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27 luglio 2013 6 27 /07 /luglio /2013 15:59

"Queste parole le scrivo per lanciare un allarme. La riforma della legge sul voto di scambio così com’è stata approvata alla Camera dei deputati non sembra affatto utile a disarticolare i rapporti tra mafia e politica: anzi rischia di essere solo poco più di una messa in scena. Bisogna andar per gradi e capire i motivi di questo allarme. Nel 1992– sull’onda dell’indignazione per due stragi, quella di Capaci e via D’Amelio – venne introdotto nel codice penale l’articolo 416-ter che punisce chi ottiene la promessa di voti dalle associazioni mafiose in cambio di denaro. È la norma tuttora vigente in materia di scambio elettorale politico- mafioso, una norma che al suo interno conserva un gravissimo limite. Per essere punibile, infatti, il candidato che riceve la promessa di voti da parte dell’associazione mafiosa deve aver erogato in cambio del denaro, che è considerato il solo possibile oggetto di scambio. Ma questa è una situazione difficilmente riscontrabile; alle organizzazioni criminali non interessano i soldi dei politici, ma i soldi che i politici possono far guadagnare loro. La politica è soltanto un mezzo per velocizzare il profitto. Appalti, posti di lavoro, licenze, concessioni: è così che i clan guadagnano.

Le organizzazioni non si fanno pagare per ogni voto, sono lungimiranti: sanno che informazioni per una gara d’appalto possono essere molto più utili per far lavorare decine delle loro ditte per anni; un’agevolazione sul piano regolatore può trasformare terreni agricoli in migliaia di metri cubi di cemento; una firma su una licenza può far aprire ristoranti che altrimenti non esisterebbero. Favori, non soldi: è così che i clan organizzano il loro sviluppo. Da anni si attendeva che questa norma venisse resa davvero efficace, con le modifiche necessarie; per i governi di centrodestra e di centrosinistra, però, questo obiettivo non è mai stato una priorità.
Ora invece sembrava che fosse giunto il tempo di una reale riforma; la Camera dei deputati si è decisa a lavorarci ed ha approvato un testo con la quasi unanimità; esso è stato così riformulato: «Chiunque accetta consapevolmente il procacciamento di voti con le modalità previste dal terzo comma dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica a chi procaccia voti con le modalità indicate al primo comma». All’apparenza potrebbe sembrare che i problemi sono risolti; non è più solo l’erogazione di denaro punibile come possibile oggetto di scambio, ma anche “altre utilità”. Nella norma, però, si è cambiato anche molto altro; se prima bastava la mera promessa di voti da parte dell’organizzazione mafiosa perché il candidato fosse punibile, ora è necessario provare il procacciamento, cioè un’attività concreta di ricerca e raccolta voti per quel determinato candidato da parte dell’organizzazione criminale, utilizzando la sopraffazione tipica delle organizzazioni mafiose.
E questo punto della norma è quello che preoccupa di più. Le mafie sono avanguardia economica e hanno meccanismi d’operatività ben più complessi che la semplice intimidazione.
Il procacciamento di voti, del resto, è molto difficile da individuare, perché implica la necessità di cogliere il boss e i suoi affiliati mentre fanno “campagna elettorale” per il politico in questione, convincendo — con i loro mezzi tipici — i cittadini a vendere il loro voto. I loro mezzi tipici in campagna elettorale raramente sono violenti: sono piuttosto promesse di lavoro, di favori, appelli a rapporti familiari, insomma le dinamiche utilizzate anche dai partiti. La riforma della norma invece fa riferimento al “metodo mafioso” con cui procacciarsi voti.
I boss non fanno mai (tranne in rarissimi casi) campagna elettorale in prima persona, ed è quasi impossibile dimostrare che un elettore si è venduto il voto o ha votato sotto pressione. I clan sanno benissimo che dimostrare un voto comprato, condizionato, scambiato è impresa quasi impossibile per gli inquirenti, i quali invece, grazie alle intercettazioni e alle dichiarazioni dei pentiti, spesso riescono a provare che un patto è stato realmente stipulato tra boss e politico. E questo è il punto attorno a cui deve fondarsi una norma antimafia sullo scambio dei voti.
Ed è per questa ragione che la norma diventa solo un mero feticcio, un atto mediatico. O peggio. Viene infatti il dubbio che attraverso questa norma si possano mettere in forse alcuni importanti processi in corso sui rapporti mafia-politica; penso, ad esempio, al processo contro l’onorevole Cosentino. Se venisse approvata una riforma che regola in maniera complessiva il rapporto mafia politica, essa non rischierebbe forse di essere l’unico riferimento per sanzionare i comportamenti illeciti dei politici, anche quando sia stato contestato il concorso esterno in associazione mafiosa? Nell’inchiesta Cosentino, infatti, mentre è chiaramente raccontata la promessa- patto tra politica e camorra non v’è alcuna possibilità di dimostrare che il clan abbia effettivamente “procacciato” i voti. La riforma nasconde allora una trappola salva-Cosentino? In questi giorni sono in molti che sollevano dubbi su questa disposizione e questi dubbi meritano di essere rilanciati e presi in considerazione dalla politica. Il testo del nuovo articolo 416-ter deve essere ancora votato dal Senato. Siamo ancora in tempo, quindi, per migliorarlo com’è necessario. Il presidente Grasso ne auspica l’approvazione entro la pausa estiva. È un intento meritorio, ma deve sapere che questa riforma così com’è non realizza nessun reale obiettivo di contrasto. Tutt’altro. Rischia di essere un regalo ai clan magari fatto in maniera distratta, una riforma votata in alcuni casi perché non si conosce abbastanza il tema o per alcuni è stata votata senza leggerla. Il voto di scambio è un sistema criminale che uccide la democrazia al suo più importante livello, nel suo luogo più importante: e cioè nella libertà del seggio elettorale. Abbiamo aspettato 20 anni per una legge efficace. Facciamo in modo di non sprecare questa occasione. In questi giorni, in occasione del triste anniversario della strage di via D’Amelio, è stata ricordata sui giornali una frase di Paolo Borsellino: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”. Evitiamo che sia la legge ad aiutare a metterle d’accordo."" 

ROBERTO SAVIANO

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9 luglio 2013 2 09 /07 /luglio /2013 18:53

di Gad Lerner, da Repubblica, 8 luglio 2013

Marchionne contro tutti? Non si ricordano precedenti al rimbrotto indirizzato dal direttore dello stabilimento di Pomigliano contro un vescovo colpevole di solidarizzare con i lavoratori della sua diocesi, senza distinzione di etichetta sindacale. Indispettito da un pastore che aveva ricevuto anche i Cobas –perché no?- e si era permesso di raccomandare al gran capo della multinazionale di non badare solo al profitto, con zelo degno di miglior causa il dottor Figliuolo ha pensato bene di lanciargli un’accusa priva di senso: cioè di essersi messo dalla parte dei violenti. Per la verità monsignor Depalma era, sì, andato ai cancelli in un sabato di lavoro e di protesta, ma per raccomandarvi “più umanità da parte di tutti”, spiegando ai lavoratori che “non si vincolo le battaglie lanciando accuse gli uni contro gli altri”. Perché allora la dirigenza Fiat ha pensato di coglierlo in fallo, quasi che il monito rivolto a Marchionne (“non si badi solo al profitto”) fosse un atto di lesa maestà?

Temo che l’ennesimo infortunio di una comunicazione Fiat che sembra non contemplare altro che il pubblico assoggettamento ai suoi disegni aziendali, sia l’esito di un’ossessione a dividere il campo tra amici e nemici. Non più solo fra i sindacati, ma anche nelle istituzioni politiche, nella magistratura, nella Corte Costituzionale, e perfino nella Chiesa.

Ormai infranto lo storico luogo comune secondo cui gli interessi della Fiat coincidono sempre e comunque con gli interessi nazionali, Marchionne alimenta uno spirito di contrapposizione esacerbato. Fino a considerare intollerabile una lettera della presidente della Camera in cui si nega che l’economia possa trarre vantaggio dalla sistematica rinuncia dei lavoratori ai loro diritti.

Spiace che la Boldrini sia stata accusata di venir meno ai suoi doveri di equidistanza per aver ricordato questo principio elementare (con il di più, sgradevole ma tipico, di evocarne l’incompetenza). Ma argomenti strumentali della medesima natura erano già stati rivolti contro i magistrati che in due gradi di giudizio avevano imposto il reintegro di 19 iscritti alla Fiom oggetto di discriminazione illegale; peccato che di fatto la Fiat continui ad escluderli dalle linee di produzione della Panda. Tanto più ora che la Corte Costituzionale ha dato ragione alla Cgil, pretendendo il riconoscimento aziendale dei sindacati più rappresentativi.

Ci mancava solo la levata di scusi contro il vescovo Depalma, quasi che egli dovesse ignorare la realtà di quasi 2500 dipendenti di Pomigliano e Nola rimasti fuori dalla produzione con tutti i drammi che ciò comporta: il venir meno del reddito, la perdita di dignità, la discriminazione dei non allineati.

Da anni ormai la Fiat pretende deroghe ai contratti di lavoro senza peraltro fornire al governo e al Parlamento informazioni credibili sul futuro della sua presenza in Italia. Marchionne non perde occasione di magnificare gli investimenti che fanno di Pomigliano uno stabilimento automobilistico d’avanguardia nelle sue tecnologie. Come se fosse secondario il suo cronico sottoutilizzo. Come se la discriminazione, teorizzata ma illegale, di una quota significativa delle sue maestranze, non fosse questione da sanare al più presto.

Ho smesso di pensare che ci sia un calcolo razionale di disimpegno dietro a queste ricorrenti provocazioni. Certo, la Fiat ha già spostato fuori dall’Italia il suo baricentro produttivo. Ma è come se gli azionisti, incoraggiati dall’accanimento ideologico di Marchionne, volessero affermare una pretesa di restare protagonisti della vita pubblica nazionale imponendo il metodo delle loro forzature.

Vogliono fare i loro comodi, scaricare sugli altri i loro insuccessi, e nello stesso tempo continuare a presentarsi come dinastia industriale egemone nel paese. Se questo è il metodo, dubito che basteranno i 90 milioni investiti da John Elkann allo scopo di garantirsi il controllo del “Corriere della Sera”, con tanto di annuncio preventivo al Presidente della Repubblica, per garantirsi il pubblico consenso ormai irrimediabilmente dissipato.

 

Schiaffo Fiat al vescovo di Nola: no all'incontro sta con i violenti

Chi non rispetta le leggi (siccome è in colpa) accusa gli altri di essere violento. Quando il killer della mafia uccise il giudice Livatino disse : "muori cane" doveva trovare una misera giustificazione,  a parole, al suo omicidio.

La fiat si scaglia contro il vescovo di Nola, che aveva preso parte al sit in davanti alla fabbrica di Pomigliano : sta con i violenti. E rifiuta di andare ad un incontro organizzato dalla curia.Non avrebbe dovuto sostenere i protestatari a Pomigliano

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9 luglio 2013 2 09 /07 /luglio /2013 15:17

Nadia Urbinati  La repubblica

«Diceva Norberto Bobbio che rendere pubblico il potere implica togliergli il velo della segretezza: questa è una delle promesse più importanti della democrazia». La Repubblica, 7 luglio 2013

Si scoprì alla fine della Guerra fredda che la Stasi, il servizio segreto della Germania comunista, aveva un dossier su ogni cittadino e aveva fatto di ogni tedesco una spia. In una società dove la vita privata delle persone non conosceva segretezza lo Stato godeva della massima segretezza. Nascondimento è potere fuori da ogni controllo. Ci si chiese allora che senso avesse lo spionaggio quando tutti erano spiati. Ma un senso c’era perché se è vero che per essere efficace il controllo deve essere selettivo, è altresì vero che occorre raccogliere tutte le informazioni per poter selezionare quelle “utili”. È pertanto fatale che la schedatura dilaghi a macchia d’olio. All’opposto, non vi è più radicale nemico della segretezza di Stato di un governo fondato sul pubblico e i diritti civili.

Diceva Norberto Bobbio che rendere pubblico il potere implica togliergli il velo della segretezza: questa è una delle promesse più importanti della democrazia. Una promessa che sta insieme alla pace e alla libertà. Alla pace, perché il sistema di segretezza e di spionaggio presume nemici potenziali o effettivi, la preparazione dei conflitti, non della cooperazione. Alla libertà, perché un governo che cela ciò che fa e raccoglie informazioni in segreto non può garantire la protezione dei diritti. I realisti hanno sempre deriso i democratici di idealismo, eppure con la loro proverbiale giustificazione della politica come arte della dissimulazione e della segretezza essi non sanno distinguere tra governo libero e governo arbitrario. Idealisti e realisti si trovano oggi a misurarsi di fronte a quello che sembra essere il caso di spionaggio più pervasivo e totale dalla fine della Guerra fredda.

Non la Stasi ma l’intelligence americana, non la Germania comunista ma gli Stati Uniti sono oggi il problema. In questo caso, i realisti sono gli americani che hanno messo in atto una gigantesca operazione spionistica non solo verso potenziali ed effettivi nemici, ma anche verso amici e alleati militari, come gli Stati europei e la Ue. La ragione accampata è la protezione dal rischio di terrorismo. Evidentemente il governo americano non si fida degli “amici” europei se acconsente a far mettere cimici nelle loro ambasciate e “scheda” la loro corrispondenza elettronica. Che le agenzie di cui si avvale la Cia emulino la Stasi ha del paradossale anche perché la Casa Bianca ha fatto dei diritti umani un cavallo di battaglia per condannare governi autoritari e aiutare movimenti di resistenza e rivoluzionari.

Le rivelazioni di Edward Snowden, l’ex analista del National Security Agency (Nsa), hanno avuto un effetto dirompente per la legittimità internazionale di Barack Obama che da questa vicenda non ne uscirà bene (nonostante la sorprendente docilità dei leader europei). E con lui il Partito democratico, del quale si dice, con buone ragioni, che ora tace perché governa la Casa Bianca, eppure fece in passato un’opposizione durissima al repubblicano George W. Bush su questioni di violazione della privacy e di diritti civili per ragioni di difesa nazionale.

 

 Il paradosso di Obama è di essere forte nei sondaggi perché difensore dei diritti civili – nei giorni scorsi ha esultato per la decisione della Corte Suprema di interpretare il matrimonio come un’unione non eterosessuale – eppure pronto a violare il diritto alla privacy, un valore che per gli americani ha un significato fondamentale, orgogliosi fino a pochi anni fa di rifiutare di avere documenti di identità e ora schedati fin nella loro corrispondenza. Obama con una mano dà diritti, con l’altra li offusca.


I realisti dicono che tutti i governi devo avere servizi segreti, agenzie per la raccolta di dati ed eserciti pronti a intervenire anche in violazione dei diritti, se ciò è necessario alla difesa del Paese. Nulla di nuovo, dunque. Ma così non è quando di mezzo c’è un governo democratico e, soprattutto, una cultura che ha fatto della società aperta il punto di riferimento per l’espansione del libero mercato in tutti gli angoli del pianeta. Oggi veniamo a sapere che l’ideologia del libero mercato ha il sapore di una truffa perché le multinazionali riescono ad avvantaggiarsi delle informazioni carpite per le agenzie americane di intelligence, che insomma il libero mercato riposa su una condizione di privilegio dell’informazione e assomiglia a un governo arbitrario che si camuffa con la propaganda della libertà. L’intervista rilasciata da Snowden, ascoltabile nel sito di Repubblica.it, è inquietante: spiegando la ragione per la quale ha deciso di diventare un ricercato globale senza un luogo dove vivere in sicurezza, ha messo a nudo la doppiezza della politica del suo governo. E ha ricordato ai realisti che un governo che mette in piedi un sistema di spionaggio mondiale sostenendo che è per il bene del Paese è pericoloso perché toglie al pubblico la possibilità di giudicare sui metodi usati per la sicurezza.

Snowden ha legato insieme come perle di una collana le qualità che sorreggono la democrazia e i diritti e ha spiegato perché si devono controllare le agenzie governative che conservano le informazioni su milioni di persone semplicemente perché potrebbero essere utili al governo in futuro. Dietro il paravento del terrorismo si cela la formazione di un sistema pervasivo di raccolta di dati che un qualunque potentato potrebbe usare a proprio vantaggio. Ecco perché il pubblico deve sapere e togliere il velo della segretezza ai governi, quelli democratici in primi luogo.

 

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8 luglio 2013 1 08 /07 /luglio /2013 18:28

                                                                

 Canfora e Zagrbebelksky “ecco come il potere svuota la democrazia – Lo storico e il giurista discutono i mutamenti che stanno esautorando la politica e i possibili rimedi per restituire lo scettro ai cittadini

Gustavo Zagrbebelsky: Sul palcoscenico delle istituzioni si svolge una recita che distoglie l’attenzione del pubblico dalla realtà”

Nell’ultima pagina dell’Intervista sul potere,
a cura di Antonio Carioti, tu fai cenno al ritorno alla prevalenza delle oligarchie, dopo due secoli di lotte democratiche, come un problema molto grave del mondo in cui viviamo.
Mi piacerebbe partire da qui per questo nostro dialogo, di cui il tuo libro-intervista costituisce l’occasione. Anche a me sembra che questa sia la questione politica principale del nostro tempo. Qui c’è forse la chiave per comprendere l’incomprensibile, a iniziare dalla fine della politica e dal trionfo della tecnica, che nasconde alla vista il potere, le sue forme, i suoi attori. In un recente saggio apparso su 
Micromega,
ho definito l’oligarchia come il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento: sempre gli stessi che si riproducono per connivenze, clientele.

 

Le forme della democrazia vacillano, ma non sono travolte. La sostanza, però, sta andando perduta. Questo mi pare il tempo dell’ipocrisia democratica, addirittura su scala mondiale.
Questa valutazione non nega quella che Michels definì la “legge ferrea delle oligarchie”. Non si può non convenire che gruppi dirigenti 
esistono sempre e hanno un ruolo decisivo nei partiti così come negli Stati democratici di ogni tipo. Ma c’è una differenza tra 
élites
 aperte al ricambio e controllate da contropoteri forti come la magistratura indipendente e la libera stampa, e oligarchie chiuse.
Nell’intervista tu fai riferimento a un ritorno ai caratteri “primordiali” delle antiche oligarchie, fondate innanzitutto su ricchezza e discendenza aristocratica: in che modo si manifesta secondo te questo ritorno?


Luciano Canfora: Le decisioni sono prese da forze decisive che possono infischiarsene  dei riti elettorali”

Penso soprattutto a fenomeni macroscopici e istruttivi al tempo stesso. Facciamo un esempio. Il Presidente degli Stati Uniti viene eletto (e sia pure da una minoranza degli aventi diritto, dato l’assenteismo patologico dell’elettorato statunitense) ma le decisioni fondamentali le prendono altri: forze decisive e retrosceniche che possono in fondo infischiarsene dei riti elettorali. Ai fini dell’egemonia politico-militare è necessario un disinvolto e illegale spionaggio informatico? Il Presidente forse ne ignora persino l’esistenza, ma esso viene praticato, da chi ne ha il potere, senza scrupoli anche a costo di gravi crisi con i cosiddetti alleati europei non meno che con gli antagonisti russi o cinesi. Il Presidente predica contro il fiorente e libero commercio delle armi, i cui effetti sono atroci? Ma la potentissima lobby dei produttori di armi paralizza ogni decisione in proposito. Questa è la sostanza della macrorealtà americana, questo è, via via, il modello che si afferma per ogni dove.


 

Michels aveva intuito una “legge” ma la realtà da lui studiata era 
piccola cosa rispetto a quella inquietante e brutale che è sotto i nostri occhi. L’analisi di Michels e dei suoi maestri elitisti si riferiva a formazioni politiche ottocentesche o protonovecentesche come i partiti politici o più in generale la classe politica. Il problema è che essa è stata soppiantata nel suo ruolo, pur restando al suo posto, da forze di ben altra dinamicità, consistenza e potenza, totalmente sottratte al “gioco” elettorale o alla “verifica”
popolare.

 

Sono queste le nuove oligarchie. L’imperativo del momento è riuscire a squadernarne la natura e la dominanza: prima di tentare di combatterle. Ci vorrebbe un nuovo Marx, capace di studiare il potere economico-finanziario del tempo presente e del prossimo venturo!
 Purtroppo per ora ci dobbiamo accontentare dei talmudisti (invero sempre meno numerosi), protesi alla chiosa del Marx “antico”, laddove la realtà che ci sta di fronte e ci sovrasta domanda ormai di essere “disvelata” sin dalla radice. E senza la compiacente e reticente benevolenza dei “tecnici”, competenti certo, e però complici dei nuovi poteri che reggono le fila degli organismi decisivi.


 

Platone aveva sognato, nei libri centrali della
Repubblica,
che al vertice dello “Stato ideale” giungessero dei “filosofi-reggitori”, assurti con ascetica dedizione alla comprensione e contemplazione del sommo bene e del giusto e perciò legittimati a governare tutti gli altri. Al posto dei filosofi-reggitori, il nostro onnipotente, ricco e armatissimo «primo mondo» ha collocato i grandi conoscitori protagonisti della finanza. Essi sanno quello che vogliono, ma è
 da temere che non vogliano né il sommo bene né la giustizia.
Dunque la domanda da porsi, per intanto (poiché non è possibile attendere inerti e passivamente l’avvento del nuovo “grande analista” della modernità) è la seguente: 
in una situazione di questo genere quale possibilità vi è di riappropriarsi, come cittadini comuni, del potere di poter contare?


Gustavo Zagrebelsky

Parli di “forze retrosceniche”. Sono sempre esistite. Che la politica “sulla scena” delle istituzioni sia una messinscena per distogliere gli occhi del pubblico dalla realtà del potere (che “sta nel nucleo più profondo del segreto”, ha scritto Elias Canetti) è un’idea realistica. Un tempo, il retroscena era visto come il luogo dell’oscurità, degli intrighi, dei complotti, delle cose indicibili: tutte cose negative,
da combattere in pubblico, attraverso istituzioni veritiere. Pensiamo, per esempio, alla 'glasnost’ di Gorbacëv che, per un certo periodo, ha coltivato quest’idea. Oggi? Oggi siamo di fronte a qualcosa di nuovo. Le conseguenze sulla vita delle persone sono evidentissime, la matrice anche: il predominio dell’economia sregolata e manovrata dalla finanza speculativa. Ma è una matrice incorporea che, per ora, sembra inafferrabile, non stanabile “sollevando un velo”.

 

Constatiamo il declino della politica, fino alla pantomima dei suoi riti: personaggi inconsistenti, che talora si presentano come “tecnici”, rivelandosi così esecutori di volontà altrui; “posti” come posta d’una lotta che, usurpando la parola, continua a chiamarsi politica; nessun progetto dotato d’autonomia; parole d’ordine 
tanto astratte quanto imperiose: lo chiedono “i mercati”, la “Europa”, lo “sviluppo”, la “concorrenza”. Questo degrado, che si manifesta macroscopicamente come immobilismo e consociativismo, è la conseguenza di quello che è oggi il vero “nucleo del potere”. Per poter essere contrastato con i mezzi della democrazia, deve essere innanzitutto compreso, senza fermarsi solo a deplorarne le conseguenze, scambiandole con le cause.
Tu poni la domanda cruciale: che fare affinché ci si possa riappropriare di almeno un poco dell’espropriata nostra capacità politica?

 

Noi apparteniamo alla cerchia di chi esercita una professione intellettuale. Il nostro compito primario (non voglio dire esclusivo) è cercare di capire, non di cambiare il mondo. Sarà pur vero, come tu dici, che non sono alle viste nuovi Marx o Tocqueville. Ma il nostro compito, nel piccolissimo che è alla nostra portata, è di questa natura. Il che significa innanzitutto rifiutare il ruolo di consulenti che con tanta abbondanza questo sistema di sterilizzazione della politica offre a chi ci sta. Sarebbe
 già una bella rivoluzione.

 

Intervento di Zagrbelsky su felicità e democrazia

http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788842099765

 

I libri di cui si parla sono:

- Luciano Canfora: intervista sul potere a cura di A. Carioti. Ed Laterza € 9,50

- Ezio Mauro, Gustavo Zagbelbresky: la felicità della democrazia. Ed. Laterza € 12

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4 luglio 2013 4 04 /07 /luglio /2013 15:53

 

Pubblichiamo un brano dell’intervento intitolato “In Medias Res” che lo scrittore leggerà  al Festival di Massenzio a Roma

di ROBERTO SAVIANO.

IL CASO Edward Snowden dimostra che le democrazie sono cambiate per sempre. La rete ha modificato il lavoro di intelligence che sino ad ora aveva caratterizzato i servizi segreti del pianeta. Ha sottratto le informazioni dalla disponibilità di pochi e le ha messe potenzialmente nella disponibilità di tutti. La rete ha posto fine a una prassi secondo cui le potenze raccoglievano e gestivano informazioni che, nel silenzio, servivano a mantenere equilibri di potere.
Nel 1956 il Mossad riesce a individuare una copia del rapporto di Kruscev sui crimini di Stalin. Un documento che avrebbe cambiato per sempre il mondo, ma che non fu, allora, reso pubblico. La forza dell’intelligence era la segretezza: i vertici sapevano? Ma la gran parte delle persone no.
La forza di un’informazione risiedeva proprio nel fatto che fosse privata: chi la possedeva era un privilegiato. Oggi le cose sono  completamente diverse. Oggi c’è il web, innanzitutto, che tende a diffondere rapidamente notizia o pseudo-notizia: il web è un mare magnum dove si può trovare chiunque e qualsiasi cosa. È difficilissimo, talvolta praticamente impossibile, discernere il vero dal falso: teorici del complotto che si esercitano su ogni episodio, video che sembrano autentici si rivelano fake, blogger dediti all’arte della denigrazione. Nemmeno il metro della quantità è un criterio utile: migliaia di «mi piace» su Facebook o centinaia di retweet non sono garanzia né di veridicità né prova di un reale interesse. Si concede un apprezzamento massificato a idiozie, si diffondono notizie prive di sostanza o, peggio, false.
Ma allo stesso tempo verità importanti che un tempo restavano segrete, o confinate in nicchie che nessuno scopriva, con la rete giungono immediatamente a tutti. Ad esempio: un filmato ripreso con un telefonino sulle violenze della polizia non potrà mai più essere nascosto. In una situazione del genere, i giornali, i media classici, si trovano davanti al compito difficilissimo di fungere da setacci volti a filtrare solo le notizie a prova di verifiche. I siti dei quotidiani oggi hanno questo ruolo cruciale: costruire autorevolezza. Eppure tale ruolo è minato nella sua credibilità dagli evidenti condizionamenti politici e ancor più economici che gravano sugli assetti e bilanci di molti dei media tradizionali: fragilità economica innescata proprio dalla trasmigrazione in rete della fruizione di notizie.
In questo smottamento generale del sistema dell’informazione, si giunge allo snodo Edward Snowden. La sua vicenda richiama quella di Julian Assange, anche se i metodi per far saltare i dispositivi di segretezza sono molto diversi. Ma Assange prima e Snowden poi, da soli, riescono a mettere in crisi sistemi complessi per un motivo semplice: si fanno network. In passato possessori di informazioni potevano essere eliminati facilmente, oggi nessun Michelotto Corella, il boia mandato da Cesare Borgia a eliminare i nemici che sapevano troppo, potrebbe cancellare o bloccare i file che vengono prodotti.
Julian Assange comprende che basta un unico tassello che porti informazioni fuori dalla struttura perché l’intera struttura crolli. Quel che rende forte un’azienda o uno Stato è che ciò che accade al suo interno rimanga conosciuto soltanto a pochi o che venga decodificato, tradotto, prima di essere diffuso. Invece Assange prima e ora Snowden hanno fatto in modo che quelle informazioni raggiungessero il web senza filtro, mediazione, spiegazioni. Wikileaks non fa altro che creare una piattaforma digitale dove possono essere riversate informazioni: Assange garantisce che siano autentiche ma non può esser certo che non siano state manipolate o diffuse con fini manipolatori. Sarà la rete a decodificarlo.
È evidente che questo offre il fianco a molte contraddizioni. La rete è aperta a tutti, anche a chi fa circolare menzogne. (Del resto, Assange questo meccanismo lo conosce bene, l’ha sperimentato sulla propria pelle: esistono blog e troll che costantemente lavorano sul web per delegittimarlo). Nonostante questo rischio le rivelazioni di Wikileaks hanno fatto tremare il potere perché hanno fornito delle prove. Questo è il vero centro della riflessione. Proprio qui è la differenza tra il mondo liberale e i tribunali rivoluzionari di qualsiasi stampo. Le controinchieste in stile brigatista che ancora oggi si possono trovare in rete sui siti di estremisti di ogni colore, si basano su generiche condanne del «sistema» dalle quali veniva dedotta la colpevolezza dei suoi esponenti. Non serve avere prove: banche, politici, americani, imprenditori, attori, tutti sono colpevoli e criminali nella loro essenza di capitalisti, o occidentali, dipende dal punto di vista. È l’ideologia a emettere la sentenza. Assange invece raccoglie documenti, Snowden diffonde fatti di cui è a conoscenza. In qualche misura sono dentro la democrazia non sono, come vogliono dimostrare i loro detrattori, contro la democrazia. Non hanno il profilo del gruppo rivoluzionario o terrorista che costruisce teoremi. Hanno prove, fanno venire alla luce comportamenti scorretti, alleanze trasversali, patti segreti, spionaggi inconfessabili.
Oggi la grande sfida sta nel rivolgersi alla democrazia, all’approfondimento puntuale dei meccanismi di controllo del suo funzionamento. Le informazioni divulgate da Assange e Snowden sono decisive: forse non sono cruciali, forse non cambiano davvero la nostra conoscenza di quel che accade nel mondo, forse confermano sospetti che avevamo già. Ad esempio: potevamo immaginare che i servizi segreti spiassero non solo milioni di cittadini ma anche le diplomazie dei paesi alleati: ma c’è una differenza sostanziale tra avere un sospetto e avere una prova di questo.
Ma c’è un’altra faccia della medaglia: se la segretezza sta diventando impossibile anche la privacy, elemento sacro per mantenere la propria dignità, rischia di essere per sempre violata. Si può calpestare la privacy dei cattivi affari? Si deve far saltare la segretezza degli affari criminali, per esempio. Ma non quella personale, il dettaglio privato, qualunque dettaglio riferito a qualsiasi persona ne mini la reputazione o la renda anche solo ridicola. I grandi media iniziano a porsi dei limiti e a decidere cosa pubblicare e cosa no: verificano e decidono non solo cosa è vero e cosa è falso ma anche cosa è importante e cosa no per l’opinione pubblica. Il resto è affidato all’autarchia e all’anarchia della rete: cioè alla responsabilità dei singoli che premono il tasto invia e stabiliscono cosa va on line. Quale mondo sta venendo fuori? Un mondo in cui è impossibile difendersi. Ma soprattutto un mondo dove sta diventando sempre più difficile difendere l’informazione e valutarne l’attendibilità.
Forse è presto, ma prima o poi, bisognerà porre il problema delle regole nel vasto mare del web. Il mondo è cambiato, la fine della segretezza è un fatto: ma non è in sé garanzia né di democrazia né di miglioramento dello stato di cose presenti.

http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gifCi sono molte domande a cui prima bisogna rispondere: come decodificare il vero dal falso? Come evitare che questa distruzione di privacy calpesti i diritti individuali facendo sentire tutti potenzialmente estorti e deboli? Come permettere che le informazioni modifichino davvero i meccanismi del potere? Come evitare che lo stesso potere avveleni i pozzi del web, manipolando, indirizzando, diffondendo informazioni a suo piacimento? Il mondo con Snowden è cambiato per sempre.

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