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1 marzo 2016 2 01 /03 /marzo /2016 10:46

Qual è il senso della vita ben oltre la malattia

Vito Mancuso – La Repubblica

Una tavoletta cuneiforme dell’antica Babilonia racconta di un padre che ricevendo tra le braccia il figlio per dargli il nome, dopo averne osservato il corpo lo chiama Mînaarni, cioè: «Qual è il mio peccato?». L’aspetto di quel neonato è facilmente immaginabile. Oggi qui non parliamo di malattie comuni, del fatto cioè che se prendo freddo mi viene il raffreddore. A tema qui oggi vi sono le malattie rare, ovvero quelle disposizioni illogiche della natura da cui provengono malattie spesso inguaribili senza nessuna motivazione nel comportamento precedente. Sto parlando in particolare delle malattie genetiche, che rappresentano l’80% delle malattie rare e che sorgono nel periodo che va dal concepimento alla nascita. Quello che le malattie genetiche portano alla luce è la falsità delle visioni tradizionali e l’indicazione della prospettiva evolutiva quale unica sostenibile rappresentazione della vita. Esse ci liberano definitivamente dalla metafisica e dal corrispondente teismo, e insieme, se attentamente considerate, ci salvano dal nichilismo e dalla disperazione.

Questa è la tesi che intendo sostenere e che ora argomento mostrando dapprima le idee che vengono abbattute dalla riflessione sulle malattie rare e poi il messaggio da loro trasmesso. Ho ricordato quel padre di 4000 anni fa per sottolineare come da sempre la mente abbia cercato di indagare il motivo del comportamento illogico della natura che da madre generosa si trasforma in crudele matrigna. «Perché nascono così?»: è questa la domanda cui le religioni e le filosofie hanno cercato di rispondere. Le risposte si possono ricondurre a quattro: perché Dio castiga; perché Dio intende rivelare qualcosa; perché esiste una libertà della natura (di cui però Dio si serve per il suo piano); perché Dio non esiste e la vita è affidata al cieco caso.

La prima prospettiva è stata la più diffusa nel passato e penso lo sia ancora oggi, se non in Occidente, di certo a livello mondiale. Secondo essa Dio governa ogni cosa con onnipotenza, quindi non può accadere nulla contro il suo volere. Dio inoltre governa con giustizia, quindi da lui non può arrivare nulla di ingiusto. Ne viene che se c’è una malattia, prima c’è stata una colpa: la colpa è la causa, la malattia l’effetto. Dall’antica Roma fino alla prima metà del Novecento (e qui siamo alla seconda risposta) i malati più visibilmente colpiti a livello genetico venivano chiamati mostri. Cicerone spiega perché: «Sono chiamati mostri poiché mostrano». La natura segue un corso regolare, ma talora gli uccelli volano in modo diverso, la terra trema, il cielo si oscura o vi appaiono oggetti più luminosi del solito. La nascita di corpi anomali rientra in questi segnali particolari. Mentre le prime due risposte riconducono le malattie direttamente a Dio, la terza le riconduce a una causa diversa (la natura, gli uomini, il diavolo), aggiungendo però che Dio, che di per sé potrebbe impedirle, le permette per trarre da esse un bene maggiore. È quanto insegna il Catechismo attuale della Chiesa cattolica citando san Tommaso d’Aquino:«Dio permette che ci siano i mali per trarre da essi un bene più grande».

Qual è questo bene più grande? Le varie risposte sono riassumibili in una sola: la salvezza. Queste malattie, che Dio di per sé non vuole ma che sapientemente utilizza, rappresentano così una specie di pedagogia del dolore innocente (per riprendere il titolo di un libro di don Carlo Gnocchi del 1953). L’insostenibilità logica ed etica delle risposte tradizionali ha finito per generare la ribellione di molti, portando a porre il caso e talora persino l’assurdo quale sigla complessiva del tutto. In questa prospettiva la presenza del male in natura risulta così priva di giustificazioni plausibili da condurre al nichilismo, cioè alla considerazione della vita nel suo insieme come priva di ragione e di speranza. Nell’uomo cioè si può anche dare un desiderio di bene e di giustizia, ma non c’è nessun principio o senso complessivo cui legarlo, perché il male e la morte comunque vincono manifestando il nulla da cui veniamo e verso cui andiamo. Chi fa sua questa visione del mondo o vive nell’angoscia permanente o cerca di non pensare in alcun modo al negativo rifugiandosi in evasioni e consolazioni di ogni tipo. 

Le malattie genetiche manifestano nel modo più chiaro l’aporia del pensiero occidentale, sia credente sia no, per lo più incapace di integrare il dolore in una sostenibile visione del mondo che dia conto di tutti gli aspetti della vita, di quelli sensati e di quelli insensati, di quelli logici e di quelli assurdi. Le malattie genetiche infatti hanno a che fare con il senso della vita di ognuno, secondo il principio formulato da pensatori di forte spessore quali Kierkegaard, Florenskij, Wittgenstein. Alla verità ci si avvicina solo pensando l’intero, cioè regola + eccezioni. Non è vero che le eccezioni confermano la regola, né è vero che distruggono ogni regola. È vero piuttosto che la regola è data da tutto ciò che avviene: casi normali + eccezioni, fisiologia + patologia. Il che significa che la regola si muove, diviene, evolve. Per questo l’unica prospettiva in grado di offrire qualche raggio di luce è la visione evolutiva del mondo. 

Perché ci sono le malattie? Perché la vita è un processo che scaturisce dal basso, un delicato equilibrio tra sistemi fisici, chimici, biologici. Nessuna delle parti che compongono un essere vivente è vivente: non lo sono gli atomi, né le molecole, né le macromolecole delle proteine, degli zuccheri, dei lipidi, degli acidi nucleici. Però dall’aggregazione delle componenti fondamentali la vita emerge. I credenti vedranno questa scaturigine come frutto di una natura orientata verso la vita e l’intelligenza, secondo la modalità più adeguata di intendere la creazione che la pensa come creatio continua. I non credenti giudicheranno in altro modo: chi rimandando a una fortunata combinazione, chi ipotizzando una pluralità di universi all’interno della quale era quasi normale che nel nostro si sviluppasse la vita, chi altro ancora. In ogni caso per chiunque voglia prendere atto della conoscenza contemporanea, non è possibile prescindere dalla prospettiva evolutiva e processuale. 

È in questa prospettiva che vanno comprese le malattie. Esse ci dicono che l’uomo è natura, fragile natura come ogni altra parte del cosmo, esposto alle ferite del caso. Esse però ci dicono anche altro: che l’uomo è più della semplice natura, è volontà di guarire, e, se non è possibile, comunque di curare. L’umanità sa prendersi cura e in questo si dà la luce più intensa che da essa possa scaturire. In conclusione che dire a chi si trova a convivere con una malattia rara, o in prima persona o sulla carne dei propri cari? Alcuni interpretano questa situazione come un castigo e una penitenza. Altri come un privilegio, perché la pensano come l’occasione di una rivelazione divina o di una ravvicinata partecipazione alla passione redentrice di Cristo. Altri l’interpretano come una disgrazia assoluta, la più abissale delle ingiustizie, una nera tragedia senza speranza. Io penso che la prospettiva più saggia consista nel viverla in unione con la costruzione del mondo, pensando la natura come un immenso laboratorio e ogni esistenza come un esperimento, e sapendo che perché un esperimento possa riuscire, altri sono destinati a fallire. Ma è solo grazie a questi fallimenti, che quel successo è possibile. Di fronte a questa situazione gli esseri umani sanno reagire, creando senso laddove il senso naturale ha fallito. Curano anche laddove la guarigione risulta impossibile e producono solidarietà e gratuità. Superano così la prospettiva che guarda alla vita solo all’insegna dell’utilitarismo e dell’edonismo. Siamo al cospetto del bene, l’evento più nobile cui la vita possa partecipare. 

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24 agosto 2014 7 24 /08 /agosto /2014 19:15

Addio al guru che portò lo yoga in Occidente 

Iyengar si é spento a 95 anni in India. Il suo meodo adottato in oltre 70 paesi,

LA FORMAZIONE: B.K.S. Iyengar nato  nel 1918 a Bellur,padre insegnante, viene introdotto allo yoga a 16 anni. Tre anni dopo il suo maestro lo invia a Puna come istruttore.

I SOSTEGNI: La sua disciplina è not perché, nonostane l'avversione degli ortodossi, consene l'uso di sostegni, come cinture e sgabelli, per facilitare le posizioni dello yoga.

GLI ALLIEVI: diviene famoso negli ani '50 grazie all'incontro con il suo allievo più illustre, il violinista Yehudi Menuhin. Tra i suoi allievi anche l'autore de "il mondo nuovo" Aldous Huxley.

Rimondo Buktrini - La Repubblica

LO yoga ha perso il maestro dei maestri, il guru indiano che ha insegnato al mondo moderno la via più semplice d'accesso a tecniche antichissime di controllo del corpo e del respiro. Per i cultori dello Hata Yoga, il 95enne B. K. S. Iyengar scomparso ieri a Pune è un personaggio storico. Non solo perché l'Occidente e personaggi famosi negli ultimi 40 anni, come l'autore de Il mondo nuovo Aldous Huxley, hanno appreso da lui come mettere in pratica a ogni età l'aforisma latino mens sana in corpore sano , ma perché Iyengar ha avuto il coraggio di sfidare i suoi stessi connazionali induisti ortodossi, che ritenevano i suoi metodi per facilitare l'apprendimento una "commercializzazione" degli insegnamenti Hata. Invece è stato proprio grazie all'uso di cinture, sgabelli, cuscini e altri strumenti pratici che gli studenti dei suoi corsi hanno potuto comprendere la giusta postura per progredire con gli esercizi più difficili a corpo libero. «La cosa più importante è l'attitudine mentale di chi pratica lo yoga», aveva detto in una delle sue ultime interviste.

Yiengar si è spento nella sua casa-ashram di Pune a causa di un'insufficienza renale, ma è probabile che — grazie il controllo del respiro e della mente — sia riuscito a concretizzare fino all'ultimo il motto che campeggia sul suo seguitissimo sito web: «Vivi felicemente, muori maestosamente». Anche il neopremier dell'India Narendra Modi, a sua volta un praticante di yoga, gli ha reso omaggio con parole di reverenza su Twitter: «B. K. S. Iyengar verrà ricordato per generazioni come un grande guru studioso e coraggioso, che ha portato lo yoga nella vita di molti in tutto il mondo ».

Di certo la sua è stata una vita dedicata con enorme successo a una delle pratiche fisiche e spirituali oggi più diffuse tra quelle esportate dall'Oriente e dall'India in particolare. Aveva iniziato a 16 anni per guarire da tifo, malaria e tubercolosi, e appena tre anni dopo — perfettamente sano — il suo maestro lo mandò a Pune perché parlava un po' d'inglese e poteva insegnare i movimenti noti come asana a un pubblico più vasto. Per decenni ha sviluppato le sue tecniche in qualche modo rivoluzionarie che non disdegnavano i supporti per l'apprendimento, ma basate sull'estrema precisione della postura e del respiro senza alcuna concessione alle varianti "occidentalizzate" oggi in voga nelle palestre di fitness.

A renderlo celebre quando aveva ormai superato i 50 anni, fu l'incontro con il suo studente forse più illustre, il violinista Yehudi Menuhin, che lo fece conoscere al di fuori dell'India. Oggi nelle palestre di oltre settanta Paesi, si tengono un'infinità di corsi diretti da suoi discepoli qualificati dopo almeno due anni di pratica nei cento centri autorizzati a usare il suo nome, sinonimo di un metodo preciso. Tanto che le sue versioni degli asana dello Hata sono considerate le più vicine alla disciplina vedica e pre-vedica, attribuita dallo stesso Iyengar ai testi del semileggendario Patanjali. «Il mio corpo è un tempio — diceva — e gli asana sono le mie preghiere ». Iyengar stesso mise però in guardia dalla semplificazione dei suoi metodi: «Tutti possono praticare lo yoga — disse — ma solo uno su un milione può davvero definirsi uno yogi ».

 

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27 luglio 2014 7 27 /07 /luglio /2014 15:35

L’eros terreno può farsi scala o ponte per raggiungere l’estasi dei mistici. E’ l’idea del componimento dei più classico dei poeti siriani del Trecento. E’ contenuto nel “Diwan” che folgorò Goethe facendogli dire. “Questi versi ruotano come ruota il firmamento”

SHAMS AL-DIN MOHAMMAD SHIRAZI noto come Hafez dal Diwan 1350-1390

  1.         Per un gitano bello e turbolento s’appassiona il cuore mio:

pelle bruna, d’assassino le mani, in volto il colore degli incanti

  1.         Che vadano in offerta alla veste strappata dei volti di luna

Le mille tuniche della castità, il saio nero dell’astinenza

  1.          Porterò con me nella terra il ricordo del tuo neo

Perché con il tuo neo profumato d’ambra si faccia il mio terreno

   4.Sono servo di quelle parole che attizzano dovunque il fuoco,

     non sfavilla la fiamma viva in poesia con l’acqua gelida

   5.L’Angelo non sa cosa sia l’amore, e allora tu coppiere

     Innalza la coppa e versa sul fango di Adamo il roseo vino.

   6. Povero e distrutto sono giunto alla tua soglia per chiedere la grazia

     Perché se non il tuo affetto per me altro soccorso non esiste.

  7. Nella casa del vino ieri notte la voce occulta mi sussurrava:

    resta lì, nella stazione dell’attesa, e non fuggire dal destino.

  8. Posa adesso a coppa del mio sudario, chè all’alba del Giudizio

    Loporti via dal cuore, con il vino, il terrore per la Fine dei Tempi

  9. Non esistono cortine che separino l’amante dall’amato:

    svelati da questo sentiero, sei tu Hafez, il tuo stesso velo

traduzione di DOMENICO Arturo INGENITO

L’autore: Shams Al-Din Mohammad Siraz, noto come hafez, nato a Shiraz tra il 1325-1326 e scomparso tra il 1389.1390, compositore di 800 ghazal circa, poemi lirici.

 

QUANDO la bellezza appartiene a una cultura troppo distante dalla nostra, il rischio è di non poterla cogliere; oppure, più subdolamente, di travisarla sotto i fumi dell'esotismo. La traduzione allora è tutto, il commento diviene parte integrante del testo. Nel caso di Hafez, il più classico dei poeti persiani del Trecento (ancora oggi in Iran si traggono auspici aprendo a caso le pagine del suo Canzoniere), l'estraneità per fortuna è attenuata da un'aria di famiglia: tra antichità e medioevo, platonismo e gnosi, un flusso comune attraversò il pensiero e la lirica dalla Spagna all'India — passando dalla Provenza e dal Maghreb, e dall'Italia e i Balcani e la Turchia, e la Siria e la Persia. Il minimo comun denominatore è l'idea che l'eros terreno possa farsi scala, o mappa o ponte o testimone, per l'amore sovrasensibile e divino. Con scambi reciproci, andate-e-ritorni, e declinazioni ovviamente diverse a seconda delle epoche e dei Paesi. Ma tenendo ferme alcune immagini ricorrenti (gli occhi dell'amata/amato, le frecce, la rosa, il fuoco, i "fedeli d'amore" e i loro nemici, le lacrime e i giardini, la sofferenza come ascesa); soprattutto dando per ovvio e scontato che un testo lirico amoroso debba essere letto a più livelli, sia reali che simbolici.

Irrecuperabile, qui, è soprattutto la musica: il ghazal prevede versi lunghi divisi in due emistichi, che nel primo verso rimano tra loro mentre i versi seguenti sono monorimi secondo lo schema AA BA CA ecc. I nessi, che paiono assenti tra un verso e l'altro, vanno ricostruiti culturalmente. Nel primo verso l'apparizione dell'amato è quasi canonica (quasi, perché di solito è turco di pelle bianca, qui invece è un olivastro zingaro di Shiraz); l'omoerotismo è stilizzato e tradizionale, deriva da un hadith coranico in cui Maometto vede Allah sotto forma di un bell'adolescente imberbe. Il che non significa che non ci si ispirasse a giovanotti reali nella meditazione mistica: per Hafez e i lirici che lo precedono, opporsi al perbenismo religioso con atti decisamente blasfemi era il modo per arrivare a un'accensione più intensa, a un'unione sacra di secondo grado. Quindi via il saio monacale a favore dei vestiti laceri dei ragazzi dal volto di luna, che lascino trasparire le loro nudità (anche i mistici sufi si strappavano il saio nell'estasi). Così come religiosamente sovversivo, al v. 8, è il gesto di porre la coppa di vino sul sudario, dove di solito si poneva il Corano; un po' come per i "santi folli" balcanici, l'ubriachezza è segno di elezione e la taverna prende il posto della moschea. La voce misteriosa che al v. 7 invita a resistere nell'attesa dell'eternità scende direttamente dal cielo alla "casa del vino".

Ma il salto più sorprendente è al v. 5. Dopo aver dichiarato di voler portare con sé nella tomba il ricordo del neo dell'amato (altro motivo tradizionale) e dopo una digressione metapoetica contro la freddezza della scrittura (v. 4), che c'entra ora l'Angelo che non conosce l'amore? Il Corano dice che solo Adamo, possedendo il libero arbitrio, può decidere se amare o no Dio e quindi sa quali sono i rischi dell'amore — per questo Dio ordina agli Angeli inconsapevoli di inchinarsi di fronte ad Adamo (tutti eseguirono tranne Satana). Il vino dell'amore impastandosi al fango dà vita ad Adamo, come il neo profumato del gitano bello, impastandosi alla terra in cui l'amante sarà sepolto, lo renderà immortale. L'eterno e il contingente si mescolano: "ieri notte" significa anche la notte primigenia in cui Adamo stipulò il patto con Dio. Vincere la morte significa ricongiungersi all'Adamo primigenio; in quel corpo mistico di conoscenza non c'è più distinzione tra amante e amato. Secondo un'idea che ritroviamo nel nostro stilnovismo, il viso della persona amata non è altro che lo specchio dell'anima dell'amante. Per questo il poeta nomina se stesso nell'ultimo verso (ennesimo elemento canonico), invitandosi a liberarsi di quel velo del Sé (il velo del sudario, ma anche l'indiano velo di Maia) che illude di una separazione dove invece non c'è che profonda unità.

Immaginiamo cosa dev'essere, letto in originale, questo turbinio rapinoso di analogie e di spessori, dove la sensualità fa tutt'uno con lo slancio spirituale e con l'orgoglio artigianale dello scrivere, e forse perfino coi bassi interessi economici (non è escluso che il v. 6, oltre che alludere al potere salvifico dell'amato, possa essere rivolto a qualche concreto patrono di Shiraz a cui chiedere aiuto). Le metafore, in altri testi hafeziani, si fanno così ardite da sfidare qualunque barocco («il gelsomino, per vergogna d'esser paragonato al tuo viso, si butta in bocca la polvere per mano della brezza» — immagine originale e splendida benché cristallizzata in un tòpos tradizionale; come gli attori del teatro nô o kathakali esprimono emozioni sempre nuove sotto la maschera o il trucco che copre i lineamenti personali). Uno dal fiuto infallibile come Goethe, dopo aver letto il Diwan di Hafez, attraversò e superò l'esotismo nel suo Divan occidentaleorientale , cogliendo questo ammirevole intreccio di finito e di infinito, di naturale e di invisibile; parlò di queste poesie che «ruotano come il firmamento ».

lo speciale dedicato alla serie "La poesia del mondo" di Walter Siti – La Repubblica

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