ancora con i vescovi diocesani)». Gli accantonamenti extra-bilancio per importi molto rilevanti come quelli rivelati dal cardinale Pell, naturalmente, costituiscono delle sacche all’oscuro dell’amministrazione centrale che possono dare occasione per possibili abusi.

Rivelazioni su Vatileaks

Il segretario per l’Economia, spiega anche che i tentativi di riformare la banca vaticana hanno vacillato. E si sofferma sul caso «Vatileaks». «Quando torneremo agli ultimi anni del pontificato di Benedetto XVI, troveremo che problemi erano tornati alla banca vaticana. Il presidente della banca, il dottor Ettore Gotti Tedeschi, è stato licenziato dal consiglio laico e una lotta di potere in Vaticano ha portato alla fuoriuscita regolare di informazioni. Lo scandalo è esploso quando Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa, ha rilasciato migliaia di pagine di documenti fotocopiati privati del Vaticano alla stampa». «La mia prima reazione - aggiunge - è stata di chiedere come un maggiordomo abbia goduto di un qualsiasi accesso, tanto meno l’accesso regolare per anni, a documenti sensibili. Parte della risposta è che ha condiviso un grande ufficio unico con i due segretari papali. Tutto questo è stato gravemente dannoso per la reputazione della Santa Sede e una croce pesante per Papa Benedetto».

 

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20 maggio 2014 2 20 /05 /maggio /2014 21:25

La lettera di 26 firmatarie italiane «coinvolte sentimentalmente con un sacerdote o religioso»: si appellano a Bergoglio e gli chiedono di rivedere la legge sul celibato

ANDREA TORNIELLI CITTÀ DEL VATICANO «Caro Papa Francesco, siamo un gruppo di donne da tutte le parti d'Italia (e non solo) che ti scrive per rompere il muro di silenzio e indifferenza con cui ci scontriamo ogni giorno. Ognuna di noi sta vivendo, ha vissuto o vorrebbe vivere una relazione d'amore con un sacerdote, di cui è innamorata». Inizia così la lettera firmata (con il solo nome di battesimo più l'iniziale del cognome o la città di provenienza, ma nella raccomandata inviata in Vaticano c'era un cognome e c'erano recapiti telefonici) da 26 donne che affermano di vivere relazioni sentimentali con dei preti.

Le firmatarie di definiscono «un piccolo campione» ma affermano di parlare a nome di tante che «vivono nel silenzio». «Come tu ben sai - si legge nella missiva - sono state usate tantissime parole da chi si pone a favore del celibato opzionale, ma forse ben poco si conosce della devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell'innamoramento. Vogliamo, con umiltà, porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa». «Noi amiamo questi uomini, loro amano noi - scrivono le 26 donne - e il più delle volte non si riesce pur con tutta la volontà possibile, a recidere un legame così solido e bello, che porta con se purtroppo tutto il dolore del "non pienamente vissuto". Una continua altalena di "tira e molla" che dilaniano l'anima. Quando, straziati da tanto dolore, si decide per un allontanamento definitivo, le conseguenze non sono meno devastanti e spesso resta una cicatrice a vita per entrambi. Le alternative sono l'abbandono del sacerdozio o la persistenza a vita di una relazione segreta».

«Nel primo caso la forte situazione con cui la coppia deve scontrarsi viene vissuta con grandissima sofferenza da parte di entrambi: anche noi donne desideriamo che la vocazione sacerdotale dei nostri compagni possa essere vissuta pienamente, che possano restare al servizio della comunità, a svolgere la missione che per tanti anni hanno svolto con passione e dedizione, rinvigoriti adesso ancor di più dalla forza vitale dell'amore che hanno scoperto insieme a noi, che vogliamo sostenerli e affiancarli nel loro mandato».

«Nel secondo caso, ovvero nel mantenimento di una relazione segreta - si legge ancora nella lettera - si prospetta una vita nel continuo nascondimento, con la frustrazione di un amore non completo che non può sperare in un figlio, che non può esistere alla luce del sole. Può sembrare una situazione ipocrita, restare celibi avendo una donna accanto nel silenzio, ma purtroppo non di rado ci si vede costretti a questa dolorosa scelta per l'impossibilità di recidere un amore così forte che si è radicato comunque nel Signore». Secondo le firmatarie, il servizio totale «a Gesù e alla comunità» sarebbe svolto «con maggiore slancio da un sacerdote che non ha dovuto rinunciare alla sua vocazione all'amore coniugale, unitamente a quella sacerdotale, e che sarebbe anche supportato dalla moglie e dai figli».

Le 26 donne si appellano al Papa chiedendo di essere da lui convocate «per portare davanti a te umilmente le nostre storie e le nostre esperienze, sperando di poter attivamente aiutare la Chiesa, che tanto amiamo, verso una possibile strada da intraprendere con prudenza e giudizio». «Grazie Papa Francesco! - così si conclude la missiva - Speriamo con tutto il cuore che tu benedica questi nostri Amori, donandoci la gioia più grande che un padre vuole per i suoi figli: vederci felici!!!».

Com'è noto Bergoglio, da cardinale di Buenos Aires ma anche nei primi mesi di pontificato fino alla morte della donna, avvenuta nel novembre scorso, si era mantenuto in contatto con Clelia Luro, la vedova dell'ex vescovo Jerónimo Podestá. Nel 2000, l'arcivescovo Jorge Mario Bergoglio aveva assistito Podestá sul letto di morte. Nel 1966 Podestà, quarantacinquenne vescovo della diocesi di Avellaneda, aveva incontrato Clelia - all'epoca trentanovenne, separata e madre di sei figlie - iniziando con lei una relazione che lo avrebbe portato ad abbandonare l'episcopato nell'anno successivo. Nel 1972 era stato dimesso dallo stato clericale e aveva sposato la donna.

Ciononostante, Bergoglio non si è mai espresso in favore della cancellazione della tradizione latina del celibato. Nel dialogo con il rabbino Abraham Skorka pubblicato nel libro «Il cielo e la terra», aveva detto: «È un tema che viene discusso nel cattolicesimo occidentale, su sollecitazione di alcune organizzazioni. Per ora si tiene ferma la disciplina del celibato. C'è chi dice, con un certo pragmatismo, che stiamo perdendo manodopera. Se, per ipotesi, il cattolicesimo occidentale dovesse rivedere il tema del celibato, credo che lo farebbe per ragioni culturali (come in Oriente), non tanto come opzione universale». «Per il momento - continuava Bergoglio - io sono a favore del mantenimento del celibato, con tutti i pro e i contro che comporta, perché sono dieci secoli di esperienze positive più che di errori... La tradizione ha un peso e una validità. I ministri cattolici scelsero gradualmente il celibato. Fino al 1100 c'era chi lo sceglieva e chi no... è una questione di disciplina e non di fede. Si può cambiare. Personalmente a me non è mai passata per la testa l'idea di sposarmi».

Quello che il futuro Papa non tollerava, era la doppia vita dei sacerdoti. «Se uno viene da me e mi dice che ha messo incinta una donna, io lo ascolto - diceva Bergoglio nel dialogo con il rabbino - cerco di tranquillizzarlo e poco a poco gli faccio capire che il diritto naturale viene prima del suo diritto in quanto prete. Di conseguenza deve lasciare il ministero e farsi carico del figlio, anche nel caso decida di non sposare la donna. Perché come quel bambino ha diritto ad avere una madre, ha anche diritto ad avere un padre con un volto. Io mi impegno a regolarizzare tutti i suoi documenti a Roma, ma lui deve lasciare tutto. Ora, se un prete mi dice che si è lasciato trascinare dalla passione, che ha commesso un errore, lo aiuto a correggersi. Ci sono preti che si correggono, altri no. Alcuni purtroppo non vengono nemmeno a dirlo al vescovo». Correggersi, per Bergoglio significa «fare penitenza, rispettare il celibato. La doppia vita non ci fa bene, non mi piace, significa dare sostanza alla falsità. A volte dico loro: "Se non sei in grado di sopportarlo, prendi una decisione"». A proposito del celibato non si deve dimenticare che, pur senza cambiare la posizione tradizionale, ribadita dai predecessori e dai Sinodi dei vescovi, Benedetto XVI nel novembre 2009 ha aperto un nuovo spiraglio, seppure circoscritto alle comunità anglicane decise a entrare nella comunione cattolica. Com'è noto, con la costituzione apostolica «Anglicanorum coetibus» Papa Ratzinger in quell'anno istituiva gli Ordinariati anglo-cattolici. Nel secondo paragrafo dell'articolo 6 della costituzione, dopo che in precedenza si era ribadita la regola del celibato per il futuro, il Pontefice tedesco stabiliva la possibilità di «ammettere caso per caso all’ordine sacro del presbiterato anche uomini coniugati, secondo i criteri oggettivi approvati dalla Santa Sede».

In ogni caso, come risulta anche dalla prassi delle Chiese ortodosse e delle Chiese orientali in comunione con Roma, non si è mai trattato di concedere al prete ordinato la possibilità di prendere moglie, ma soltanto di ammettere al sacerdozio (mai all'episcopato) uomini già sposati.

Il Matrimonio è un diritto anche per i preti

La lettera di chi ama i sacerdoti al Papa pone un problema vero Vito Mancuso – La Repubblica

Chissà come risponderà il Papa alla lettera indirizzatagli da 26 donne che (così si sono presentate) «stanno vivendo, hanno vissuto o vorrebbero vivere una relazione d' amore con un sacerdote di cui sono innamorate». Ignorarla non è da lui, telefonare a ogni singola firmataria è troppo macchinoso, penso non abbia altra strada che stendere a sua volta uno scritto. Avremo così la prima epistula de coelibato presbyterorum indirizzata da un Papa a figure che fino a poco fa nella Chiesa venivano chiamate, senza molti eufemismi, concubine. Dai frammenti della lettera riportati sulla stampa risulta che le autrici hanno voluto presentare la «devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell' innamoramento ». Il loro obiettivo, scrivono al Papa, è stato «porre con umiltà ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa».

Ecco la posta in gioco, il bene della Chiesa. L' attuale legge ecclesiastica che lega obbligatoriamente il sacerdozio al celibato favorisce il bene della Chiesa? Guardando ai due millenni del cattolicesimo, ritroviamo che nel primo il celibato dei preti non era obbligatorio («fino al 1100 c' era chi lo sceglieva e chi no», così scriveva il cardinale Bergoglio). Mentre lo divenne nel secondo in base a due motivi: 1) la progressiva valutazione negativa della sessualità, il cui esercizio era ritenuto indegno per i ministri del sacro; 2) la possibilità per le gerarchie di controllare meglio uomini privi di famiglia e di conseguenti complicate questioni ereditarie. Così il prete cattolico del secondo millennio divenne sempre più simile al monaco.

Si tratta però di due identità del tutto diverse. Un conto è il monaco il cui voto di castità è costitutivo del codice genetico perché vuole vivere solo a solo con Dio (come dice già il termine monaco, dal greco mònos, solo, solitario); un conto è il ministro della Chiesa che determina la sua vita nel servizio alla comunità. Il prete (diminutivo di presbitero, cioè "più anziano") esiste in funzione della comunità, di cui è chiamato a essere "il più anziano", cioè colui che la guida in quanto dotato di maggiore saggezza ed esperienza di vita.

Ora la questione è: la celibatizzazione forzata favorisce tale saggezza e tale esperienza? Quando i preti celibi parlano della famiglia, del sesso, dei figli e di tutti gli altri problemi della vita affettiva, di quale esperienza dispongono? Rispondo in base alla mia esperienza: alcuni sacerdoti dispongono di moltissima esperienza, perché il celibato consente loro la conoscenza di molte famiglie, altri di pochissima o nulla, perché il celibato li fa chiudere alle relazioni in una vita solitaria e fredda. Ne viene che il celibato ha valore positivo per alcuni, negativo per altri, e quindi deve essere lasciato, come nel primo millennio, alla libera scelta della coscienza.

Vi è poi da sottolineare che la qualità della vita spirituale non per tutti dipende dall' astinenza sessuale e meno che mai dall' essere privo di famiglia, basti pensare che quasi tutti gli apostoli erano sposati e che il Nuovo Testamento prevede esplicitamente il matrimonio dei presbiteri (cf. Tito 1,6). Se poi guardiamo alla nostra epoca, vediamo che veri e propri giganti della fede come Pavel Florenskij, Sergej Bulgakov, Karl Barth, Paul Tillicherano sposati. Se i nazisti non l' avessero impiccato, anche Dietrich Bonhoeffer si sarebbe sposato, ed Etty Hillesum, una delle più radiose figure della mistica femminile contemporanea, ebbe una vita sessuale molto intensa. Anche Raimon Panikkar, sacerdote cattolico, tra i più grandi teologi del '900, si sposò civilmente senza che mai la Chiesa gli abbia tolto la funzione sacerdotale.

"Non è bene che l' uomo sia solo", dichiara Genesi 2,18. Gesù però parla di "eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli" (Matteo 19,12). La bimillenaria esperienza della Chiesa cattolica si è svolta tra queste due affermazioni bibliche, privilegiando per i preti ora l' una ora l' altra. Penso però che nessuno possa sostenere che il primo millennio cristiano privo di celibato obbligatorio sia stato inferiore rispetto al secondo. Oggi, a terzo millennio iniziato, penso sia giunto il momento di integrare le esperienze dei due millenni precedenti e di far sì che quei preti che vivono storie d' amore clandestine (che sono molto più di 26) possano avere la possibilità di uscire alla luce del sole continuando a servire le comunità ecclesiali a cui hanno legato la vita. La loro "anzianità" non ne potrà che trarre beneficio.

Vi sono poi le molte migliaia di preti che hanno lasciato il ministero per amore di una donna (ma che rimangono preti per tutta la vita, perché il sacramento è indelebile) e che potrebbero tornare a dedicare la vita alla missione presbiterale, segnati da tanta, sofferta, anzianità.

La moglie del prete Paolo Rodari La Repubblica

Amanti, costrette a soffocare i propri sentimenti: le hanno chiamate le rivali di Dio. Donne che sfidano il senso di colpa ed escono allo scoperto con il loro compagno, schedato subito nella categoria degli "spretati". Per tutte nel tempo di Papa Francesco l' ignominia potrebbe finalmente essere cancellata. La lettera di ventisei di loro a Bergoglio chiede il diritto al matrimonio per chi indossa l' abito talare. E ripropone il dibattito sulla necessità di eliminare non un dogma ma una legge ecclesiastica

C'è chi le ha chiamate per lungo tempo «le rivali di Dio». Ma oggi, nell'èra di Francesco, il Papa che come Giovanni XXIII ritiene che la medicina della Chiesa sia la misericordia - senza la carità «non sono nulla», scrisse san Paolo ai Corinzi - l'ignominia potrebbe finalmente essere cancellata. Sono donne come tante, che a un certo punto del cammino si sono innamorate - ricambiate - di un prete e, a motivo di questo amore, hanno patito sofferenze non da poco. Guardate con sospetto, molte hanno capitolato soffocando i propri sentimenti. Altre hanno tenuto duro e, nella clandestinità, hanno vissuto da amanti il resto della propria vita. Altre ancora, invece, sono uscite allo scoperto assieme al proprio compagno, anch'egli tuttavia da subito schedato all' interno di una precisa categoria, quella degli «spretati».

"Le défroqué" (Lo spretato), non a caso, è il titolo con cui nel 1953 Leo Jannon portò nelle sale un film con epilogo drammatico dedicato alla vita di un prete che lasciò l'abito. A significare che nel film, come nella realtà, lei e lui vivono il medesimo destino di esclusi perché ribelli, gente che in qualche modo va oltre le regole del consentito. Certo, dopo il Concilio Vaticano II molte cose sono cambiate. Anche se è pur vero che per tutti Giovanni Paolo II si batté il petto nel grande giubileo del 2000 (ebrei, scismatici, eretici e perfino streghe) ma non per i preti che hanno abbandonato l' abito per sposarsi, tantomeno per le rispettive consorti. Sono centomila i sacerdoti che negli ultimi cinquant' anni (oggi sono circa 70mila quelli in vita, 6mila soltanto in Italia) hanno lasciato il sacerdozio, la maggior parte di essi per amore di una donna.

Fra le ventisei donne che hanno scritto a Francesco chiedendogli di togliere l'obbligo del celibato sacerdotale non c'è Anna Ferretti, moglie da più di trent' anni di un sacerdote della diocesi di Napoli. Ma anche lei ritiene sia questo il tempo per ricordare che «il celibato non è un dogma ma una legge. E che un prete che decide di sposarsi può portare nuovo amore anche dentro la stessa Chiesa». Dice: «Ho conosciuto mio marito in parrocchia. A un certo punto abbiamo capito insieme che dovevamo andare al di là di una amicizia. Da quel momento mio marito non ha più celebrato per scelta. Siamo rimasti nella Chiesa, ancora adesso mio marito tiene un corso per fidanzati. Un sacerdote a sua volta sposato, ci ha sposati. Il nostro matrimonio non è scritto nei libri della Chiesa. È scritto però in cielo, le carte sono relative».

Gianni Gennari, teologo, oggi non esercita più il ministero ma ancora, dice, «mi sento prete, sono prete». Racconta: «Nell'84 mi ero appena sposato con una dispensa pro gratia di Giovanni Paolo II che mi fu ottenuta direttamente dal cardinale Ratzinger. Ricordo che facendo un'intervista al cardinale Martini per il Tg3, lui mettendomi una mano sulla spalla mi disse sorridendo: "Caro don Gianni, forse sei arrivato troppo presto". In quegli stessi anni, fra l'altro, io e mia moglie siamo stati amici di Jerónimo Podestá, vescovo argentino sposato con Clelia Luro. Quando venivano a Roma spesso erano a pranzo a casa nostra». Podestà lasciò per Clelia l' episcopato. Ma Jorge Mario Bergoglio non lasciò mai loro: fino alla morte di entrambi mantenne un contatto. Gennari, circa l'obbligo del celibato, ha le idee chiare: «Il celibato obbligatorio non è un dogma, non c'è di mezzo alcuna verità di fede, è una legge della Chiesa che pure per secoli ha avuto anche preti sposati e Papi sposati e Papi figli di Papi. Tra l'altro le Chiese cattoliche di rito orientale hanno ancora oggi preti felicemente sposati. La legge fu fissata a metà del secolo decimo sesto dal Concilio di Trento convocato da Papa Paolo III, Alessandro Farnese, padre di quattro figli». Ma, dice ancora, «io non contesto la validità della legge del celibato: da quando c'è e finché c'è va osservata da tutti i preti di rito latino che ne fanno promessa. Chi pensa di non osservarla è tenuto a cessare l'esercizio del ministero presbiterale. Tuttavia è bene ricordare che, come ripete spesso Francesco oggi, i pericoli per la santità presbiterale non vengono solo dal "pansessualismo violento", ma anche da superbia, carrierismo, denaro, potere sulle coscienze altrui e pretesa di comandare anche dove dovremmo ascoltare e servire Il "peccato delle origini" non ha reso "fragile" l'uomo, celibe o sposato, solo nella sessualità. È un problema aperto e rispettando tutti serve pazienza e testimonianza».

La pazienza non è mai troppa. E serve ancora oggi seppure impercettibili spiragli di cambiamento nel tempo del Papa kerigmatico che è Francesco ci sono. Monsignor Erwin Kraeutler, vescovo di origine austriaca, missionario in Brasile, prelato di Xingu nella regione amazzonica, ha riferito di aver parlato con Bergoglio, che lo ha ricevuto in udienza lo scorso quattro aprile, dell'ipotesi che vengano ordinati i cosiddetti "viri probati", uomini sposati di provata fede, per assicurare l' assistenza spirituale in un territorio sconfinato con 700mila fedeli, 800 comunità e soli 27 preti. Cosa le ha detto il Papa? «Che noi vescovi locali conosciamo nel modo migliore i bisogni delle nostre comunità e dovremmo fargli per questo proposte concrete. Dovremmo essere "corajudos", ha detto in spagnolo, Un altro lieve segnale viene della diocesi di Roma. L'altro ieri un circuito di comunità d'ispirazione conciliare, che spinge sui temi della riforma, di cui fa parte anche Noi Siamo Chiesa ha organizzato un incontro dal titolo "Chiesa di tutti, chiesa dei poveri". E i lavori sono stati significativamente aperti con un saluto del vescovo ausiliare Guerino di Tora. Un gesto a suo modo non trascurabile per un rappresentante dell' istituzione.

Racconta VittorioBellavite, portavoce di Noi Siamo Chiesa: «Noi vogliamo stare con fiducia sulla linea di Francesco e dal basso favorire i cambiamenti necessari alla Chiesa». La comunità ecclesiale opera dal basso. Fra questa, le comunità cristiane di base. Il loro riconoscersi nel Vangelo e nella pratica di una Chiesa "altra" rispetto a quella istituzionale - secondo loro più evangelica e più credibile - non è stato sempre apprezzato. Ma, dice Elena Inguaggiato, sposata con Rosario Mocciaro, prete della comunità di base di San Paolo e ridotto allo stato laicale senza che egli avesse chiesto dispensa, «Francesco è un nuovo inizio per tutti perché sa parlare al cuore della gente. Si pone in modo diverso, con uno stile nuovo, e sono sicura che saprà come agire». Come ha vissuto il suo amore? «Inizialmente avevo un po' di senso di colpa. Poi, invece, tutto è stato fatto alla luce del sole, grazie anche all' aiuto della comunità. Siamo felici. Oggi abbiamo anche due figli».

Il senso di colpa, la paura di svelarsi. Giancarla Codrignani - nel 2005 ha scritto "L'amore ordinato", Edizioni Com-Nuovi Tempi - trovò tempo fa su un sito italiano "Donne- cosi" ("donne contro il silenzio") una testimonianza pubblicata per errore contro la richiesta di riservatezza dell'interessata che ben mette in luce quel tormento interiore di chi si sente nel peccato per amare un prete. «Sto male malissimo! Sono stata sbattuta fuori dal confessionale da un mio coetaneo, fresco di seminario, impietrito dal fatto che non voglio né vorrò mai chiedere perdono per aver amato e per amare, perché chiedere perdono sarebbe commettere un peccato ancor più grande, quello di non aver visto la grazia di saper amare fino in fondo e darsi totalmente a chi si è amato e si continua ad amare».

In Vaticano è Gianfranco Girotti, reggente emerito della Penitenzeria apostolica, a dire che «nonostante le tante aperture mostrate su temi scottanti, Bergoglio manterrà la situazione immutata sul celibato». Eppure soluzioni ci sarebbero. Una su tutte la fa sua don Giovanni Nicolini, storico amico di don Giuseppe Dossetti, che spiega come un uomo sposato con famiglia e figli grandi, insieme alla partecipazione diretta della moglie, potrebbe essere ordinato sacerdote. Dice: «Sono consapevole che la tradizione della Chiesa latina non è questa, ma si tratta di un' ipotesi che andrebbe tenuta aperta. Ho visto delle comunità dell'Oriente con preti insieme alle loro spose che servono Dio in maniera splendida. Ed erano bellissimi».

Intervista alla sociologa della Luiss De Blasio

GIACOMO GALEAZZI

ROMA "La lettera delle compagne dei preti è il segno delle speranze che circondano papa Francesco". La sociologa Emiliana De Blasio, che insegna Media gender e Politica all'Università Luiss di Roma ed è cugina del sindaco di New York Bill De Blasio, analizza per Vatican Insider la missiva scritta al Pontefice da 26 donne che affermano di vivere relazioni sentimentali con dei sacerdoti. Un gruppo di donne legate sentimentalmente a sacerdoti ha scritto a papa Francesco.

E’ un universo femminile che esce dal silienzio? "In realtà è un universo che in parte era già uscito allo scoperto con il movimento dei preti sposati. Si trattava però di una presenza ancora forse un piccolo passo indietro rispetto agli uomini. Qui c'è una presa di coscienza e soprattutto una presa di parola, un nuovo protagonismo. Sicuramente è un universo femminile che esce dal silenzio, rivendica il diritto a parlare del proprio amore; non più quindi un ‘problema’ dei preti ma un problema di entrambi. Prima infatti parlavano - quando lo facevano - i preti che lasciavano il sacerdozio o appunto quelli che affermavano il valore del loro ministero anche se sposati. Ora la rivendicazione di dignità viene dalle donne. Da questo punto di vista il valore simbolico è altissimo".

Perché in una società fortemente laicizzata dove tutto è permesso, la vita sessuale dei religiosi sembra essere l'ultimo tabù sopravvissuto? "Di tabù ce ne sono ancora molti a dire il vero. Si pensi all'omosessualità, alla presenza di un'omofobia che non è patrimonio solo di qualche invasato, a un maschilismo non ancora sopito che talvolta si coniuga con la misoginia. La vita sessuale dei religiosi è avvolta in una specie di processo di sacralizzazione che ha accompagnato la funzione stessa del ministero sacerdotale. Si tratta di ultimo retaggio di quel processo di ‘angelicazione’ del sacro che trasforma la santità in modello senza corporeità. La storica Chiara Frugoni aveva fatto una notevole ricostruzione di questo processo di ‘riscrittura’ della storia di san Francesco. La vita sessuale è tabù perché riguarda il corpo, che in una vulgata molto diffusa (ma di fatto assolutamente anti-cristiana) non è cosa di cui si interessano i santi".

Nei casi di abbandono del sacerdozio, ad avere il sopravvento è la solitudine? "Non ho conoscenza scientifica del fenomeno e quindi non posso che esprimere opinioni. Credo che si tratti di un sentimento molto presente ma so che esistono anche gruppi e comunità di auto-aiuto e solidarietà. Certo, sicuramente, la solitudine intesa come rottura del rapporto con una comunità è una grave ferita. Lo è anche per i preti che si sposano. Tuttavia in quest’ultimo caso è possibile costruire nuove relazioni comunitarie".

Nell'oriente cristiano i sacerdoti si sposano. Il clero uxorato è una svolta alla quale può essere pronta anche la componente latina della "cristianità"? "Assolutamente sì. Forse potranno permanere ostacoli fra alcuni soggetti delle generazioni più anziane e fra i membri di qualche gruppo integralista. Mi sembra però che il mondo cattolico del sud Europa sia pronto per il cambiamento. Ciò che a volte si rimprovera ai preti (e più in generale alla Chiesa) è altro, non certo il desiderio a una vita di coppia. La componente latina, poi, è già abituata da tempo a figure uxorate (i diaconi, per esempio, senza dimenticare che la penetrazione delle Chiese riformate ha favorito anche in Italia un processo di ripensamento). Questo non significa che non ci sarebbero opposizioni al clero uxorato; mi sembra, però, che il ‘prete sposato’ non sia più un problema sociale. Forse, dal punto di vista sociale, potrebbe essere più difficile l'accettazione del sacerdozio femminile di quanto possa esserlo quello del sacerdozio maschile uxorato".

Rivolgersi al Papa è anche un modo per fuggire dalla clandestinità e dall'ipocrisia? "Sì. Ma è anche il segno delle speranze che circondano papa Francesco. E’ un uomo del dialogo, che cerca di ascoltare e non imporre, propone un modello di Chiesa aperta al mondo e pronta ad abbracciare il mondo. L'amore prima del giudizio, anzi l'amore che invera il giudizio. Credo che - dal punto di vista sociale - papa Francesco sia percepito, anche dai non credenti, come un testimone di dialogo, ascolto e carità. Rivolgersi al Papa significa uscire dalla clandestinità e dall'ipocrisia ma anche attivare un dialogo con chi ha fatto del dialogo una delle sue armi pastorali".

L'amore di queste donne è un "amore negato"? "No, almeno non più. Lo affermano, il loro amore. Così come i preti sposati avevano già fatto. Direi che è un amore nascosto, che viene delegittimato dalla società proprio perché segreto e per quello che dicevamo a proposito del tabù. Se poi, dal punto di vista psicologico possa essere un amore negato, non saprei perché non sono una psicologa. Queste donne, però, affermando il loro amore, sono positive e proattive e sembrano libere dal senso di colpa che aveva nel passato caratterizzato questo tipo di relazioni: in quei casi forse si trattava di amore negato. Oggi è un amore socialmente delegittimato che reclama di essere riconosciuto

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29 aprile 2014 2 29 /04 /aprile /2014 13:07

La Chiesa di Bergoglio e il bisogno dei Papi santi

Tra le religioni monoteiste è solo il cristianesimo a conoscere il fenomeno della santità, che invece rimane del tutto sconosciuto all’ebraismo e all’islam. Non che in queste due grandi religioni non vi siano stati e non vi siano uomini e donne di grande spessore spirituale, ma né l’ebraismo né l’islam nel riconoscerne il valore hanno mai sentito l’esigenza di dichiararli “santi”. Per queste due religioni infatti la santità appartiene per definizione solo a Dio, e l’uomo, fosse anche il migliore di tutti, fosse anche il profeta Elia o il profeta Muhammad, non può strutturalmente partecipare al divino, e quindi può essere sì giusto, osservante, devoto, ma mai può essere santo.

Il cristianesimo al contrario crede nella possibilità della comunione ontologica tra il divino e l’umano… Di una comunione cioè che non riguarda solo la volontà del credente ma giunge a comprenderne anche l’essere. In questo senso si può dire che la santità è una conseguenza dell’incarnazione, del farsi uomo da parte di Dio in Gesù di Nazaret: come il Figlio infatti da vero Dio è diventato uomo, così i suoi discepoli migliori da semplici uomini giungono alla possibilità di partecipare alla condizione divina denominata santità. C’è molto ottimismo, c’è molta simpatia verso l’uomo, nel dichiararne la santità.

E non è certo un caso che tra le diverse forme di cristianesimo siano in particolare il cattolicesimo e l’ortodossia a insistere sulla santità, che invece è quasi del tutto dimenticata nel protestantesimo la cui teologia è perlopiù caratterizzata da un’antropologia pessimista secondo cui l’uomo non potrà mai giungere a una natura pienamente riconciliata (per Lutero si è sempre simul iustus et peccator, il male cioè non può essere mai del tutto sradicato neppure nel migliore dei giusti). In questa prospettiva il cattolicesimo mostra una grande affinità con l’induismo, per il quale la comunione tra il divino e l’umano è all’ordine del giorno, e con il buddhismo, per il quale la natura di Buddha appartiene di diritto a ogni essere umano.

E infatti entrambe queste grandi religioni conoscono, come il cattolicesimo, il fenomeno della santità, fino a giungere a condividere l’appellativo “Sua Santità” che appartiene tanto al Romano pontefice quanto al Dalai Lama, mentre l’appellativo Mahatma (grande anima) riservato dall’induismo ai suoi figli migliori è solo un altro modo di dichiararne la santità. Che cosa contraddistingue allora la santità cattolica? La risposta è la Chiesa, ovvero il fatto che la santità non viene riconosciuta dal basso, dal popolo, per gli evidenti meriti del maestro, come fu il caso di Gandhi chiamato Mahatma già in vita, ma diviene tale solo in seguito a una formale dichiarazione della gerarchia ecclesiastica detta canonizzazione.

E qui si inserisce, oltre alla dimensione teologico-spirituale dichiarata sopra, la valenza politica del fenomeno santità. La politica infatti ha sempre giocato un grande ruolo nella storia della Chiesa alla prese con la dichiarazione della santità dei suoi figli migliori. Nel bene e nel male. Si pensi nel primo caso alla rapidissima canonizzazione di Francesco d’Assisi, proclamato santo a neppure due anni dalla morte. E si pensi nel secondo caso alla canonizzazione dell’imperatore Costantino o alla beatificazione di Carlo Magno, uomini di immenso potere, dalla vita non proprio integerrima e tuttavia elevati agli onori dell’altare.

La canonizzazione da parte del papato di propri esponenti, compresa quella di domenica prossima, rientra alla perfezione in questa prospettiva dalla forte connotazione politica: degli otto pontefici del ‘900 ormai ben tre (Pio X, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II) sono diventati santi e tre sono sulla via per diventarlo (Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo I), lasciando peraltro la memoria degli altri due (Benedetto XV e Pio XI) in grave imbarazzo. Aveva del tutto torto il cardinal Martini a essere contrario alla canonizzazione dei papi recenti? Tanto più che la politica ecclesiastica non si esprime solo sulle canonizzazioni in positivo, ma anche su quelle in negativo, sull’esclusione cioè di chi meriterebbe di essere riconosciuto santo ma non lo diviene.

È il caso di monsignor Oscar Romero, ucciso dagli squadroni della morte il 24 marzo 1980 mentre celebrava la messa nella cattedrale di San Salvador per la difesa dei diritti dei poveri, e mai beatificato da Giovanni Paolo II, che anzi in vita l’umiliò, né in seguito da Benedetto XVI. Ed è il caso di Helder Camara, il vescovo di Recife, nel nord del Brasile, famoso per la sua lotta a favore degli ultimi (amava ripetere «quando do da mangiare a un povero dicono che sono un santo, quando chiedo perché è povero dicono che sono comunista») per la sua gente già santo ma non per il Vaticano. La santità esprime un grande ottimismo sulla natura umana in quanto ritenuta capace realmente di bene e per questo il suo istituto è tanto importante e andrebbe governato con maggiore spirito di profezia. La politica però ha purtroppo spesso la meglio, e la canonizzazione parallela di domenica prossima di due papi tanto diversi lo dimostra ancora una volta.

Vito Mancuso -  la Repubblica

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24 aprile 2014 4 24 /04 /aprile /2014 16:06

Il Papa tentato dal teologo ribelle "Riabilitare Giordano Bruno"

Ho parlato a Bergoglio anche di Eckhart: a tutti e due la Chiesa deve restituire la dignità perduta

CITTÀ DEL VATICANO. Frei Betto, religioso brasiliano domenicano, fra i teologi della liberazione più famosi al mondo, autore di un celebre libro intervista con Fidel Castro di cui è amico, già assessore del programma Fome Zero (Fame Zero) del primo Governo Lula (autore di "Quell'uomo chiamato Gesù" Emi), è stato ricevuto ieri da Papa Francesco a casa Santa Marta.

Di cosa avete parlato? «Da teologo domenicano gli ho chiesto di riabilitare ufficialmente Giordano Bruno, condannato al rogo dall'Inquisizione cattolica, e Meister Eckhart, contemporaneo di Dante, condannato anch'egli dalla Chiesa per eresia. La Chiesa può finalmente ridare loro la dignità perduta, può riabilitarli. E fare giustizia. Ho chiesto questo a papa Francesco perché ritengo che il tempo sia finalmente propizio in questo senso. Sono convinto infatti che, come Tommaso d'Aquino, i loro scritti superino i secoli e siano un contributo fondamentale alla teologia mistica. Giordano Bruno aveva una visione panteistica del mondo, era un umanista importante ma i suoi scritti sono un contributo da valorizzare. La Chiesa era spaventata da lui e non viceversa. Fu un martire e occorre riconoscerlo».

Papa Francesco cosa le ha risposto? «Che ci pregherà. E ha chiesto anche a noi di pregarci sopra. E così faremo, sperando che una riabilitazione arrivi presto. Sono contentissimo di non aver ricevuto una risposta negativa. È davvero un Papa capace di ascoltare le istanze di tutti, senza chiusure né pregiudizi. Per questo non posso che ringraziarlo».

Ha parlato col Papa della teologia della liberazione? «Certo, prima però gli ho detto che ho letto la sua lettera recentemente inviata alle comunità di base. Il Papa diceva che le comunità di base, a lungo bistrattate dalle gerarchie, sono un movimento nella Chiesa cattolica. Io gli ho detto che non sono un movimento, ma sono la Chiesa, un modo d'essere all'interno della stessa Chiesa, una realtà radicata internamente e non a essa esterna, non un corpo estraneo. E che loro per prime non desiderano essere considerate un movimento estraneo. Quanto alla teologia della liberazione, gli ho detto che il Papa deve essere per tutta questa teologia un padre amoroso, come di fatto egli già è. Noi teologi della liberazione siamo figli della Chiesa. Per troppo tempo ci hanno considerato corpi estranei. Invece siamo parte della Chiesa».

Jorge Mario Bergoglio a Buenos Aires era sempre dalla parte dei poveri e degli ultimi. Avete parlato del suo passato, del tempo trascorso a Buenos Aires da arcivescovo? «Certamente. Francesco ha a cuore i poveri da sempre. Gli ho citato una frase in latino: "Extra pauperum nulla salus (senza poveri non c'è salvezza)". E lui mi ha detto di essere del tutto d'accordo, annuendo soddisfatto. Sono i poveri e gli ultimi la forza della Chiesa, la luce del mondo. Insieme abbiamo parlato delle sofferenze degli indigeni, delle popolazioni locali. Francesco ritiene che in America Latina gli indigeni siano sfruttati e non amati. Egli soffre per e con loro. Il Papa ha detto di volere una Chiesa dei poveri e per i poveri. E per lui queste non sono parole ma vita vissuta».

 

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25 marzo 2014 2 25 /03 /marzo /2014 14:16

La vita di Teresa - Castelvecchi ed. pp 374 € 22.

Di Marco Cicala - La Repubblica

Torna in libreria l'autobiografia di Teresa d'Ávila. Quasi un blog dello spirito che affascinò tanti autori del Novecento. Ma oggi, chi e dove sono i mistici? E perchè la Chiesa sembra essersene dimenticata. Di Marco Cicala Gli esordi di Teresa d'Ávila avvengono sotto la sindrome di Don Chisciotte, che pure sarebbe stato inventato oltre vent'anni dopo la sua morte. La prova? Sentite qua: nel 1523, la futura santa e il fratello Rodrigo si mettono in viaggio verso le terre dei Mori infedeli. Vogliono evangelizzarli. Cercare il martirio. Hanno 17 anni. Ma in due. Lei otto, lui uno di più. Perciò la scappatella dura un soffio: poco fuori Ávila, i baby predicatori vengono riacciuffati da uno zio e rispediti a casa. Verosimilmente a calci. La colpa dell'ispirata fuitina è tutta dei libri. Agiografie di santi e romanzi cavallereschi. Da ragazzina, Teresa non si limita a consumarli compulsiva: se ne lascia invasare. «Giunsi a tal punto d'infatuazione che se non avevo sottomano un nuovo libro non mi pareva quasi di vivere» confesserà nell'autobiografia che ora Castelvecchi ripubblica nella pimpante versione curata dal compianto Italo Alighiero Chiusano. Diceva Cioran : di lei mi affascina l’eccesso, quella follia inconfondibile, tipicamente spagnola Le avventure di Amadigi di Gaula, le gesta del prode Esplandiano ... La vocazione eroica di Teresa, la sua santa follìa, sgorgano da lì, dalla letteratura. Che, catapultandoti nelle latitudini dell'immaginario, è pure lei una forma di trascendenza. Sebbene, certo, ancora tutta donchisciottesca. Cioè profana. Difatti prestissimo Teresa la ricuserà come paradiso artificiale e istigatrice di vanità, passando a più devote letture. Fino a che persino quelle non le verranno impedite. Quando nel 1559, per stoppare le infiltrazioni riformiste, il maxi inquisitore Fernando de Valdés proibisce i libri in castigliano, lei se ne rammarica («alcuni li leggevo con molta edificazione») però si allinea. È giù di corda. Ma, vedendola privata dei libri, Cristo le appare dicendole: «Non ti abbattere, sarò io il tuo libro vivente». Insomma, al diavolo i testi. La preghiera, gli elevati rendez-vous col Salvatore bastano e avanzano. Diresti un'immane liberazione. Dalla cultura, dal sapere scritto, dalla lettura che - per quanto spirituale - resta passionaccia terrena. Finito tutto, basta. Vita Nova. Senonché, subito dopo aver raccontato quella visione, Teresa aggiunge: «il Signore, nella sua amorevolezza, mi istruì in tanti e tali modi, che da allora non ho più avuto che pochissimo o quasi nessun bisogno di libri». Ecco: nella modica quantità di quel pochissimo o quasi stanno compressi in sfumatura, in sublimine, in piega barocca o chiamatela come accidenti vi pare, tutti i chilotoni dell'agudeza, lo scaltro acume che sarebbe stato virtù geniale - insieme religiosa e politica - della Spagna aurea. Benché laureata Dottore della Chiesa - nel 1970 da Paolo VI - Teresa non fu una santa dotta. Ma, seppur pochissimo o quasi, sempre rimase agganciata all'orizzonte del libro. Nella sua Vida, continuamente vedi scoppiare esperienze di lettura totalizzanti, di quelle che agguantano, imprimono una svolta, rovesciano la bussola: l'epistolario di San Girolamo, i Moralia di san Gregorio, soprattutto le Confessioni di Agostino e il Terzo Abbecedario del mistico Francisco de Osuna. Testi che la bombardano di folgorazioni. Ma senza trasformarla in un'intellettuale. Intellettuali erano semmai i controllori, gli inquisitori, i confessori che sino alla fine vivisezionarono il suo fervore, i suoi dubbi carismi, per capire se estasi, rapimenti, transverberazioni, levitazioni e matrimoni spirituali fossero roba genuina o tumorame demoniaco. Epperò senza quei molossi dell'ortodossia oggi non leggeremmo nulla o quasi di Teresa d'Ávila. Perché furono loro che la spinsero a vuotare il sacco sulla pagina. Fosse stato per lei, non avrebbe scritto una riga. Aveva troppo da fare. Incontrarsi en tête-àtête con Gesù Cristo nell'orazione mentale. Fondare a raffica nuovi presidi carmelitani. Riportando all'ordine un Ordine ormai svaccato in mille affarucci mondani. Razionalizzazione, spending review sulle casse conventuali («L'aver rendita mi pareva causa di tanti inconventienti, inquietudini e persino dissipazione»), tagli al personale (non più di dodici suore più una priora per monastero) le attirarono accuse di protagonismo, scatenando polemiche e gossip tipici di ogni epoca in cui la Chiesa veda i propri assetti sferzati da ventate pauperizzanti. Bella donna robusta, di innata eleganza («le stava bene anche uno straccio»), Teresa, come per contrappasso, predicò l'austerity in una Spagna che di ristrettezze non voleva sentir parlare, vivendo il boom della ricchezza spremuta agli Eldorado del Nuevo Mundo. Teresa de Cepeda y Ahumada era nata il 28 marzo 1515 da famiglia possidente e, per parte di padre, un filo ebraica. Ma ventitré anni prima, i judíos erano stati cacciati, ridotti alla clandestinità o alla conversione coatta. A quelli rimasti non restava che identificarsi con l'aggressore. Accreditandosi come cristiani Doc fino all'eccesso di zelo, all'exploit, al sacrificio di sé. Perciò i fratelli di Teresa partirono nelle Indie per combattere, esportare la fede, guadagnarsi a sciabolate i galloni dell'hidalguía - talvolta fino a lasciarci le penne; mentre lei si fece suora, mistica vertiginosa, rivoluzionaria obbediente. E divenne santa subito. Appena 35 anni dopo morta. Un primato. Vivo sin vivir. Muero porque no muero. Teresa parlava della morte con cognizione da rediviva. Perché c'era passata. A 24 anni - causa denutrizione volontaria, sbocchi di bile, struggimenti vari - lei infatti muore. Le danno l'estrema unzione e stanno per seppellirla. Però il padre si oppone. Conoscendola, non si fida. E c'azzecca. Tempo qualche giorno, Teresa si ripiglia. Ma è uno scheletro inerte. Muove appena un dito. Ne verrà fuori strisciando carponi per mesi. È la stessa persona che più tardi vedremo tramutarsi in una specie di beatnik, di eroina on the road. Femmina inquieta y andariega, vagabonda, commentano sospettosi i superiori. Dalla Castiglia all'Andalusia, inaugura conventi del Carmelo - riformato in versione scalza - riattando stalle, rimesse, case diroccate. A piedi, a dorso di mulo, facendo l'autostop al passaggio dei carri contadini, arranca fra terre riarse, valichi sepolti sotto la neve, bivacchi all'addiaccio, taverne malavitose. Ha esuberanza da vendere, eppure si porta la morte dentro come una pallottola che le sia rimasta in corpo senza ucciderla. Controlla le lancette: «Mi rallegro molto sentendo battere l'orologio, perché penso che è passata un'altra ora di vita». E più vicino è l'anelato ricongiungimento familiare con l'Altissimo. Nell'autobiografia, cupio dissolvi e vitalismo fanno pacchetto unico in una scrittura torrenziale, travolgente, semplice e piana, per niente limata, tutta immagini e digressioni, «scapigliata», «quasi d'avanguardia» - notava Chiusano nell'introduzione. Sfidando la pacchianeria, definiresti il Libro de su vida un blog dell'anima. Se non fosse che - in stragrande maggioranza - quei pistolotti internettiani sono vetrinette narcististiche. Mentre per 350 pagine l'autoironica Teresa martella fino alla civetteria sul desconfiar de sí, il diffidare di se stessi. E sgretolando la spettacolarizzazione dell'Ego ne estrae un antidoto contro il demonio. Lui infatti «non inganna chi non si fida di sé». Predicò l’austerità nell’epoca della massima ricchezzA: l’oro che arrivava dalle colonie americano Emil Cioran, Raymond Carver, Gertrude Stein o la fidanzata di Virginia Woolf Vita Sackville West... nella modernità in tanti sono rimasti variamente stregati dagli scritti di Teresa. Che però ci attraggono come una lingua della quale abbiamo perduto la chiave d'accesso. Perché giocoforza siamo tutti rampolli d'una civiltà del desiderio. Invece quelle pagine sono dure, spesso impenetrabili, concrezioni di un'epica della volontà. Spinta fino all'annullamento della volontà. Prendi il leggendario passaggio della Vida in cui si ricorda l'incontro col mistico Pedro de Alcántara. Che, per non perdere la concentrazione, teneva gli occhi bassi e non guardava mai nessuno in faccia. Aveva imparato a dormire non più di un'ora e mezzo per notte con un trave per cuscino, in una cella così angusta da impedirgli di sdraiarsi. «Pareva fatto di radici d'albero ». Perché mangiava ogni tre/ otto giorni. Quando Teresa gli chiede come faccia, lui risponde: «Mica è difficile. Basta prenderci l'abitudine». Che le visioni teresiane (metti quella famosa, e immobilizzata nel marmo da Bernini, dell'angelo che la trafigge col dardo) non fossero che orgasmi isterici è di quelle psico-banalità che ormai potresti orecchiare persino in birreria durante l'happy hour. È vero però che gli scritti di Teresa, come le liriche dell'amico Giovanni della Croce, e più tardi il Quijote o il Don Juan di Tirso sono esplosioni di inventiva che eruttano a geyser dalla scorza di una società rigidamente formalizzata in codici. E che dunque fomentava a manetta la sublimazione. Senza la quale non c'è arte. Teresa d'Avila continua a vedere fino all'ultimo (e per i mistici le visioni non sono fughe ma squarci di un reale assoluto). Nell'ottobre 1582 ha 67 anni. Dissanguata da un cancro all'utero, è al capolinea. Chiede il Viatico. Sta per addormentarsi per sempre. Ma appena ricevuta l'ostia balza in ginocchio sul letto e come ringiovanita di botto invoca il Signore. Poi torna giù. Ad occhi chiusi, stringe il crocefisso sorridendo di letizia. Chiede che l'infermiera le si avvicini. Le posa la testa tra le braccia e, annodata a lei, spira. Stavolta davvero.

Perché chi medita guarda sempre più verso Oriente

PRIVILEGIANDO LA DIMENSIONE LITURGICA E SOCIALE, LA CHIESA NON INCORAGGIA LA RICERCA SPIRITUALE. QUELLA DI BUDDISMO E YOGA

Chi è il mistico? Solitamente si pensa a un visionario che vede, o crede di vedere, dimensioni della realtà che la coscienza comune non avverte e che vengono per lo più identificate con panorami celesti di madonne, angeli, santi e talora anche demoni, da cui giungono particolari informazioni o messaggi di solito chiamati rivelazioni che il mistico a sua volta fa conoscere ai comuni mortali. Si tratta dell’accezione popolare del termine e, come spesso accade quando si ha a che fare con concetti complessi, inesatta. Essa infatti presuppone trasmissione di notizie sotto forma di parole, mentre il termine mistica designa proprio il contrario, viene dal greco mú che significa chiudersi, detto di occhi e di labbra. La vera mistica fa chiudere gli occhi e genera buio, fa chiudere la bocca e genera silenzio. È l’insegnamento unanime dei grandi mistici, si pensi (per fare solo qualche nome) a Gregorio di Nissa e Dionigi Areopagita nei primi secoli cristiani, Eckhart e Taulero nel medioevo, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce in epoca moderna, Teresa di Calcutta e Raimon Panikkar ai nostri giorni… Il buio e il silenzio sono «la nube della non-conoscenza» (titolo di un testo mistico del Trecento inglese) dentro cui solo si può compiere la vera ricerca spirituale, la quale non è ricerca di un oggetto esteriore, come nella comune accezione di scienza, e non è neppure ricerca di sé, come nella comune accezione di psicologia, ma è ricerca sulla vera natura della realtà che è al di là della divisione soggetto-oggetto, come il mistico sperimenta nella sua interiorità. In questa prospettiva la mistica è trasgressione e superamento della coscienza comune, compresa quella religiosa tradizionale che vede la Madonna e i santi. Il mistico travalica i confini tra sé e gli altri, tra sé e la natura, tra sé e Dio, e giunge alla consapevolezza dell’unificazione, alla realizzazione dell’unità. Per questo il mistico è costitutivamente un trasgressivo e spesso e stato visto come un eretico dalle varie ortodossie, che hanno sempre guardato con sospetto ai mistici, talora imprigionati e uccisi. L’unificazione che si ottiene abbattendo le barriere tra soggetto e oggetto è una pericolosa eresia per ogni sistema dottrinale. E forse è anche per questo che nella Chiesa si insiste molto sulla dimensione liturgica, catechistica e sociale, ma quasi per nulla si incoraggia la solitudine dell’anima nella sua ricerca spirituale, la quale così trova alimento quasi solo nelle religioni orientali, in particolare nello yoga induista e nella meditazione buddhista. Nessun vero mistico dirà mai di se stesso «io sono un mistico», e chi si dichiara tale è da guardare con circospezione e sospetto perché è probabile che sia uno che si atteggia, genere di persone non infrequente nell’ambito della religione. Il mistico vive del nascondimento e del silenzio, nasconde anche a se stesso chi egli sia e cosa voglia essere, per il semplice motivo che non vuole essere nulla e non vuole ottenere nulla, se non appunto essere unito, raggiungere con tutte le cose quel sentimento di amicizia che sente sgorgare come una sorpresa dentro di lui. Per questo oggi uno si guarda in giro e si chiede: ma dove sono i mistici?, e può avere l’impressione che non ve ne siano più, ma siano legati solo al passato. Eppure essi ci sono, e sarà compito delle generazioni successive indicarli come tali nella misura in cui essi hanno scritto e lasciato testimonianze sulla propria ricerca. Altrimenti rimarranno sconosciuti, come la maggior parte dei mistici vissuti finora, molto più numerosi di quelli conosciuti per il semplice motivo che non hanno scritto nulla, e nulla è stato scritto su di loro. Io sono convinto però che l’umanità, nella misura in cui prende sul serio la domanda di amore puro e universale al fondo di ogni cuore, conoscerà sempre l’esperienza della mistica. Anche oggi, nelle nostre città e nelle nostre campagne, chissà quanti mistici sconosciuti: sono tutti coloro che avvertono dentro di sé un quieto sentimento di unione con la natura, con il mondo, con la vita, con gli animali, e con il principio di tutte queste cose detto tradizionalmente Dio. E avvertendo tutto ciò non si preoccupano di comunicarlo agli altri a parole per volerli convertire, ma semplicemente illuminano la terra con il loro permanente mezzo sorriso.

Vito Mancuso, venerdì di Repubblica

 

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29 novembre 2013 5 29 /11 /novembre /2013 15:48

“La povertà non può attendere anche il Papato deve convertirsi” Ecco il manifesto di Francesco

 Nell’esortazione apostolica appello ai politici.” Questa economia uccide” 

di Marco Ansaldo in “la Repubblica” del 27 novembre 2013

Per saperne di più: www.vatican.va ; www.repubblica.it

L’ESORTAZIONE: E’ un documento che il papa elabora a partire dalle proposizioni che il sinodo dei vescovi produce come frutto dei suoi lavori

LA COSTITUZIONE: è un atto promulgato dal papa come capo della Chiesa con insegnamenti definitivi o disposizione di una certa rilevanza

L’ENCICLICA:  è una lettera pastorale su materie dottrinali, morali e sociali, indirizzata ai vescovi della Chiesa stessa e attraverso di loro a tutti i fedeli

IL MESSAGGIO: è un testo scritto per occasioni importanti come la giornata mondiale della gioventù.Ha valore pastorale non dottrinale

C’è l’impegno a cambiare la Chiesa profondamente — a cominciare dallo stesso Papato — e l’invito a contrastare la legge del più forte, «dove il potente mangia il più debole». C’è il richiamo a fermare «le guerre all’interno del popolo di Dio» (leggi: in Vaticano), e l’appello per «una riforma finanziaria che non ignori l’etica ». Dice il Papa “venuto dalla fine del mondo” che ora «non si possono lasciare le cose come stanno». E che «questa economia dell’esclusione e dell’iniquitàuccide». Mentre «bisogna ascoltare il grido dei poveri». E allora Francesco prega «il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la vita dei poveri».

 

No all’iniquità: Dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e dell’iniquità. Questa economia uccide.

 

Jorge Mario Bergoglio volta la pagina della Chiesa, invita fedeli e non credenti a serrare le fila contro le aberrazioni della società, e mette per la prima volta nero su bianco i punti fondanti del Pontificato a 8 mesi dalla sua elezione. Lo fa con un’esortazione apostolica, “Evangelii Gaudium”, la prima interamente di suo pugno dopo l’enciclica “Lumen Fidei” ispirata da Benedetto XVI. Un testo lungo 220 pagine, buttato giù direttamente in spagnolo lo scorso agosto dopo il viaggio a Rio de Janeiro, e teso come vuole il titolo a «recuperare la freschezza originale del Vangelo».

È, in sostanza, un documento programmatico. Un’analisi lucida, spietata a tratti, dell’attuale sistema economico e capitalistico. Con un richiamo vibrante alla pace fuori e dentro la Chiesa. Uno scritto potente e al tempo stesso intriso di umanità, nel quale la sensibilità latinoamericana del Papa emerge in tutta evidenza. Un lavoro che L’Osservatore Romano definisce come una «Magna Charta per la Chiesa di oggi », eppure steso con uno stile colloquiale e una prosa coinvolgente.

Il mio ruolo: visto che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato

CONVERSIONE DEL PAPATO

«Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del Papato». È il passo forse più forte e destinato a suscitare discussioni. «A me — scrive Francesco — spetta rimanere aperto ai suggerimenti orientati a un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione. Il Papa Giovanni Paolo II chiese di essere aiutato a trovare “una forma di esercizio del primato che si apra a una situazione nuova”. Siamo avanzati poco in questo senso», è la dura critica di Bergoglio. Anche il Papato e le strutture centrali della Chiesa universale, prosegue, hanno «bisogno di ascoltare l’appello a una conversione pastorale». Perché «un’eccessiva centralizzazione», anziché «aiutare », «complica la vita della Chiesa». È necessaria dunque «una salutare decentralizzazione». Troppe poi le «guerre» nel popolo di Dio e «nelle diverse comunità: chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti? ». Piuttosto, «le chiese devono avere

dappertutto le porte aperte ». Anzi il Papa preferisce «una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade», invece «che una Chiesa malata per la chiusura». Occorre, dunque, una «rivoluzione della tenerezza». Ed evitare il clericalismo e il pessimismo sterile.

ECONOMIA TIRANNA

«Il Papa ama tutti, ricchi e poveri, ma ha l’obbligo, in nome di Cristo, di ricordare che i ricchi devono aiutare i poveri, rispettarli e promuoverli. Vi esorto alla solidarietà disinteressata e a un ritorno dell’economia e della finanza a un’etica in favore dell’essere umano. La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più alte della carità, perché cerca il bene comune».

DONNE E ABORTO

«C’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale». Ma sull’aborto «non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione». E per Bergoglio «non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana». Il “no” all’aborto, spiega, «è legato alla difesa della vita nascente e di qualsiasi diritto umano ».

VESCOVI PIÙ AUTONOMI

«Ancora non si è esplicitato uno Statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autorità dottrinale. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori».

 

LE OMELIE: L’omelia deve essere breve e non sembrare una conferenza o una lezione, deve dire parole che fanno ardere i cuori

 

OMELIE PIÙ BREVI

«La parrocchia — esorta Francesco in uno dei passi più coinvolgenti — stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente». E l’omelia del sacerdote «deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione». Né contenere moralismi o condanne. «Non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alle logiche mediatiche».

LA COMUNIONE AI DIVORZIATI

Francesco non pretende di dire «una parola definitiva» su temi che devono essere ancora «oggetto di studio e di attento approfondimento ». Ma sulla comunione ai divorziati risposati indica una direzione che potrà essere seguita dal prossimo Sinodo straordinario: «L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli».

ISLAM ED EBRAISMO

L’evangelizzazione implica il dialogo. E per Bergoglio l’ecumenismo è una risorsa imprescindibile. «Di fronte a episodi di fondamentalismo violento », ricorda che «il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono a ogni violenza». E «l’amicizia con i figli d’Israele» è parte «della vita dei discepoli di Gesù».

PAGINE POETICHE

Più volte, qua e là nel testo, si trovano passi densi e spunti ricchi di poesia. Come questo, verso la fine: «La nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore».

 

 

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2 ottobre 2013 3 02 /10 /ottobre /2013 09:56

 Papa a Scalfari: così cambierò la Chiesa
"Giovani senza lavoro, uno dei mali del mondo"

ESCLUSIVO Su Repubblica il dialogo con Francesco: "Ripartire dal Concilio, aprire alla cultura moderna". Il colloquio in Vaticano dopo la lettera di Bergoglio pubblicata dal nostro giornale: "Convertirla? Il proselitismo è una solenne sciocchezza. Bisogna conoscersi e ascoltarsi". "La Santa Sede è troppo vaticano-centrica. Basta cortigiani"
di EUGENIO SCALFARI

Il Papa a Scalfari: così cambierò la Chiesa "Giovani senza lavoro, uno dei mali del mondo"

MI DICE papa Francesco: "I più gravi dei mali che affliggono il mondo in questi anni sono la disoccupazione dei giovani e la solitudine in cui vengono lasciati i vecchi. I vecchi hanno bisogno di cure e di compagnia; i giovani di lavoro e di speranza, ma non hanno né l'uno né l'altra, e il guaio è che non li cercano più. Sono stati schiacciati sul presente. Mi dica lei: si può vivere schiacciati sul presente? Senza memoria del passato e senza il desiderio di proiettarsi nel futuro costruendo un progetto, un avvenire, una famiglia? È possibile continuare così? Questo, secondo me, è il problema più urgente che la Chiesa ha di fronte a sé".
 

Il Papa a Scalfari: così cambierò la Chiesa "Giovani senza lavoro, uno dei mali del mondo"


Santità, gli dico, è un problema soprattutto politico ed economico, riguarda gli Stati, i governi, i partiti, le associazioni sindacali.
«Certo, lei ha ragione, ma riguarda anche la Chiesa, anzi soprattutto la Chiesa perché questa situazione non ferisce solo i corpi ma anche le anime. La Chiesa deve sentirsi responsabile sia delle anime sia dei corpi».
Santità, Lei dice che la Chiesa deve sentirsi responsabile. Debbo dedurne che la Chiesa non è consapevole di questo problema e che Lei la incita in questa direzione?
«In larga misura quella consapevolezza c’è, ma non abbastanza. Io desidero che lo sia di più. Non è questo il solo problema che abbiamo di fronte ma è il più urgente e il più drammatico».
L’incontro con papa Francesco è avvenuto martedì scorso nella sua residenza di Santa Marta, in una piccola stanza spoglia, un tavolo e cinque o sei sedie, un quadro alla parete. Era stato preceduto da una telefonata che non dimenticherò finché avrò vita.
Erano le due e mezza del pomeriggio. Squilla il mio telefono e la voce alquanto agitata della mia segretaria mi dice: «Ho il Papa in linea glielo passo immediatamente ».

Resto allibito mentre già la voce di Sua Santità dall’altro capo del filo dice: «Buongiorno, sono papa Francesco». Buongiorno Santità — dico io e poi — sono sconvolto non m’aspettavo mi chiamasse. «Perché sconvolto? Lei mi ha scritto una lettera chiedendo di conoscermi di persona. Io avevo lo stesso desiderio e quindi son qui per fissare l’appuntamento. Vediamo la mia agenda: mercoledì non posso, lunedì neppure, le andrebbe bene martedì?».
Rispondo: va benissimo.
«L’orario è un po’ scomodo, le 15, le va bene? Altrimenti cambiamo giorno». Santità, va benissimo anche l’orario. «Allora siamo d’accordo: martedì 24 alle 15. A Santa Marta. Deve entrare dalla porta del Sant’Uffizio».
Non so come chiudere questa telefonata e mi lascio andare dicendogli: posso abbracciarla per telefono? «Certamente, l’abbraccio anch’io. Poi lo faremo di persona, arrivederci ».
Ora son qui. Il Papa entra e mi dà la mano, ci sediamo. Il Papa sorride e mi dice: «Qualcuno dei miei collaboratori che la conosce mi ha detto che lei tenterà di convertirmi»
È una battuta gli rispondo. Anche i miei amici pensano che sia Lei a volermi convertire.
Ancora sorride e risponde: «Il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso. Bisogna conoscersi, ascoltarsi e far crescere la conoscenza del mondo che ci circonda. A me capita che dopo un incontro ho voglia di farne un altro perché nascono nuove idee e si scoprono nuovi bisogni. Questo è importante: conoscersi, ascoltarsi, ampliare la cerchia dei pensieri. Il mondo è percorso da strade che riavvicinano e allontanano, ma l’importante è che portino verso il Bene».
Santità, esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?
«Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene».
Lei, Santità, l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa.
«E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo».
La Chiesa lo sta facendo?
«Sì, le nostre missioni hanno questo scopo: individuare i bisogni materiali e immateriali delle persone e cercare di soddisfarli come possiamo. Lei sa cos’è l’“agape”?».
Sì, lo so.
«È l’amore per gli altri, come il nostro Signore l’ha predicato. Non è proselitismo, è amore. Amore per il prossimo, lievito che serve al bene comune».
Ama il prossimo come te stesso.
«Esattamente, è così».
Gesù nella sua predicazione disse che l’agape, l’amore per gli altri, è il solo modo di amare Dio. Mi corregga se sbaglio.
«Non sbaglia. Il Figlio di Dio si è incarnato per infondere nell’anima degli uomini il sentimento della fratellanza. Tutti fratelli e tutti figli di Dio. Abba, come lui chiamava il Padre. Io vi traccio la via, diceva. Seguite me e troverete il Padre e sarete tutti suoi figli e lui si compiacerà in voi. L’agape, l’amore di ciascuno di noi verso tutti gli altri, dai più vicini fino ai più lontani, è appunto il solo modo che Gesù ci ha indicato per trovare la via della salvezza e delle Beatitudini».
Tuttavia l’esortazione di Gesù, l’abbiamo ricordato prima, è che l’amore per il prossimo sia eguale a quello che abbiamo per noi stessi. Quindi quello che molti chiamano narcisismo è riconosciuto come valido, positivo, nella stessa misura dell’altro. Abbiamo discusso a lungo su questo aspetto.
«A me — diceva il Papa — la parola narcisismo non piace, indica un amore smodato verso se stessi e questo non va bene, può produrre danni gravi non solo all’anima di chi ne è affetto ma anche nel rapporto con gli altri, con la società in cui vive. Il vero guaio è che i più colpiti da questo che in realtà è una sorta di disturbo mentale sono persone che hanno molto potere. Spesso i Capi sono narcisi».
Anche molti Capi della Chiesa lo sono stati.
«Sa come la penso su questo punto? I Capi della Chiesa spesso sono stati narcisi, lusingati e malamente eccitati dai loro cortigiani. La corte è la lebbra del papato».
La lebbra del papato, ha detto esattamente così. Ma qual è la corte? Allude forse alla Curia? ho chiesto.
«No, in Curia ci sono talvolta dei cortigiani, ma la Curia nel suo complesso è un’altra cosa. È quella che negli eserciti si chiama l’intendenza, gestisce i servizi che servono alla Santa Sede. Però ha un difetto: è Vaticano-centrica. Vede e cura gli interessi del Vaticano, che sono ancora, in gran parte, interessi temporali. Questa visione Vaticano-centrica trascura il mondo che ci circonda. Non condivido questa visione e farò di tutto per cambiarla. La Chiesa è o deve tornare ad essere una comunità del popolo di Dio e i presbiteri, i parroci, i Vescovi con cura d’anime, sono al servizio del popolo di Dio. La Chiesa è questo, una parola non a caso diversa dalla Santa Sede che ha una sua funzione importante ma è al servizio della Chiesa. Io non avrei potuto avere la piena fede in Dio e nel suo Figlio se non mi fossi formato nella Chiesa e ho avuto la fortuna di trovarmi, in Argentina, in una comunità senza la quale non avrei preso coscienza di me e della mia fede».

 

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Lei ha sentito la sua vocazione fin da giovane?
«No, non giovanissimo. Avrei dovuto fare un altro mestiere secondo la mia famiglia, lavorare, guadagnare qualche soldo. Feci l’università. Ebbi anche una insegnante verso la quale concepii rispetto e amicizia, era una comunista fervente. Spesso mi leggeva e mi dava da leggere testi del Partito comunista. Così conobbi anche quella concezione molto materialistica. Ricordo che mi fece avere anche il comunicato dei comunisti americani in difesa dei Rosenberg che erano stati condannati a morte. La donna di cui le sto parlando fu poi arrestata, torturata e uccisa dal regime dittatoriale allora governante in Argentina».
Il comunismo la sedusse?
«Il suo materialismo non ebbe alcuna presa su di me. Ma conoscerlo attraverso una persona coraggiosa e onesta mi è stato utile, ho capito alcune cose, un aspetto del sociale, che poi ritrovai nella dottrina sociale della Chiesa».
La teologia della liberazione, che papa Wojtyla ha scomunicato, era abbastanza presente nell’America Latina.
«Sì, molti suoi esponenti erano argentini».
Lei pensa che sia stato giusto che il Papa li combattesse?
«Certamente davano un seguito politico alla loro teologia, ma molti di loro erano credenti e con un alto concetto di umanità ».
Santità, mi permette di dirle anch’io qualche cosa sulla mia formazione culturale? Sono stato educato da una madre molto cattolica. A 12 anni vinsi addirittura una gara di catechismo tra tutte le parrocchie di Roma ed ebbi un premio dal Vicariato. Mi comunicavo il primo venerdì di ogni mese, insomma praticavo la liturgia e credevo. Ma tutto cambiò quando entrai al liceo. Lessi, tra gli altri testi di filosofia che studiavamo, il “Discorso sul metodo” di Descartes e rimasi colpito dalla frase, ormai diventata un’icona, “Penso, dunque sono”. L’io divenne così la base dell’esistenza umana, la sede autonoma del pensiero.
«Descartes tuttavia non ha mai rinnegato la fede del Dio trascendente».
È vero, ma aveva posto il fondamento d’una visione del tutto diversa e a me accadde di incamminarmi in quel percorso che poi, corroborato da altre letture, mi ha portato a tutt’altra sponda.
«Lei però, da quanto ho capito, è un non credente ma non un anticlericale. Sono due cose molto diverse».
È vero, non sono anticlericale, ma lo divento quando incontro un clericale.
Lui sorride e mi dice: «Capita anche a me, quando ho di fronte un clericale divento anticlericale di botto. Il clericalismo non dovrebbe aver niente a che vedere con il cristianesimo. San Paolo che fu il primo a parlare ai Gentili, ai pagani, ai credenti in altre religioni, fu il primo ad insegnarcelo».
Posso chiederle, Santità, quali sono i santi che lei sente più vicini all’anima sua e sui quali si è formata la sua esperienza religiosa?
«San Paolo è quello che mise i cardini della nostra religione e del nostro credo. Non si può essere cristiani consapevoli senza San Paolo. Tradusse la predicazione di Cristo in una struttura dottrinaria che, sia pure con gli aggiornamenti di un’immensa quantità di pensatori, di teologi, di pastori d’anime, ha resistito e resiste dopo duemila anni. E poi Agostino, Benedetto e Tommaso e Ignazio. E naturalmente Francesco. Debbo spiegarle il perché?».
Francesco — mi sia consentito a questo punto di chiamare così il Papa perché è lui stesso a suggerirtelo per come parla, per come sorride, per le sue esclamazioni di sorpresa o di condivisione, mi guarda come per incoraggiarmi a porre anche le domande più scabrose e più imbarazzanti per chi guida la Chiesa. Sicché gli chiedo: di Paolo ha spiegato l’importanza e il ruolo che ha svolto, ma vorrei sapere quale tra quelli che ha nominato sente più vicino all’anima sua?
«Mi chiede una classifica, ma le classifiche si possono fare se si parla di sport o di cose analoghe. Potrei dirle il nome dei migliori calciatori dell’Argentina. Ma i santi...».
Si dice scherza coi fanti, conosce il proverbio?
«Appunto. Tuttavia non voglio evadere alla sua domanda perché lei non mi ha chiesto una classifica sull’importanza culturale e religiosa ma chi è più vicino alla mia anima. Allora le dico: Agostino e Francesco».
Non Ignazio, dal cui Ordine Lei proviene?
«Ignazio, per comprensibili ragioni, è quello che conosco più degli altri. Fondò il nostro Ordine. Le ricordo che da quell’Ordine proveniva anche Carlo Maria Martini, a me ed anche a lei molto caro. I gesuiti sono stati e tuttora sono il lievito — non il solo ma forse il più efficace — della cattolicità: cultura, insegnamento, testimonianza missionaria, fedeltà al Pontefice. Ma Ignazio che fondò la Compagnia, era anche un riformatore e un mistico. Soprattutto un mistico».

 

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E pensa che i mistici sono stati importanti per la Chiesa?
«Sono stati fondamentali. Una religione senza mistici è una filosofia».
Lei ha una vocazione mistica?
«A lei che cosa le sembra?».
A me sembra di no.
«Probabilmente ha ragione. Adoro i mistici; anche Francesco per molti aspetti della sua vita lo fu ma io non credo d’avere quella vocazione e poi bisogna intendersi sul significato profondo di quella parola. Il mistico riesce a spogliarsi del fare, dei fatti, degli obiettivi e perfino della pastoralità missionaria e s’innalza fino a raggiungere la comunione con le Beatitudini. Brevi momenti che però riempiono l’intera vita ».
A Lei è mai capitato?
«Raramente. Per esempio quando il Conclave mi elesse Papa. Prima dell’accettazione chiesi di potermi ritirare per qualche minuto nella stanza accanto a quella con il balcone sulla piazza. La mia testa era completamente vuota e una grande ansia mi aveva invaso. Per farla passare e rilassarmi chiusi gli occhi e scomparve ogni pensiero, anche quello di rifiutarmi ad accettare la carica come del resto la procedura liturgica consente. Chiusi gli occhi e non ebbi più alcuna ansia o emotività. Ad un certo punto una grande luce mi invase, durò un attimo ma a me sembrò lunghissimo. Poi la luce si dissipò io m’alzai di scatto e mi diressi nella stanza dove mi attendevano i cardinali e il tavolo su cui era l’atto di accettazione. Lo firmai, il cardinal Camerlengo lo controfirmò e poi sul balcone ci fu l’“Habemus Papam”».
Rimanemmo un po’ in silenzio, poi dissi: parlavamo dei santi che lei sente più vicini alla sua anima ed eravamo rimasti ad Agostino. Vuole dirmi perché lo sente molto vicino a sé?
«Anche il mio predecessore ha Agostino come punto di riferimento. Quel santo ha attraversato molte vicende nella sua vita ed ha cambiato più volte la sua posizione dottrinaria. Ha anche avuto parole molto dure nei confronti degli ebrei, che non ho mai condiviso. Ha scritto molti libri e quello che mi sembra più rivelatore della sua intimità intellettuale e spirituale sono le “Confessioni”, contengono anche alcune manifestazioni di misticismo ma non è affatto, come invece molti sostengono, il continuatore di Paolo. Anzi, vede la Chiesa e la fede in modo profondamente diverso da Paolo, forse anche perché erano passati quattro secoli tra l’uno e l’altro».
Qual è la differenza, Santità?
«Per me è in due aspetti, sostanziali. Agostino si sente impotente di fronte all’immensità di Dio e ai compiti ai quali un cristiano e un Vescovo dovrebbe adempiere. Eppure lui impotente non fu affatto, ma l’anima sua si sentiva sempre e comunque al di sotto di quanto avrebbe voluto e dovuto. E poi la grazia dispensata dal Signore come elemento fondante della fede. Della vita. Del senso della vita. Chi è non toccato dalla grazia può essere una persona senza macchia e senza paura come si dice, ma non sarà mai come una persona che la grazia ha toccato. Questa è l’intuizione di Agostino».
Lei si sente toccato dalla grazia?
«Questo non può saperlo nessuno. La grazia non fa parte della coscienza, è la quantità di luce che abbiamo nell’anima, non di sapienza né di ragione. Anche lei, a sua totale insaputa, potrebbe essere toccato dalla grazia».
Senza fede? Non credente?
«La grazia riguarda l’anima».
Io non credo all’anima.
«Non ci crede ma ce l’ha».
Santità, s’era detto che Lei non ha alcuna intenzione di convertirmi e credo che non ci riuscirebbe.
«Questo non si sa, ma comunque non ne ho alcuna intenzione ».
E Francesco?
«È grandissimo perché è tutto. Uomo che vuole fare, vuole costruire, fonda un Ordine e le sue regole, è itinerante e missionario, è poeta e profeta, è mistico, ha constatato su se stesso il male e ne è uscito, ama la natura, gli animali, il filo d’erba del prato e gli uccelli che volano in cielo, ma soprattutto ama le persone, i bambini, i vecchi, le donne. È l’esempio più luminoso di quell’agape di cui parlavamo prima».
Ha ragione Santità, la descrizione è perfetta. Ma perché nessuno dei suo predecessori ha mai scelto quel nome? E secondo me, dopo di Lei nessun altro lo sceglierà?
«Questo non lo sappiamo, non ipotechiamo il futuro. È vero, prima di me nessuno l’ha scelto. Qui affrontiamo il problema dei problemi. Vuole bere qualche cosa?».
Grazie, forse un bicchiere d’acqua.
Si alza, apre la porta e prega un collaboratore che è all’ingresso di portare due bicchieri d’acqua. Mi chiede se vorrei un caffè, rispondo di no. Arriva l’acqua. Alla fine della nostra conversazione il mio bicchiere sarà vuoto, ma il suo è rimasto pieno. Si schiarisce la gola e comincia.
«Francesco voleva un Ordine mendicante ed anche itinerante. Missionari in cerca di incontrare, ascoltare, dialogare, aiutare, diffondere fede e amore. Soprattutto amore. E vagheggiava una Chiesa povera che si prendesse cura degli altri, ricevesse aiuto materiale e lo utilizzasse per sostenere gli altri, con nessuna preoccupazione di se stessa. Sono passati 800 anni da allora e i tempi sono molto cambiati, ma l’ideale d’una Chiesa missionaria e povera rimane più che valida. Questa è comunque la Chiesa che hanno predicato Gesù e i suoi discepoli».
Voi cristiani adesso siete una minoranza. Perfino in Italia, che viene definita il giardino del Papa, i cattolici praticanti sarebbero secondo alcuni sondaggi tra l’8 e il 15 per cento. I cattolici che dicono di esserlo ma di fatto lo sono assai poco sono un 20 per cento. Nel mondo esiste un miliardo di cattolici e anche più e con le altre Chiese cristiane superate il miliardo e mezzo, ma il pianeta è popolato da 6-7 miliardi di persone. Siete certamente molti, specie in Africa e nell’America Latina, ma minoranze.
«Lo siamo sempre stati ma il tema di oggi non è questo. Personalmente penso che essere una minoranza sia addirittura una forza. Dobbiamo essere un lievito di vita e di amore e il lievito è una quantità infinitamente più piccola della massa di frutti, di fiori e di alberi che da quel lievito nascono. Mi pare d’aver già detto prima che il nostro obiettivo non è il proselitismo ma l’ascolto dei bisogni, dei desideri, delle delusioni, della disperazione, della speranza. Dobbiamo ridare speranza ai giovani, aiutare i vecchi, aprire verso il futuro, diffondere l’amore. Poveri tra i poveri. Dobbiamo includere gli esclusi e predicare la pace. Il Vaticano II, ispirato da papa Giovanni e da Paolo VI, decise di guardare al futuro con spirito moderno e di aprire alla cultura moderna. I padri conciliari sapevano che aprire alla cultura moderna significava ecumenismo religioso e dialogo con i non credenti. Dopo di allora fu fatto molto poco in quella direzione. Io ho l’umiltà e l’ambizione di volerlo fare».

 

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Anche perché — mi permetto di aggiungere — la società moderna in tutto il pianeta attraversa un momento di crisi profonda e non soltanto economica ma sociale e spirituale. Lei all’inizio di questo nostro incontro ha descritto una generazione schiacciata sul presente. Anche noi non credenti sentiamo questa sofferenza quasi antropologica. Per questo noi vogliamo dialogare con i credenti e con chi meglio li rappresenta.
«Io non so se sono il migliore che li rappresenta, ma la Provvidenza mi ha posto alla guida della Chiesa e della Diocesi di Pietro. Farò quanto sta in me per adempiere al mandato che mi è stato affidato».
Gesù, come Lei ha ricordato, ha detto: ama il tuo prossimo come te stesso. Le pare che questo sia avvenuto?
«Purtroppo no. L’egoismo è aumentato e l’amore verso gli altri diminuito».
Questo è dunque l’obiettivo che ci accomuna: almeno parificare l’intensità di questi due tipi d’amore. La sua Chiesa è pronta e attrezzata a svolgere questo compito?
«Lei cosa pensa?».
Penso che l’amore per il potere temporale sia ancora molto forte tra le mura vaticane e nella struttura istituzionale di tutta la Chiesa. Penso che l’Istituzione predomini sulla Chiesa povera e missionaria che lei vorrebbe.
«Le cose stanno infatti così e in questa materia non si fanno miracoli. Le ricordo che anche Francesco ai suoi tempi dovette a lungo negoziare con la gerarchia romana e con il Papa per far riconoscere le regole del suo Ordine. Alla fine ottenne l’approvazione ma con profondi cambiamenti e compromessi».
Lei dovrà seguire la stessa strada?
«Non sono certo Francesco d’Assisi e non ho la sua forza e la sua santità. Ma sono il Vescovo di Roma e il Papa della cattolicità. Ho deciso come prima cosa di nominare un gruppo di otto cardinali che siano il mio consiglio. Non cortigiani ma persone sagge e animate dai miei stessi sentimenti. Questo è l’inizio di quella Chiesa con un’organizzazione non soltanto verticistica ma anche orizzontale. Quando il cardinal Martini ne parlava mettendo l’accento sui Concili e sui Sinodi sapeva benissimo come fosse lunga e difficile la strada da percorrere in quella direzione. Con prudenza, ma fermezza e tenacia».
E la politica?
«Perché me lo chiede? Io ho già detto che la Chiesa non si occuperà di politica».
Però proprio qualche giorno fa ha rivolto un appello ai cattolici ad impegnarsi civilmente e politicamente.
«Non mi sono rivolto soltanto ai cattolici ma a tutti gli uomini di buona volontà. Ho detto che la politica è la prima delle attività civili ed ha un proprio campo d’azione che non è quello della religione. Le istituzioni politiche sono laiche per definizione e operano in sfere indipendenti. Questo l’hanno detto tutti i miei predecessori, almeno da molti anni in qua, sia pure con accenti diversi. Io credo che i cattolici impegnati nella politica hanno dentro di loro i valori della religione ma una loro matura coscienza e competenza per attuarli. La Chiesa non andrà mai oltre il compito di esprimere e diffondere i suoi valori, almeno fin quando io sarò qui».
Ma non è stata sempre così la Chiesa.
«Non è quasi mai stata così. Molto spesso la Chiesa come istituzione è stata dominata dal temporalismo e molti membri ed alti esponenti cattolici hanno ancora questo modo di sentire. Ma ora lasci a me di farle una domanda: lei, laico non credente in Dio, in che cosa crede? Lei è uno scrittore e un uomo di pensiero. Crederà dunque a qualcosa, avrà un valore dominante. Non mi risponda con parole come l’onestà, la ricerca, la visione del bene comune; tutti principi e valori importanti, ma non è questo che le chiedo. Le chiedo che cosa pensa dell’essenza del mondo, anzi dell’universo. Si domanderà certo, come tutti, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Se le pone anche un bambino queste domande. E lei?».
Le sono grato di questa domanda. La risposta è questa: io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti.
«E io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio. E credo in Gesù Cristo, sua incarnazione. Gesù è il mio maestro e il mio pastore, ma Dio, il Padre, Abbà, è la luce e il Creatore. Questo è il mio Essere. Le sembra che siamo molto distanti?»
Siamo distanti nei pensieri, ma simili come persone umane, animate inconsapevolmente dai nostri istinti che si trasformano in pulsioni, sentimenti, volontà, pensiero e ragione. In questo siamo simili.
«Ma quello che voi chiamate l’Essere vuole definire come lei lo pensa?».
L’Essere è un tessuto di energia. Energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità. Da quell’energia emergono le forme quando l’energia arriva al punto di esplodere. Le forme hanno le loro leggi, i loro campi magnetici, i loro elementi chimici, che si combinano casualmente, evolvono, infine si spengono ma la loro energia non si distrugge. L’uomo è probabilmente il solo animale dotato di pensiero, almeno in questo nostro pianeta e sistema so-lare. Ho detto è animato da istinti e desideri ma aggiungo che contiene anche dentro di sé una risonanza, un’eco, una vocazione di caos.
«Va bene. Non volevo che mi facesse un compendio della sua filosofia e mi ha detto quanto mi basta. Osservo dal canto mio che Dio è luce che illumina le tenebre anche se non le dissolve e una scintilla di quella luce divina è dentro ciascuno di noi. Nella lettera che le scrissi ricordo d’averle detto che anche la nostra specie finirà ma non finirà la luce di Dio che a quel punto invaderà tutte le anime e tutto sarà in tutti».

 

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Sì, lo ricordo bene, disse “tutta la luce sarà in tutte le anime” il che — se posso permettermi — dà più una figura di immanenza che di trascendenza.
«La trascendenza resta perché quella luce, tutta in tutti, trascende l’universo e le specie che in quella fase lo popolano. Ma torniamo al presente. Abbiamo fatto un passo avanti nel nostro dialogo. Abbiamo constatato che nella società e nel mondo in cui viviamo l’egoismo è aumentato assai più dell’amore per gli altri e gli uomini di buona volontà debbono operare, ciascuno con la propria forza e competenza, per far sì che l’amore verso gli altri aumenti fino ad eguagliare e possibilmente superare l’amore per se stessi».
Qui anche la politica è chiamata in causa.
«Sicuramente. Personalmente penso che il cosiddetto liberismo selvaggio non faccia che rendere i forti più forti, i deboli più deboli e gli esclusi più esclusi. Ci vuole grande libertà, nessuna discriminazione, non demagogia e molto amore. Ci vogliono regole di comportamento ed anche, se fosse necessario, interventi diretti dello Stato per correggere le disuguaglianze più intollerabili».
Santità, lei è certamente una persona di grande fede, toccato dalla grazia, animato dalla volontà di rilanciare una Chiesa pastorale, missionaria, rigenerata e non temporalistica. Ma da come parla e da quanto io capisco, Lei è e sarà un Papa rivoluzionario. Per metà gesuita, per metà uomo di Francesco, un connubio che forse non si era mai visto. E poi, le piacciono i “Promessi Sposi” di Manzoni, Holderlin, Leopardi e soprattutto Dostoevskij, il film “La strada” e “Prova d’orchestra” di Fellini, “Roma città aperta” di Rossellini ed anche i film di Aldo Fabrizi.
«Quelli mi piacciono perché li vedevo con i miei genitori quando ero bambino».
Ecco. Posso suggerirle di vedere due film usciti da poco? “Viva la libertà” e il film su Fellini di Ettore Scola. Sono certo che le piaceranno.
Sul potere gli dico: lo sa che a vent’anni ho fatto un mese e mezzo di esercizi spirituali dai gesuiti? C’erano i nazisti a Roma e io avevo disertato dalla leva militare. Eravamo punibili con la condanna a morte. I gesuiti ci ospitarono a condizione che facessimo gli esercizi spirituali per tutto il tempo in cui eravamo nascosti nella loro casa e così fu.
«Ma è impossibile resistere ad un mese e mezzo di esercizi spirituali» dice lui stupefatto e divertito. Gli racconterò il seguito la prossima volta. Ci abbracciamo. Saliamo la breve scala che ci divide dal portone. Prego il Papa di non accompagnarmi ma lui esclude con un gesto. «Parleremo anche del ruolo delle donne nella Chiesa. Le ricordo che la Chiesa è femminile».
E parleremo se Lei vuole anche di Pascal. Mi piacerebbe sapere
come la pensa su quella grande anima.
«Porti a tutti i suoi familiari la mia benedizione e chieda che preghino per me. Lei mi pensi, mi pensi spesso».
Ci stringiamo la mano e lui resta fermo con le due dita alzate in segno di benedizione. Io lo saluto dal finestrino. Questo è Papa Francesco. Se la Chiesa diventerà come lui la pensa e la vuole sarà cambiata un’epoca.

 

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16 settembre 2013 1 16 /09 /settembre /2013 16:57

 

E' una documentazione un po' lunga, ma vista l'importanza del passo compiuto da papa Francesco una persona  se la legge con calma. Mi sembra degno di attenzione l'articolo di Vito Mancuso sempre molto attento e acuto. Dopo l'articolo di Vito Mancuso un altro scritto di Scalfari.

Il Papa, i non credenti
e la risposta di Agostino

Gli articoli di Eugenio Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità sono stati una lezione di laicità. Un passo di Sant'Agostino aiuta a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio
di VITO MANCUSO

Qual è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: "La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa". Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un'apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti). Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di "discorso sul metodo" su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l'Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno.

Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre "notte in cui tutte le vacche sono nere", per citare l'espressione di Hegel che gli costò l'amicizia di Schelling, conduce cioè all'estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti. È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: "Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l'origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista".

"Scimmia pensante... bestia da cui proveniamo": queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una "bestia" e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell'evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l'evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia, Amore.

La differenza peculiare quindi non è tanto l'accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell'uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito "adottato" da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4). Peraltro il dialogo con l'ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l'umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l'unicità e la trascendenza di Dio.

Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall'accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come "comunità di fede": nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio. Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura dell'uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari "bestia".

Un passo di sant'Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: "Quid autem amo, cum te amo?", "Ma che cosa amo quando amo te?" (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quanto mai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall'esperienza dei sensi. Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell'amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico. Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell'amore per Dio è "la luce dell'uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo". Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell'uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall'alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell'ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l'origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo.

Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull'uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d'ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l'origine dell'uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva. Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano "sta nell'obbedire alla propria coscienza", un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti. Se non veniamo da un'origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell'assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell'invito a "fare un tratto di strada insieme" rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.

La verità, vi prego, sui confini dell'amore

di EUGENIO SCALFARI

TRA i tanti articoli che sono stati scritti sulla lettera a me diretta da papa Francesco ce n'è uno di Vito Mancuso pubblicato venerdì scorso sul nostro giornale ("Il Papa, i non credenti e la risposta di Agostino"). Lo cito perché pone un problema che merita d'esser approfondito: chi sono i non credenti, quelli che nel linguaggio corrente sono definiti atei?
Mancuso non è un ateo, anzi è un fine teologo credente, ma la sua è una fede molto particolare e la descrive così:
"Credo alla luce che è in me laddove splende nella mia anima ciò che non è costretto dallo spazio e risuona ciò che non è incalzato dal tempo. Quella luce ci permette di superare noi stessi e liberarci dall'oscurità dell'ego, da quella bestia che certamente fa parte della condizione umana ma non è né l'origine da cui veniamo né il fine verso cui andremo. La fede in Dio lega l'origine dell'uomo alla luce del Bene orientando l'uomo verso la solidarietà e la giustizia".
Insomma Mancuso crede nel Pensiero che porta verso il Bene. Quel Pensiero è Dio e ci ispira solidarietà e giustizia.
Trovo suggestivo questo suo modo di pensare e di sentire. La fede infatti è un sentimento che proviene dall'interno dell'uomo, dal suo "sé" ed erompe verso la mente dove hanno sede il pensiero e la ragione. Sono molte le persone che, rifiutando le Sacre Scritture, la dottrina della Chiesa e la sua liturgia, credono "in qualche cosa" che in parte sta dentro di noi e in parte ne sta fuori. Per metà sono credenti, per un'altra metà non lo sono.
La secolarizzazione della società moderna viaggia in gran parte su questa lunghezza d’onda. A me è capitato più volte di domandare ad amici ai quali mi legano simpatia, frequentazione, comunità di progetti e di lavoro: tu credi? Molto spesso la risposta è affermativa, ma se ancora domando: in che cosa? La risposta è appunto “in qualche cosa”. È un’ipotesi consolatoria, un aldilà incognito che comunque promette un proseguimento della vita “fuori dallo spazio e dal tempo” come scrive Mancuso, oppure è un abbozzo di pensiero che non viene approfondito perché i bisogni e gli interessi quotidiani, la concretezza dei fatti e degli incontri, incalzano e ingabbiano dentro lo spazio-tempo che non può essere facilmente accantonato?
La bestia pensante è esattamente questo: istinti animali che la mente riflessiva fa lievitare. L’essere sta, diceva Parmenide; l’essere diviene diceva Eraclito; l’essere è formato dagli elementi della natura, diceva Empedocle. Qualche tempo dopo arrivò Platone e la sua pianura della verità, i suoi archetipi, modelli trascendenti, punti di riferimento della bestia pensante.
Se bestia pensante non piace possiamo nobilitarla chiamandola “homo sapiens”, oppure darle un nome mitologico che la nobiliti ancora di più. Io lo chiamo Eros, non il paggetto alato che accompagna Venere-Afrodite e lancia le frecce per infiammare i cuori, ma una forza originaria del cosmo, signore di tutte le brame e di tutti i desideri. La nostra, prima ancora di essere una specie pensante, è una specie desiderante. Si obietterà che tutte le specie viventi desiderano ed è vero, ma i desideri dell’animale sono coatti e ripetitivi, quelli della nostra specie sono invece evolutivi e da un desiderio appagato ne nasce immediatamente un altro. Perciò noi siamo una specie desiderante perché desideriamo desiderare ed Eros è la forza della vita e ne misura l’intensità.
C’è una poesia di Auden che ad un certo punto invoca: «La verità, vi prego, sull’amore»; ma delle varie specie d’amore parlano anche, e molto, La Rochefoucauld, Pascal, Leopardi, Baudelaire, ciascuno a suo modo.
C’è primo tra i primi, l’amore per se stesso; La Rochefoucauld lo chiamò amor proprio, la mitologia lo chiamò Narciso, il giovane che rimirandosi nelle acque d’un lago si innamorò di se stesso. L’amore per se stesso è il fondamento della nostra vita perché noi viviamo con noi stessi 24 ore su 24. Se ci odiassimo saremmo vittime di un disturbo mentale che potrebbe arrivare al “tedium vitae” e persino al suicidio. Ma se il narcisismo oltrepassa la soglia fisiologica al punto di escludere ogni altra specie d’amore, allora diventa egolatria, auto-idolatria. È una patologia alquanto diffusa e molto pericolosa per la società.

Poi c’è l’amore per l’altro, la coppia di innamorati, anche questo con molte sottospecie, il rispecchiamento reciproco, l’attrazione sessuale per l’altro sesso oppure per lo stesso, l’amore platonico, l’amicizia amorosa, l’affinità elettiva.
Infine l’altra e grandiosa forma d’amore, quella per gli altri, visti come “prossimo”, cioè l’amore per la specie, la fratellanza dei sentimenti, la famiglia. Ricordate il detto evangelico “Ama il prossimo tuo come te stesso”?
Dunque Gesù non escludeva l’amore per sé, e come avrebbe potuto escluderlo visto che era un uomo, fosse o non fosse il figlio di Dio? Il miracolo che si proponeva di compiere era di parificare l’amore per il prossimo a quello verso se stesso, ma poi, quando pensò (o rivelò) d’essere figlio di Dio, allora l’asticella del miracolo diventò molto più alta: non voleva soltanto elevare l’amore verso di sé e quello per il prossimo allo stesso livello di intensità, ma pensò che dovesse abolire interamente l’amore proprio e concentrare sul prossimo tutto il sentimento amoroso di cui ciascuno dispone.
Gli è riuscito questo miracolo? Direi di no, anzi dopo due millenni dalla sua venuta l’amor proprio è diventato più intenso e quello verso gli altri è fortemente diminuito.
Se il mio dialogo con papa Francesco continuerà, come spero ardentemente che avvenga, questo credo che potrebbe essere il tema: far crescere l’amore per gli altri almeno allo stesso livello dell’amor proprio. Gesù di Nazareth fu martirizzato e crocifisso per aver voluto testimoniare la scomparsa dell’amore verso di sé. Volle cioè andare oltre la natura della bestia pensante che il Creatore aveva creato.
Il miracolo fallì, ma l’incitamento rimase e fu raccolto dai suoi discepoli, dai suoi apostoli, dai suoi fedeli ed anche dagli uomini di buona volontà. Siano essi credenti nell’Abba, nel Dio mosaico, in Allah, o in “qualcosa” o atei ma consapevoli.
Per questo continuo a pensare che il vero culmine del Cristianesimo non sia la resurrezione di Cristo, ma la crocifissione di Gesù, non la conferma dell’esistenza d’un aldilà ma l’esempio e l’incitamento all’amore del prossimo, alla giustizia e alla libertà responsabile nell’aldiquà.

 

Don Sciortino: Credenti e non credenti per il bene comune

La nuova evangelizzazione passa attraverso il dialogo e nel saper dire e testimoniare ai non credenti le ragioni della nostra fede.

di Don Antonio Sciortino

La lettera di papa Francesco a Eugenio Scalfari, in risposta alle domande che il fondatore di Repubblica gli aveva posto in due differenti editoriali a luglio e agosto sulle pagine del quotidiano, rilancia quell’apertura della Chiesa al mondo, che era stata la grande novità del concilio Vaticano II. Ma, al tempo stesso, rilancia anche l’interesse che il mondo mostra oggi nei confronti della Chiesa, grazie a papa Bergoglio.

Fin dall’inizio del suo pontificato, Francesco ha invitato la Chiesa a non chiudersi in sé stessa, nei propri recinti, ma a uscire verso le periferie geografiche ed esistenziali. “La malattia tipica della Chiesa”, ha detto in più occasioni, “è l’autoreferenzialità, il guardare a sé stessi, ripiegati su sé stessi”. Anche se questa apertura comporta qualche rischio, dice il Papa, “preferisco mille volte di più una Chiesa incidentata che ammalata di autoreferenzialità”.

Il dialogo a distanza tra papa Francesco ed Eugenio Scalfari, “doveroso e prezioso” sulla scia del Concilio, ricorda i  dialoghi con i non credenti che il cardinale Carlo Maria Martini – di cui abbiamo appena ricordato l’anniversario della sua morte -  avviò con la “Cattedra dei non credenti”. Per dialogare, scriveva Martini, “occorre avere simpatia per l’altro, avvicinarlo con fiducia. Un dialogo sulle cose importanti della vita è oggi necessario per la sopravvivenza e lo sviluppo delle culture, soprattutto in Europa”.

La cattedra dei non credenti fu un’esperienza “provocatoria” ma straordinaria, perché non si erano mai visti prima dei non credenti esporre le ragioni del loro non credere dal pulpito del Duomo di Milano. L’iniziativa ebbe una vastissima risonanza sui mass media, ma fu ripresa e riproposta anche in altre diocesi. L’intuizione, come ricordava Martini, stava tutta in una bella frase di Norberto Bobbio, che il cardinale fece sua: “La differenza rilevante per me non passa tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti; ovvero tra coloro che riflettono sui vari perché e gli indifferenti che non riflettono”. Alla fine, la “cattedra dei non credenti” fu un’avventura dello Spirito tra le più avvincenti della sua vita, come confidò Martini ai suoi più stretti collaboratori. Da novello Mosè, Martini vide la “terra promessa ma non poté entrarvi”. Oggi, il suo sogno di una Chiesa aperta al mondo, accogliente, vicina alla gente e ai poveri in particolare, disposta all’ascolto delle ragioni degli altri, si è attuata nel nuovo corso di papa Francesco, un gesuita come lui.

La nuova evangelizzazione passa attraverso il dialogo, e nel saper dire e testimoniare ai non credenti le ragioni della nostra fede. Solo così potrà infrangersi il muro dell’impermeabilità della società moderna all’annuncio del  Vangelo e permettere a credenti e non credenti di contribuire insieme nel dialogo al bene comune.

11 settembre 2013

Un Papa che sa dialogare con il mondo moderno

di

 

Annachiara Valle

 “Mi pare che il Papa apra un dialogo non solo con i non credenti, ma, in modo ancora più ampio, con il mondo moderno”. Don Roberto Repole, presidente dell’Associazione teologica italiana e docente di Teologia sistematica presso la sezione di Torino della Facoltà teologia dell’Italia settentrionale, commenta la lettera del Papa a Repubblica insistendo sul fatto che “occorre richiamare questo desiderio che il Papa mette nella Chiesa di essere in continuità con quanto fatto dal Concilio Vaticano II, cioè di dialogare con il mondo della modernità, un mondo nel quale c'è anche la possibilità di non essere credenti”

- Il Papa scrive che Dio perdona chi segue la propria coscienza. Ciò ognuno fa quel che gli pare?

Assolutamente no. Il Papa dice che ciò che è fondamentale - e in questo senso ribadisce una verità classica nel cristianesimo - non è il rispetto di alcune forme o di alcune regole che rimangono esterne a noi. Quello che è fondamentale - per dire della verità di noi stessi e di ciò che siamo - è il modo in cui seguiamo la coscienza. Nella consapevolezza che, per la visione cristiana, l'uomo è immagine di Dio e, dunque, la sua coscienza è il luogo del dialogo tra l'uomo e Dio. Poi ovviamente questo non esime ciascun uomo dal formarsi una coscienza e dalla rettitudine di coscienza.

 

- Nessun pericolo di relativismo, allora?

Il Papa dice semplicemente che ciò che è fondamentale è che ciascuno cerchi ciò che è bene. Gesù cristo è qualcuno che può essere seguito anche da chi non lo conosce, ma vive secondo la sua logica.

 

- E sulla questione della verità?

Mi sembra che il Papa ci dica che una verità assoluta - nel senso in cui lui etimologicamente la legge, e cioè sciolta da ogni legame - e il relativismo - cioè che ciascuno pensa di poter essere verità a se stesso - possono essere le due facce di una stessa medaglia perché in entrambi i casi non si ha coscienza di dover cercare un dialogo e di dover mettersi in relazione con gli altri. Quel che il Papa ci vuole dire è che nel cristianesimo la verità è Gesù Cristo che è la rivelazione e la comunicazione che Dio fa di se stesso all'uomo. Ma questo implica, evidentemente l'uomo stesso che è chiamato ad accogliere Cristo. E la fede non è altro che questo: il riconoscimento di Cristo come inviato dal Padre. Dunque la verità non è un oggetto, una cosa, nella visione cristiana della realtà, ma è la vita stessa di Dio dentro cui siamo chiamati ad entrare. Non solo, se andiamo a vedere la storia, la vicenda, la realtà di Gesù Cristo, che è la verità, ci viene detto che ciò coincide fondamentalmente con la comunione. Con la comunione dell'uomo con Dio e dell'uomo con gli altri.

 

- Ma, dunque, non esiste una verità oggettiva?

La verità non è qualcosa di oggettivistico, ma implica sempre che l'uomo si giochi nella verità. Dire che non è oggettivistico non significa, dunque, dire che sia realitivistico, ma che la verità è sempre trascendente.

 

- Il Papa parla di un tratto di cammino che si può fare insieme a chi non crede. Su quali strade?
Il tratto che si può fare è tutto ciò che ci fa camminare nella via della ricerca e dell'attualizzazione di ciò che è pienamente umano. Allora laddove noi cristiani vediamo che con i non credenti c'è la possibilità di fare delle cose insieme in favore della dignità degli uomini, a cominciare dai più piccoli, dai più poveri, dagli emarginati, è chiaro che non soltanto possiamo, ma dobbiamo fare un tratto di strada insieme. Questo mi sembra che abbia il suo fondamento nel fatto che noi cristiani crediamo che Gesù Cristo è la rivelazione del Salvatore di tutti non soltanto di noi cristiani.

 

- Un Papa che scrive a un giornale è di per sé originale. Cos’altro c’è di nuovo in queste parole?

Direi soprattutto il modo in cui esprime la coscienza che noi cristiani abbiamo della verità. Un modo che fa vedere in maniera ancora più esplicita che la verità non è un'idea nel cristianesimo, ma implica un coinvolgimento pieno da parte nostra. E, quindi, anche i cristiani che conoscono per rivelazione, per grazia, Gesù Cristo come la verità sono chiamati a camminare nella verità e dunque a cercarla fino in fondo.

11 settembre 2013

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15 settembre 2013 7 15 /09 /settembre /2013 08:34

 

Le otto domande di Eugenio Scalfari

Gesù, fede e ragione: i quesiti del fondatore ed ex direttore di Repubblica.

Papa: lettera a chi non crede

Le ha pubblicate in due differenti editoriali, il 7 luglio e il 7 agosto. Ecco le otto domande formulate dal fondatore ed ex direttore del quotidiano la Repubblica, Eugenio Scalfari.

1) La modernità illuminista ha messo in discussione il tema dell'"assoluto", a cominciare dalla verità. Esiste una sola verità o tante quante ciascuno individuo ne configura?

2) I Vangeli e la dottrina della Chiesa affermano che l'Unigenito di Dio si è fatto carne non certo indossando un abito e imitando le movenze degli uomini e restando Dio, bensì assumendone anche i dolori, le gioie e i desideri. Ciò significa che Gesù ha avuto tutte le tentazioni della carne e le ha vinte non in quanto Dio ma in quanto uomo che si era posto il fine di portare l'amore per gli altri allo stesso livello d'intensità dell'amore per sé. Di qui l'incitamento: ama il prossimo tuo come te stesso. Fino a che punto la predicazione di Gesù e della Chiesa fondata dai suoi discepoli ha realizzato questo obiettivo? 

3) Le altre religioni monoteiste, l'ebraica e l'Islam, prevedono un solo Dio, il mistero della Trinità gli è del tutto estraneo. Il cristianesimo è dunque un monoteismo alquanto particolare. Come si spiega per una religione che ha come radice il Dio biblico, che non ha alcun Figlio Unigenito e non può essere né nominato né tantomeno raffigurato, come del resto Allah?

4) Il Dio incarnato ha sempre affermato che il suo regno non era e non sarebbe mai stato di questo mondo. Di qui il "Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio". Papa Francesco rappresenta finalmente la prevalenza della Chiesa povera e pastorale su quella istituzionale e temporalistica? 

5)Dio promise ad Abramo e al popolo eletto di Israele prosperità e felicità, ma questa promessa non fu mai realizzata e culminò, dopo molti secoli di persecuzioni e discriminazioni, nell'orrore della Shoah. Il Dio di Abramo, che è anche quello dei cristiani, non ha dunque mantenuto la sua promessa?

6)  Se una persona non ha fede né la cerca ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?

7) Il credente crede nella verità rivelata, il non credente crede che non esista alcun "assoluto" ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?

8) Il Papa ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie finirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Ma quando la nostra specie sarà scomparsa anche il pensiero sarà scomparso e nessuno penserà più Dio. Quindi, a quel punto, Dio sarà morto insieme a tutti gli uomini?

11 settembre 2013

 

Il testo integrale della lettera di papa Francesco a Eugenio Scalfari

Riportiamo per intero la lettera indirizzata dal pontefice all'ex direttore di Repubblica.

Pregiatissimo Dottor Scalfari,
è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.

La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth".
Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.

Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio. La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità.

Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.

Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.

Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.

Così Gesù predica "come uno che ha autorità", guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell'Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: "Chi è costui che...?", e che riguarda l'identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un'autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l'incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.

Ed è proprio allora - come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco - che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l'uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch'egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l'ha rifiutato, ma per attestare che l'amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.

La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell'amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell'incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva "caro cardo salutis", la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l'incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell'amore e nella fedeltà all'Abbà, testimonia l'incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell'Enciclica.

Sempre nell'editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l'originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull'incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L'originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell'amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell'unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l'esclusione.

Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l'amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutto l'uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.

Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.

Vengo così alle tre domande che mi pone nell'articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l'atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.

In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all'inizio di questo mio dire.
Nell'ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell'uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio - questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! - non è un'idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell'uomo. Dio è realtà con la "R" maiuscola. Gesù ce lo rivela - e vive il rapporto con Lui - come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell'uomo sulla terra - e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno - , l'uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l'universo creato con lui. La Scrittura parla di "cieli nuovi e terra nuova" e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà "tutto in tutti". Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all'invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall'Abbà "a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19).

Con fraterna vicinanza
Francesco

11 settembre 2013

 

 

 

 

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