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25 marzo 2014 2 25 /03 /marzo /2014 14:16

La vita di Teresa - Castelvecchi ed. pp 374 € 22.

Di Marco Cicala - La Repubblica

Torna in libreria l'autobiografia di Teresa d'Ávila. Quasi un blog dello spirito che affascinò tanti autori del Novecento. Ma oggi, chi e dove sono i mistici? E perchè la Chiesa sembra essersene dimenticata. Di Marco Cicala Gli esordi di Teresa d'Ávila avvengono sotto la sindrome di Don Chisciotte, che pure sarebbe stato inventato oltre vent'anni dopo la sua morte. La prova? Sentite qua: nel 1523, la futura santa e il fratello Rodrigo si mettono in viaggio verso le terre dei Mori infedeli. Vogliono evangelizzarli. Cercare il martirio. Hanno 17 anni. Ma in due. Lei otto, lui uno di più. Perciò la scappatella dura un soffio: poco fuori Ávila, i baby predicatori vengono riacciuffati da uno zio e rispediti a casa. Verosimilmente a calci. La colpa dell'ispirata fuitina è tutta dei libri. Agiografie di santi e romanzi cavallereschi. Da ragazzina, Teresa non si limita a consumarli compulsiva: se ne lascia invasare. «Giunsi a tal punto d'infatuazione che se non avevo sottomano un nuovo libro non mi pareva quasi di vivere» confesserà nell'autobiografia che ora Castelvecchi ripubblica nella pimpante versione curata dal compianto Italo Alighiero Chiusano. Diceva Cioran : di lei mi affascina l’eccesso, quella follia inconfondibile, tipicamente spagnola Le avventure di Amadigi di Gaula, le gesta del prode Esplandiano ... La vocazione eroica di Teresa, la sua santa follìa, sgorgano da lì, dalla letteratura. Che, catapultandoti nelle latitudini dell'immaginario, è pure lei una forma di trascendenza. Sebbene, certo, ancora tutta donchisciottesca. Cioè profana. Difatti prestissimo Teresa la ricuserà come paradiso artificiale e istigatrice di vanità, passando a più devote letture. Fino a che persino quelle non le verranno impedite. Quando nel 1559, per stoppare le infiltrazioni riformiste, il maxi inquisitore Fernando de Valdés proibisce i libri in castigliano, lei se ne rammarica («alcuni li leggevo con molta edificazione») però si allinea. È giù di corda. Ma, vedendola privata dei libri, Cristo le appare dicendole: «Non ti abbattere, sarò io il tuo libro vivente». Insomma, al diavolo i testi. La preghiera, gli elevati rendez-vous col Salvatore bastano e avanzano. Diresti un'immane liberazione. Dalla cultura, dal sapere scritto, dalla lettura che - per quanto spirituale - resta passionaccia terrena. Finito tutto, basta. Vita Nova. Senonché, subito dopo aver raccontato quella visione, Teresa aggiunge: «il Signore, nella sua amorevolezza, mi istruì in tanti e tali modi, che da allora non ho più avuto che pochissimo o quasi nessun bisogno di libri». Ecco: nella modica quantità di quel pochissimo o quasi stanno compressi in sfumatura, in sublimine, in piega barocca o chiamatela come accidenti vi pare, tutti i chilotoni dell'agudeza, lo scaltro acume che sarebbe stato virtù geniale - insieme religiosa e politica - della Spagna aurea. Benché laureata Dottore della Chiesa - nel 1970 da Paolo VI - Teresa non fu una santa dotta. Ma, seppur pochissimo o quasi, sempre rimase agganciata all'orizzonte del libro. Nella sua Vida, continuamente vedi scoppiare esperienze di lettura totalizzanti, di quelle che agguantano, imprimono una svolta, rovesciano la bussola: l'epistolario di San Girolamo, i Moralia di san Gregorio, soprattutto le Confessioni di Agostino e il Terzo Abbecedario del mistico Francisco de Osuna. Testi che la bombardano di folgorazioni. Ma senza trasformarla in un'intellettuale. Intellettuali erano semmai i controllori, gli inquisitori, i confessori che sino alla fine vivisezionarono il suo fervore, i suoi dubbi carismi, per capire se estasi, rapimenti, transverberazioni, levitazioni e matrimoni spirituali fossero roba genuina o tumorame demoniaco. Epperò senza quei molossi dell'ortodossia oggi non leggeremmo nulla o quasi di Teresa d'Ávila. Perché furono loro che la spinsero a vuotare il sacco sulla pagina. Fosse stato per lei, non avrebbe scritto una riga. Aveva troppo da fare. Incontrarsi en tête-àtête con Gesù Cristo nell'orazione mentale. Fondare a raffica nuovi presidi carmelitani. Riportando all'ordine un Ordine ormai svaccato in mille affarucci mondani. Razionalizzazione, spending review sulle casse conventuali («L'aver rendita mi pareva causa di tanti inconventienti, inquietudini e persino dissipazione»), tagli al personale (non più di dodici suore più una priora per monastero) le attirarono accuse di protagonismo, scatenando polemiche e gossip tipici di ogni epoca in cui la Chiesa veda i propri assetti sferzati da ventate pauperizzanti. Bella donna robusta, di innata eleganza («le stava bene anche uno straccio»), Teresa, come per contrappasso, predicò l'austerity in una Spagna che di ristrettezze non voleva sentir parlare, vivendo il boom della ricchezza spremuta agli Eldorado del Nuevo Mundo. Teresa de Cepeda y Ahumada era nata il 28 marzo 1515 da famiglia possidente e, per parte di padre, un filo ebraica. Ma ventitré anni prima, i judíos erano stati cacciati, ridotti alla clandestinità o alla conversione coatta. A quelli rimasti non restava che identificarsi con l'aggressore. Accreditandosi come cristiani Doc fino all'eccesso di zelo, all'exploit, al sacrificio di sé. Perciò i fratelli di Teresa partirono nelle Indie per combattere, esportare la fede, guadagnarsi a sciabolate i galloni dell'hidalguía - talvolta fino a lasciarci le penne; mentre lei si fece suora, mistica vertiginosa, rivoluzionaria obbediente. E divenne santa subito. Appena 35 anni dopo morta. Un primato. Vivo sin vivir. Muero porque no muero. Teresa parlava della morte con cognizione da rediviva. Perché c'era passata. A 24 anni - causa denutrizione volontaria, sbocchi di bile, struggimenti vari - lei infatti muore. Le danno l'estrema unzione e stanno per seppellirla. Però il padre si oppone. Conoscendola, non si fida. E c'azzecca. Tempo qualche giorno, Teresa si ripiglia. Ma è uno scheletro inerte. Muove appena un dito. Ne verrà fuori strisciando carponi per mesi. È la stessa persona che più tardi vedremo tramutarsi in una specie di beatnik, di eroina on the road. Femmina inquieta y andariega, vagabonda, commentano sospettosi i superiori. Dalla Castiglia all'Andalusia, inaugura conventi del Carmelo - riformato in versione scalza - riattando stalle, rimesse, case diroccate. A piedi, a dorso di mulo, facendo l'autostop al passaggio dei carri contadini, arranca fra terre riarse, valichi sepolti sotto la neve, bivacchi all'addiaccio, taverne malavitose. Ha esuberanza da vendere, eppure si porta la morte dentro come una pallottola che le sia rimasta in corpo senza ucciderla. Controlla le lancette: «Mi rallegro molto sentendo battere l'orologio, perché penso che è passata un'altra ora di vita». E più vicino è l'anelato ricongiungimento familiare con l'Altissimo. Nell'autobiografia, cupio dissolvi e vitalismo fanno pacchetto unico in una scrittura torrenziale, travolgente, semplice e piana, per niente limata, tutta immagini e digressioni, «scapigliata», «quasi d'avanguardia» - notava Chiusano nell'introduzione. Sfidando la pacchianeria, definiresti il Libro de su vida un blog dell'anima. Se non fosse che - in stragrande maggioranza - quei pistolotti internettiani sono vetrinette narcististiche. Mentre per 350 pagine l'autoironica Teresa martella fino alla civetteria sul desconfiar de sí, il diffidare di se stessi. E sgretolando la spettacolarizzazione dell'Ego ne estrae un antidoto contro il demonio. Lui infatti «non inganna chi non si fida di sé». Predicò l’austerità nell’epoca della massima ricchezzA: l’oro che arrivava dalle colonie americano Emil Cioran, Raymond Carver, Gertrude Stein o la fidanzata di Virginia Woolf Vita Sackville West... nella modernità in tanti sono rimasti variamente stregati dagli scritti di Teresa. Che però ci attraggono come una lingua della quale abbiamo perduto la chiave d'accesso. Perché giocoforza siamo tutti rampolli d'una civiltà del desiderio. Invece quelle pagine sono dure, spesso impenetrabili, concrezioni di un'epica della volontà. Spinta fino all'annullamento della volontà. Prendi il leggendario passaggio della Vida in cui si ricorda l'incontro col mistico Pedro de Alcántara. Che, per non perdere la concentrazione, teneva gli occhi bassi e non guardava mai nessuno in faccia. Aveva imparato a dormire non più di un'ora e mezzo per notte con un trave per cuscino, in una cella così angusta da impedirgli di sdraiarsi. «Pareva fatto di radici d'albero ». Perché mangiava ogni tre/ otto giorni. Quando Teresa gli chiede come faccia, lui risponde: «Mica è difficile. Basta prenderci l'abitudine». Che le visioni teresiane (metti quella famosa, e immobilizzata nel marmo da Bernini, dell'angelo che la trafigge col dardo) non fossero che orgasmi isterici è di quelle psico-banalità che ormai potresti orecchiare persino in birreria durante l'happy hour. È vero però che gli scritti di Teresa, come le liriche dell'amico Giovanni della Croce, e più tardi il Quijote o il Don Juan di Tirso sono esplosioni di inventiva che eruttano a geyser dalla scorza di una società rigidamente formalizzata in codici. E che dunque fomentava a manetta la sublimazione. Senza la quale non c'è arte. Teresa d'Avila continua a vedere fino all'ultimo (e per i mistici le visioni non sono fughe ma squarci di un reale assoluto). Nell'ottobre 1582 ha 67 anni. Dissanguata da un cancro all'utero, è al capolinea. Chiede il Viatico. Sta per addormentarsi per sempre. Ma appena ricevuta l'ostia balza in ginocchio sul letto e come ringiovanita di botto invoca il Signore. Poi torna giù. Ad occhi chiusi, stringe il crocefisso sorridendo di letizia. Chiede che l'infermiera le si avvicini. Le posa la testa tra le braccia e, annodata a lei, spira. Stavolta davvero.

Perché chi medita guarda sempre più verso Oriente

PRIVILEGIANDO LA DIMENSIONE LITURGICA E SOCIALE, LA CHIESA NON INCORAGGIA LA RICERCA SPIRITUALE. QUELLA DI BUDDISMO E YOGA

Chi è il mistico? Solitamente si pensa a un visionario che vede, o crede di vedere, dimensioni della realtà che la coscienza comune non avverte e che vengono per lo più identificate con panorami celesti di madonne, angeli, santi e talora anche demoni, da cui giungono particolari informazioni o messaggi di solito chiamati rivelazioni che il mistico a sua volta fa conoscere ai comuni mortali. Si tratta dell’accezione popolare del termine e, come spesso accade quando si ha a che fare con concetti complessi, inesatta. Essa infatti presuppone trasmissione di notizie sotto forma di parole, mentre il termine mistica designa proprio il contrario, viene dal greco mú che significa chiudersi, detto di occhi e di labbra. La vera mistica fa chiudere gli occhi e genera buio, fa chiudere la bocca e genera silenzio. È l’insegnamento unanime dei grandi mistici, si pensi (per fare solo qualche nome) a Gregorio di Nissa e Dionigi Areopagita nei primi secoli cristiani, Eckhart e Taulero nel medioevo, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce in epoca moderna, Teresa di Calcutta e Raimon Panikkar ai nostri giorni… Il buio e il silenzio sono «la nube della non-conoscenza» (titolo di un testo mistico del Trecento inglese) dentro cui solo si può compiere la vera ricerca spirituale, la quale non è ricerca di un oggetto esteriore, come nella comune accezione di scienza, e non è neppure ricerca di sé, come nella comune accezione di psicologia, ma è ricerca sulla vera natura della realtà che è al di là della divisione soggetto-oggetto, come il mistico sperimenta nella sua interiorità. In questa prospettiva la mistica è trasgressione e superamento della coscienza comune, compresa quella religiosa tradizionale che vede la Madonna e i santi. Il mistico travalica i confini tra sé e gli altri, tra sé e la natura, tra sé e Dio, e giunge alla consapevolezza dell’unificazione, alla realizzazione dell’unità. Per questo il mistico è costitutivamente un trasgressivo e spesso e stato visto come un eretico dalle varie ortodossie, che hanno sempre guardato con sospetto ai mistici, talora imprigionati e uccisi. L’unificazione che si ottiene abbattendo le barriere tra soggetto e oggetto è una pericolosa eresia per ogni sistema dottrinale. E forse è anche per questo che nella Chiesa si insiste molto sulla dimensione liturgica, catechistica e sociale, ma quasi per nulla si incoraggia la solitudine dell’anima nella sua ricerca spirituale, la quale così trova alimento quasi solo nelle religioni orientali, in particolare nello yoga induista e nella meditazione buddhista. Nessun vero mistico dirà mai di se stesso «io sono un mistico», e chi si dichiara tale è da guardare con circospezione e sospetto perché è probabile che sia uno che si atteggia, genere di persone non infrequente nell’ambito della religione. Il mistico vive del nascondimento e del silenzio, nasconde anche a se stesso chi egli sia e cosa voglia essere, per il semplice motivo che non vuole essere nulla e non vuole ottenere nulla, se non appunto essere unito, raggiungere con tutte le cose quel sentimento di amicizia che sente sgorgare come una sorpresa dentro di lui. Per questo oggi uno si guarda in giro e si chiede: ma dove sono i mistici?, e può avere l’impressione che non ve ne siano più, ma siano legati solo al passato. Eppure essi ci sono, e sarà compito delle generazioni successive indicarli come tali nella misura in cui essi hanno scritto e lasciato testimonianze sulla propria ricerca. Altrimenti rimarranno sconosciuti, come la maggior parte dei mistici vissuti finora, molto più numerosi di quelli conosciuti per il semplice motivo che non hanno scritto nulla, e nulla è stato scritto su di loro. Io sono convinto però che l’umanità, nella misura in cui prende sul serio la domanda di amore puro e universale al fondo di ogni cuore, conoscerà sempre l’esperienza della mistica. Anche oggi, nelle nostre città e nelle nostre campagne, chissà quanti mistici sconosciuti: sono tutti coloro che avvertono dentro di sé un quieto sentimento di unione con la natura, con il mondo, con la vita, con gli animali, e con il principio di tutte queste cose detto tradizionalmente Dio. E avvertendo tutto ciò non si preoccupano di comunicarlo agli altri a parole per volerli convertire, ma semplicemente illuminano la terra con il loro permanente mezzo sorriso.

Vito Mancuso, venerdì di Repubblica

 

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