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25 ottobre 2015 7 25 /10 /ottobre /2015 08:19

L'insostenibile stanchezza della democrazia

È forse libera una società in cui tutti hanno il diritto di voto ma non lo esercitano? La sfiducia nella poltica indebolisce la forma di governo. Se ai cittadini si sostituiscono i consumatori finisce per prevalere il plebiscito del mercato. Un'anteprima dal nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky, "Moscacieca", edito da Laterza.


Gustavo Zagrebelsky – La  Repubblica

Tra le tante insidie linguistiche che fanno presa nel nostro tempo c’è la “governabilità”, una parola venuta dal tempo dei discorsi sulla “grande riforma” costituzionale che hanno preso campo alla fine degli anni Settanta e, da allora, ci accompagnano tutti i giorni. Cerchiamo di rimettere le cose a posto, a incominciare dal vocabolario. I sostantivi e gli aggettivi modali in “...abilità”, “...ibilità”, “...abile”, “... ibile”, ecc. esprimono tutti un significato passivo: amabilità è il dono di saper farsi amare; invivibile è la condizione che non può essere vissuta; incorreggibile è colui che non si lascia correggere. La stessa cosa dovrebbe essere per “governabilità” e “ingovernabilità”: concetti aventi a che fare con l’attitudine a “essere governati”. In questo senso, tale attitudine può essere propria soltanto dei “governandi”, non dei “governanti”. Sono i governandi, coloro che possono essere più o meno “governabili” o “ingovernabili”, a seconda che siano più o meno docili o indocili nei confronti di chi li governa.

Oppure, si potrebbe usare propriamente la parola per indicare l’insieme di coloro che hanno da essere governati e delle loro istituzioni: governabilità d’insieme. Della parola, tuttavia, si abusa certamente quando la si usa per indicare unilateralmente il bisogno di efficaci strumenti di governo (nel senso del memorandum della banca d’affari J.P. Morgan): è come se il governo stesso, cui spetta governare, potesse dirsi, esso stesso, più o meno governabile, più o meno docile.
Tutte le volte che si usano male le parole, si fa confusione e ci si inganna vicendevolmente. Qualche volta, inconsapevolmente, si tradisce un retro-pensiero che si vorrebbe rimanesse nascosto e che, invece, fa capolino tra le parole. Se l’attitudine a essere governati si riferisce alla società, ben si comprende a chi spetti il compito di governarla; ma, se la si attribuisce alla macchina di governo, allora la domanda che sorge, non maliziosa ma realistica, è: governabile, sì, ma da chi? Docile, sì, ma nei confronti di chi?

Nei regimi democratici, la governabilità, nel senso improprio detto sopra, cioè nel senso della forza che legittima l’azione del governo, deve dipendere dalla libera partecipazione politica e dal coinvolgimento attivo dei cittadini, dal confronto e dalla discussione su cui si forma l’ humus delle decisioni politiche, dal consenso che si manifesta innanzitutto con il voto e dalla fiducia che viene riposta in coloro che se ne faranno interpreti operativi. Quale che sia la definizione di democrazia, immancabile è, dunque, il voto che esprime la volontà di autonome scelte. Se manca il voto dei cittadini, ogni definizione è ingannevole. Il voto non è sufficiente, ma è necessario. Può sembrare una banalità, ma non lo è. 

Gaetano Salvemini, lo storico antifascista che Norberto Bobbio ha incluso nel pantheon dei suoi “maestri nell’impegno”, scriveva nel 1940 dal suo volontario esilio negli Stati Uniti: «La parola democrazia è adoperata anche per indicare dottrine e attività diametralmente opposte a una delle istituzioni essenziali di un regime democratico, vale a dire l’autogoverno. Così noi sentiamo di una cosiddetta “democrazia cristiana” che, secondo la Catholic Encyclopedia, ha lo scopo di “confortare ed elevare le classi inferiori escludendo espressamente ogni apparenza o implicazione di significato politico”; questa democrazia esisteva già al tempo di Costantino, quando il clero “dette inizio all’attività pratica della democrazia cristiana”, istituendo ospizi per orfani, anziani, infermi e viandanti. I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della “reale”, “vera”, “piena”, “sostanziale”, “più onesta” democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali, perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il ‘governo dei popoli”».

Primo fra tutti, il diritto di andare a votare. A modellare una società in senso democratico, non basta però che i diritti siano riconosciuti. Occorre che siano esercitati. Che cosa contano, se non se ne fa uso? È forse libera una società in cui alla scienza, all’arte, all’insegnamento, alla stampa, ecc., è riconosciuto il diritto di essere liberi, se poi gli scienziati, gli artisti, gli insegnanti, i giornalisti rinunciano a farne uso? Lo stesso è per il diritto di voto. È forse democratica una società in cui tutti i cittadini hanno il diritto di votare, ma non ne fanno uso? È democratica una società in cui la maggioranza rinuncia ad esercitare il proprio diritto di voto? Non sono costretti a rinunciare da leggi antidemocratiche; lo fanno volontariamente. Ma è forse questo meno grave? Al contrario, è più grave, poiché la rinuncia volontaria all’esercizio del primo e basilare diritto democratico sta a significare che la frustrazione della democrazia è stata interiorizzata, è entrata nel midollo della società.
Occorre interrogarsi su questa manifestazione di stanchezza della democrazia e, innanzitutto, sul fatto ch’essa non sembra fare problema, porre domande. È un dato accettato, tanto in alto quanto in basso.

In basso, cioè tra i cittadini, non deriva più (soltanto) dal sentimento antipolitico e antiparlamentare che è sempre pre- sente in ogni società e nella nostra in misura cospicua, alimentato dall’incredibile diffusione della corruzione pubblica che viene alla luce. Deriva da una convinzione assai più profonda e difficilmente scalzabile. Non si dice più (soltanto): sono tutti uguali perché tutti disonesti, ma: sono tutti uguali perché l’uno uguale all’altro nell’inutilità e nell’inconcludenza. In breve: è la fiducia nella politica che sta progressivamente riducendosi, poiché si avverte, consapevolmente o inconsapevolmente, che “la cosa” è come sfuggita di mano.

In alto, alla voragine dell’astensione, dopo ogni tornata elettorale, si dedica qualche espressione di rammarico, unita alla promessa di riallacciare il filo che si è spezzato. Ma è pura retorica che si ferma alle parole. Né si saprebbe come fare, perché il distacco dei grandi numeri dalla politica, che è un dato allarmante alla luce di qualunque concezione anche solo “minima” della democrazia, è perfettamente conforme allo spirito della vigente costituzione materiale che ha nel governo tecnico-esecutivo la sua colonna portante: il “governo governabile”. Le elezioni, da linfa della democrazia, si sono trasformate in potenziali intralci. Dunque, meno si vota e meglio è. Del resto, non è stato detto da qualcuno, facendo il verso alla celebre definizione di nazione di Ernest Renan, che i governi europei, scalzati dagli “esperti monetari”, hanno fatto prevalere il “permanente plebiscito dei mercati mondiali” sul “plebiscito delle urne” (così Hans Tietmeyer, presidente della Bundesbank, nel 1998)?

In effetti, se ai cittadini si sostituiscono i produttori e i consumatori, i creditori e i debitori, i venditori e i compratori, il plebiscito del mercato risulta essere la democrazia nella sua forma più coerente.

Una volta che le sorgenti sociali della governabilità si siano inaridite, la governabilità, intesa impropriamente come capacità di governo, da problema di democrazia politica si trasforma in questione di ingegneria costituzionale al servizio dell’efficienza dei mercati, i quali hanno bisogno di costituzioni reattive alla loro continua instabilità, di decisioni pronte, assolute e cieche, cioè di interventi esecutivi.

Una volta si sapeva e si diceva che l’ingegneria costituzionale non esiste in quanto tale; che non si deve far finta che abbia a che fare solo con questioni di efficienza. Ogni questione di natura propriamente costituzionale è sempre una questione di allocazione di potere. Oggi, quella verità vale pur sempre, ma la si nasconde negli interminabili convegni, tavole rotonde, pubblicazioni, dichiarazioni che sembrano tutti rivolti a una idea vuota di “vita costituzionale buona”, per l’appunto l’idea di “governabilità”, ed invece mirano a nuove e interessate allocazioni di potere.

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8 maggio 2014 4 08 /05 /maggio /2014 10:50

 

I partiti al libero mercato delle scelte individuali

Articolo di Nadia Urbinati - LaRepubblica

”Ha detto Matteo Renzi al festival del volontariato di Lucca che “tutti i partiti politici e tutti i sindacati che accedono ai contributi pubblici devono avere gli stessi standard di comunicazione dei dati”.

Ottima proposta. Ma sarebbe desiderabile che includesse anche il riferimento ai contributi privati: trattandosi di associazioni che contribuiscono alla vita delle istituzioni, nessun contributo dovrebbe restare non rivelato. La riforma della politica passa anche di qui. E l’inchiesta di Repubblica sui finanziamenti privati ai partiti politici dal 1992 ad oggi (pubblicata il 2 aprile) ne è una prova ulteriore. L’intensità e la recidività del malaffare ha prodotto un’opinione ostile al finanziamento pubblico, nella convinzione che lasciare ai privati il mercato dell’opinione politica sia meno esoso. L’inchiesta di Repubblica mostra come i soldi seguano le fortune elettorali dei partiti facendo sorgere il sospetto che leader e governi non siano indifferenti ai desideri dei donatori, i quali ovviamente non danno soldi solo per scopi assistenziali. È ovvio che la politica nelle democrazie abbia bisogno di soldi perché inclusiva di tutti, anche di chi soldi non ne ha. Ha per questo bisogno di regole che ci tutelino dagli effetti che la necessità del denaro può produrre: la corruzione. Benché le leggi non riescano a cambiare la natura umana, possono essere dispositivi di deterrenza capaci di neutralizzare i piani di corruzione. Sono due le forme di corruzione delle quali preoccuparsi: l’uso improprio di risorse pubbliche e la violazione dell’eguaglianza politica di cittadinanza, ovvero l’uso di risorse private per favorire o impedire decisioni pubbliche.

La prima è quella che sta a cuore a chi si oppone in Italia al finanziamento pubblico dei partiti e che ha ispirato la legge approvata nel febbraio scorso per la quale i cittadini stessi scelgono di destinare il 2% dell’Irpef ai partiti di loro gradimento. L’idea guida è che privatizzando la scelta alla sorgente si possa controllare meglio l’operato dei partiti. Se non che, affidare l’esistenza dei partiti alla volontà dei privati (oltretutto non di tutti egualmente, ma solo di coloro che pagano l’Irpef) può facilmente legare il potere dell’influenza politica alla diseguaglianza delle possibilità economiche dei singoli cittadini, generando una corruzione ancora più radicale. Per scongiurare questo scenario, le legislazioni dei paesi europei si sono dotate di misure di controllo. La Germania, che contrariamente all’Italia tratta i partiti come organi di diritto pubblico, prevede l’intervento del legislatore per controllare sia l’aspetto economico sia l’ordinamento interno così da renderlo “conforme ai principi fondamentali della democrazia”. Ciò ha consentito, come sappiamo, di escludere i comunisti e i nazisti dalla vita parlamentare, ma ha anche permesso di controllare il finanziamento. In conformità ai principi democratici, la Germania ha statuito un contributo pubblico ai partiti proporzionale ai voti ricevuti e in rapporto ai voti validi, e stabilito un tetto minimo di voti necessari per accedere ai finanziamenti. La Commissione Bozzi (1983-1985) si era ispirata a questo modello quando aveva proposto un’aggiunta all’articolo 49 della Costituzione che si riferiva esplicitamente al finanziamento pubblico. La proposta non ebbe esito. Legare il destino dei partiti al mercato delle scelte individuali non pare essere una strategia saggia. L’esempio degli Stati Uniti dovrebbe farci riflettere.

I partiti americani sono associazioni libere, finanziati solo con i soldi privati e il sistema politico americano (incardinato sulle primarie) rende le campagne elettorali un pozzo di San Patrizio e la politica un affare nel “libero mercato delle idee”, dove il denaro è un’indicazione di libertà di parola, secondo una nota interpretazione del primo emendamento alla costituzione. Il finanziamento privato è una spina nel fianco della democrazia americana, un passaporto all’ingiustizia politica oltre che a spese sconsiderate e infine per nulla al riparo dalla corruzione, che è anzi resa lecita. La nostra nuova legislazione che ridefinisce il finanziamento pubblico come sostegno privato volontario da parte dei contribuenti si iscrive in una visione del partito politico come associazione privata o extra-statale e con un rapporto conflittuale rispetto allo stato democratico. Il paradosso è questo: sappiamo che il sistema rappresentativo necessita di partiti, eppure ci rifiutiamo di accettare che il partito sia un’associazione in parte pubblica. L’Italia, convinta di seguire il modello tedesco nella riforma del Senato, si ispira al modello americano nel modo di intendere i partiti. Il sistema tedesco, molto meno corrotto del nostro e di quello statunitense, riposa su partiti che sono concepiti e regolati come protagonisti della “partecipazione libera e duratura” alla vita dello Stato, non lasciati alla forza degli interessi privati e al potere diseguale di chi ha più voce nel mercato

 

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29 aprile 2014 2 29 /04 /aprile /2014 19:47

RISCHI DELLA DEMOCRAZIA PLEBISCITARIA

QUANDO nel 1958 De Gaulle, per porre fine all'instabilità politica della Francia, varò la sua riforma costituzionale, da parte della sinistra francese, cui si affiancò quella italiana, si gridò all'avvento del neobonapartismo e persino del fascismo. Sartre definì i sostenitori di De Gaulle «ranocchi in attesa di un re» e Mitterrand giurò che l'avrebbe cambiata. La costituzione fu approvata, entrò in vigore e nessuno vide avanzare il neobonapartismo- fascismo.

Quanto a Mitterrand, si dimenticò della promessa e divenne presidente alla gollista con soddisfazione. Ora in Italia — il cui sistema politico fa acqua da tutte le parti e il cui processo legislativo si rimbalza dall'una all'altra Camera con effetti dilatori e negativi per ogni serio progetto riformatore — di fronte alle iniziative di cambiamento avanzate da Renzi e dal suo governo vi è chi agita lo spettro della "democrazia plebiscitaria", cioè di una deriva autoritaria che sarebbe iscritta nei disegni del suddetto Renzi considerato come erede di fatto del berlusconismo. Il termine e il concetto di "democrazia plebiscitaria" sono legati, prima che a quello di chiunque altro, al nome di Max Weber e alla formulazione datane da lui, in chiave radicale, in un celebre articolo del 1919. La Germania gli appariva in condizioni di totale disastro, i partiti inetti, i conflitti sociali acuti, l'Assemblea nazionale non all'altezza dei compiti; e quindi egli invocò l'elezione di un Presidente del Reich «che poggi senz'altro sulla volontà dell'intero popolo, senza l'intervento di intermediari». Il Presidente — scriveva — «eletto dal popolo, capo dell'esecutivo, capo dell'apparato di controllo amministrativo e detentore di un veto sospensivo e della facoltà di sciogliere il parlamento, che abbia la facoltà di indire una consultazione popolare, è il palladio dell'autentica democrazia ». Questo dunque il volto della democrazia plebiscitaria.

Ma vi è una qualche ragionevolezza nel pensare che Renzi operi seguendo le orme del Presidente del Reich di tipo weberiano? O che progetti una riforma delle istituzioni che ad esso si avvicini? Abolire il Senato doppione della Camera va nella direzione di sistemi istituzionali in vigore in vari paesi dell'Unione europea che non sono andati incontro a derive autoritarie. Renzi ha sottoposto i suoi progetti di riforma alla direzione del suo partito e, solo dopo averne ricevuto il consenso, li ha presentati al Parlamento, cercando le intese con i partiti. Tutto ha fatto, salvo che «senza l'intervento di intermediari ».

Lecita naturalmente ogni critica, anzitutto di chi a quei progetti si oppone; ma alzare il tono sino a far aleggiare la minaccia della "democrazia plebiscitaria" proveniente dal supposto erede di Berlusconi (ma Renzi non è un plutocrate, non il padrone di tv, giornali, case editrici, non dispone di corti principesche, non minaccia da capo del governo altri poteri dello Stato, ecc.) significa agitare le acque oltre i limiti, appunto, della ragionevolezza, cedere al vizio di una retorica politica incapace di persuadere. Vi è chi considera alla stregua di un ricatto da leader insofferente la dichiarazione di Renzi che, se il Parlamento non approvasse le riforme proposte, allora non resterebbe che andare alle urne e, per lui, tornarsene a casa. Credo che la cosa debba essere vista in modo diverso, come una positiva assunzione di responsabilità di un leader che non vuole essere l'uomo di quale che sia stagione e non persegue il potere per il potere. Su un aspetto si può fare un'obiezione. Renzi ha mostrato, alle primarie del Pd che lo avevano visto sconfitto, di saper perdere e ciò nondimeno di voler riprendere la battaglia in cui credeva. Ebbene, se anche perdesse la battaglia per le riforme, un leader che crede nelle motivazioni del suo agire al servizio del paese deve essere capace di perdere magari ancora, di riprendere la sfida per il consenso, e non ritirarsi a fare il Cincinnato.

I gruppi parlamentari del Pd sono chiamati a riflettere sugli effetti che provocherebbe la caduta del Renzi premier e segretario. Dopo avere impallinato Prodi, impallinare anche Renzi e portare il paese alle urne in uno stato di caos politico e istituzionale sarebbe la prova del nove di una vocazione autodistruttiva dal prezzo troppo salato. Oltre la siepe vi è soltanto il suicidio della politica nel suo insieme e l'apertura di un vaso di Pandora (già fin troppo aperto), che sarebbero il più agognato regalo offerto a chi punta sul tanto peggio tanto meglio". Vari paesi dell'Unione europea hanno abolito il Senato doppione della Camera e non sono andati incontro a derive autoritarie "

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22 gennaio 2014 3 22 /01 /gennaio /2014 09:35

Manipolare la democrazia uccide la politica

Martedì 21 il Centro Gobetti di Torino celebra con un convegno il grande filosofo scomparso dieci anni fa. La sua lezione attuale e profetica emerge anche nel testo di un discorso del 1969 che qui pubblichiamo in parte di NORBERTO BOBBIO

Come tutte le espressioni correnti del linguaggio politico, anche l'espressione "crisi di partecipazione politica" viene comunemente adoperata in diversi significati. Credo che il miglior modo d'avviare una discussione sul tema sia quello di cominciare a fare qualche distinzione. A mio parere, conviene distinguere tre usi diversi dell'espressione. Il che val quanto dire che il fenomeno di cui intendiamo occuparci ha (almeno) tre diverse manifestazioni.

Nel senso più generale e anche più facile, quando si parla di crisi di partecipazione, s'intende fare riferimento al fenomeno dell'apatia politica, cioè al diffondersi di un certo disinteresse per la politica, che sembra una delle caratteristiche della società di massa. L'apatia politica è un aspetto del fenomeno più ampio della "depoliticizzazione". La quale, a sua volta, sembra connessa, da un lato, allo sviluppo della società tecnocratica, dall'altro, all'ingigantirsi e al rafforzarsi, nella società delle grandi organizzazioni, degli apparati burocratici. E infatti, una delle caratteristiche dell'ideologia tecnocratica è di credere e di far credere che le grandi decisioni siano di natura tecnica e non politica. Orbene: se le grandi decisioni possono essere prese con strumenti tecnici, non c'è più bisogno dei politici generici e tanto meno della partecipazione popolare ancor più generica; bastano i competenti specifici. [...] Tecnocrazia e burocrazia si congiungono al di sopra della sfera tradizionale riservata alla politica. La conseguenza di questa congiunzione è appunto la depoliticizzazione. Un'altra variante di questa crisi della partecipazione politica come crisi della politica tout court è il fenomeno della crisi delle ideologie: in genere si crede che alla depoliticizzazione si accompagni la deideologizzazione come sua ombra. Volendo stringere in un solo nesso tecnocrazia, burocrazia e crisi delle ideologie, si può dire così: più si tecnicizza il processo di decisione, più si burocratizza il processo di potere; più si burocratizza il processo di potere, più si de-ideologizza il processo delle scelte fondamentali.

In un secondo senso si parla di crisi di partecipazione per indicare non già il fenomeno della mancanza di partecipazione bensì il fenomeno della partecipazione distorta o deformata. [...] La partecipazione distorta o deformata è la partecipazione ottenuta con le tecniche della manipolazione del consenso. È una partecipazione non attiva ma passiva, non libera ma coatta, non spontanea ma forzata, non autodiretta ma eterodiretta. Ci si domanda se si possa ancora parlare appropriatamente di partecipazione: alcuni vorrebbero chiamarla piuttosto mobilitazione, usando un termine con un evidente significato emotivo negativo che serva a metterne immediatamente in luce il carattere di fenomeno deviante. Sotto questo aspetto, crisi di partecipazione vuol dire risoluzione della partecipazione in mobilitazione. Questa crisi di partecipazione è l'effetto del sempre maggior rilievo che nella moltiplicazione e nella diffusione delle comunicazioni di massa acquista il potere ideologico accanto ai tradizionali poteri economico e politico. Intendo per potere ideologico il potere che si esercita attraverso il dominio dei mezzi di comunicazione di massa, cioè dei mezzi con cui chi detiene il potere cerca di ottenere il consenso dei soggetti ad esso sottoposti. [...] Vi è infine un terzo significato in cui si parla di crisi di partecipazione politica: la partecipazione ha luogo, e quindi non vi è mancanza di partecipazione; si può anche ammettere che sia libera e quindi non manipolata, cioè sia vera e propria partecipazione (e non, per esempio, mobilitazione).

Ma vi può essere un'altra ragione per cui la partecipazione sia insoddisfacente, e pertanto sia legittimo parlare di crisi: la partecipazione non produce gli effetti che da essa ci si attende, cioè è inefficace e quindi inutile. Si partecipa e quindi non si resta assenti dalla competizione politica; ci si può anche muovere nell'ambito delle scelte politiche con una certa libertà, e quindi non si può parlare di vera e propria manipolazione (dove vi è concorrenza tra le varie parti che si contendono il potere, rimane sempre un certo spazio per il formarsi di una opinione personale). Ma la partecipazione non raggiunge il proprio scopo che è quello di dare all'individuo partecipante una parte effettiva nel processo al cui termine c'è la decisione politica. È un fatto che nella misura in cui aumenta il numero degli elettori nelle società di massa sembra che le grandi decisioni vengano prese indipendentemente dalla maggiore o minore partecipazione di coloro al cui interesse quelle decisioni sono rivolte. [...]

Appare subito chiaro che una soluzione adatta per risolvere la crisi di partecipazione politica nel primo senso non è detto che sia adatta per risolvere anche il problema aperto dalla crisi di partecipazione politica nel secondo senso, e così di seguito. [...] Tanto per cominciare, è noto che uno dei grandi rimedi proposti per risolvere l'attuale crisi della partecipazione politica è l'estensione della partecipazione dai centri di potere politico ai centri di potere economico. Giustamente si osserva che nelle società industriali avanzate le grandi imprese sono Stati nello Stato, e le loro scelte hanno un valore condizionante per tutta la collettività: se per decisioni politiche s'intendono quelle decisioni che incidono sulla redistribuzione delle risorse nazionali, non c'è dubbio che le decisioni delle grandi imprese sono decisioni politiche. Perché ci sia corresponsabilità di tutti alle grandi decisioni non basta la partecipazione al potere politico, come avviene nelle democrazie di tipo tradizionale, occorre anche una qualche partecipazione, nelle forme più convenienti ed efficaci, al potere economico. L'allargamento della democrazia dalla sfera politica alla sfera economica è uno dei temi ricorrenti della pubblicistica di sinistra. Benissimo. Però è subito evidente che una riforma di questo genere può risolvere il problema dell'assenteismo o dell'apatia ma non certo quello della manipolazione né quello dell'inefficacia della partecipazione. [...] L'altro grande rimedio - un vero e proprio toccasana dal modo con cui è presentato - è quello della democrazia diretta. In ogni discussione sulla crisi della partecipazione, gira gira, si torna sempre alla riproposta della democrazia diretta. I regimi democratici non funzionano perché sono fondati sulla democrazia rappresentativa, che è un inganno cui non crede più nessuno, e così via discorrendo. Eppure, a ben guardare, anche la democrazia diretta, posto che sia attuabile, e nei limiti in cui è attuabile, non è un rimedio universale (esiste il mito della democrazia diretta, si nasconde spesso un vuoto di proposte e idee dietro questa forma di espressione -ndr). Delle tre malattie della partecipazione essa è in grado di curare quasi esclusivamente la terza, cioè la partecipazione inutile. [...] Non vedo invece come possa venir meno, per il solo fatto che la democrazia diventi diretta, l'inconveniente della manipolazione. (L'esempio storici più eclatante: tra Barabba e Gesù la democrazia diretta scelse l'innocente - le sue informazioni erano sbagliate o ,se si vuole affermare,  manipolate) I plebisciti ne sono una prova. [...] Il problema della partecipazione - lo vediamo sempre più chiaramente - non è un problema di quantità ma di qua-lità: o per lo meno non è soltanto un problema di quantità. Non si tratta tanto di sapere chi partecipa (problema dell'apatia) e neppure riguardo a che cosa (problema dell'efficacia della partecipazione); ma come. [...] Mai come oggi ci si accorge che attraverso le tecniche di manipolazione del consenso la più grande democrazia (proclamata) può coincidere con la più grande autocrazia (reale). [...] Accettare senza una verifica storica e razionale i miti correnti, la realtà economica e sociale, le posizioni  serve soltanto ad aumentare la confusione.

Un esempio sono i 5 stelle dove all'interno dell'organizzazione non é mai chiaro quali persone decidono, in base a che cosa; oltre al fatto che quando il papà e la mamma si arrabbiano i bambini ammutoliscono subito e si allineano. Un altro esempio sono  le elezioni primarie del PD: Il risultato degli iscritti é stato completamente ribaltato con il voto della base politica. (e si che il principio che sono gli iscritti possono e hanno la responsabilità di votare non é sbagliato preso in sé. Ma se la struttura del partito é diventato un freno al cambiamento ecco che  occorre un altro livello di coinvolgimento per conoscere il vero orientamento di cosa pensano gli elettori di quell'area. - Figuriamoci: l'apparato politico non ha capito il sentire della propria base elettorale che cosa può capire dell'evoluzione della società ? - L'apparato é diventato un ostacolo alla buona politica) (ndr)

 

 

“Norberto Bobbio”, di Massimo Novelli.

Domani il Centro Gobetti di Torino celebra con un convegno il grande filosofo scomparso dieci anni fa. La sua lezione attuale e profetica emerge anche nel testo di un discorso del 1969 che qui pubblichiamo in parte. Quando il 4 ottobre del 1969, durante una tavola rotonda alla Fondazione Cini di Venezia, Norberto Bobbio tenne l’intervento sulla crisi di partecipazione politica nella società contemporanea, di cui pubblichiamo ampi stralci grazie al Centro studi Piero Gobetti di Torino, l’Italia stava entrando nel cuore di tenebra della strategia della tensione. Il successivo 12 dicembre, a Milano, le bombe di piazza Fontana lo avrebbero tragicamente dimostrato. Ma la lucidità dell’analisi del filosofo della politica, verrebbe da dire la sua preveggenza, andavano ben oltre la situazione di quel momento, segnato peraltro dalla contestazione studentesca, che Bobbio aveva accolto da uomo del dialogo quale era, e dagli scioperi operai. Nel delineare quel giorno a Venezia, in occasione dell’ottavo congresso nazionale di filosofia del diritto, il «diffondersi di un certo disinteresse per la politica», la crisi delle ideologie e dei partiti, così come la burocratizzazione del potere, la manipolazione del consenso «attraverso il dominio dei mezzi di comunicazione di massa» e le illusioni di risolvere ogni problema con la «democrazia diretta», l’autore del Profilo ideologico del Novecento descrivendo «l’apatia politica» del suo tempo, quella crisi, ne intuiva l’onda lunga, prefigurando sostanzialmente l’Italia odierna. Altrimenti non si potrebbe definire, se non profetico, il passaggio in cui asseriva che «mai come oggi ci si accorge che attraverso le tecniche di manipolazione del consenso la più grande democrazia (proclamata) può coincidere con la più grande autocrazia (reale)». Il testo di Bobbio, che uscì poi solo su una rivista destinata a studiosi, terminava con un’affermazione che, riletta adesso, appare egualmente di attualità bruciante: «Accettare senza una verifica storica e razionale i miti correnti serve soltanto ad aumentare la confusione». L’eredità di Bobbio, il riascoltare la sua voce nei libri e negli articoli, caratterizzano il nutrito programma di seminari, di incontri, di mostre, di ristampe delle opere, con cui la famiglia Bobbio e il Centro studi Gobetti gli rendono omaggio per tutto il 2014, a cominciare dalla celebrazione torinese di domani, nella ricorrenza del decennale della scomparsa, avvenuta il 9 gennaio del 2004 all’età di 94 anni. Proprio ll’appuntamento di Torino, che avrà luogo nella sala del Consiglio comunale della città, il professor Luigi Bonanate, uno dei suoi allievi, rammenterà nella sua relazione che «di fronte alla crisi morale o addirittura esistenziale che il mondo attuale conosce, Bobbio ha un’infinità di cose da dirci». Per Bonanate, soprattutto, «sostanzialmente sicuro che Bobbio consentirebbe», s’impone il tema della democrazia. Come scriveva il filosofo ne L’età dei diritti, ricordando che i diritti umani, la democrazia e la pace sono «i tre momenti necessari dello stesso movimento storico: senza diritti dell’uomo riconosciuti e protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti».

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3 gennaio 2014 5 03 /01 /gennaio /2014 13:25

Nonostante la buona amministrazione e i buoni risultati del sindaco uscente (Bloomerang), Il programma di Blasio ha convinto gli elettori a schierarsi al 72% con il suo programma che non è un programma di sinistra, ma adeguato alla situazione economico e sociale attuale (ndr)

In metro con la famiglia, senza scorta,  al giuramento nella Grande Mela. Inizia l’era de Blasio (Massimo Vincenzi– La Repubblica) . Si insedia il sindaco: “Grazie anche all’Italia”.                                                                                                                            NEW YORK— «Non aspetteremo, lo faremo adesso»: Bill de Blasio lo ripete una, due, tre volte, è lo slogan che ritma il suo discorso di investitura sui gradini della City Hall nel giorno del giuramento. Il nuovo sindaco di New York lo aveva promesso in campagna elettorale e ora lo ribadisce: «E’ venuto il tempo di combattere le ingiustizie sociali e le diseguaglianze economiche che minacciano il futuro della città che amiamo». Alle sue spalle Bill Clinton e la moglie Hillary, l’ex presidente e il probabile successore di Obama, fanno sì con la testa: quello che va in scena qui, non è solo il rito di investitura ma un vero e proprio esperimento politico. Il laboratorio, dove «tutti i progressisti d’America» guardano, come scrive il New York Timese come urla con la poca voce che gli è rimasta anche una delle icone del movimento liberal, il cantante Harry Belafonte che apre la giornata: «Possiamo essere il Dna per una nuova forza progressista nel Paese». C’è un bel sole e tira un vento freddo che però non gela la festa. I mille biglietti messi a disposizione per i newyorchesi vengono bruciati in meno di due ore. Ci sono i volontari, che dopo mesi di duro lavoro si ritrovano qui per l’ultima volta: fanno foto di gruppo, ballano al ritmo della musica che accompagna l’attesa, ridono felici, le facce stanche da primo dell’anno nascoste sotto i cappellini arancioni. I riccioli rasta di Jasmine spuntano ribelli, abita a Brooklyn, è una delle veterane: «E’ il più bel Capodanno della mia vita. Questa notte non ho dormito dall’emozione». Vicino a lei c’è Katharine, viene dal Bronx, ricorda i momenti bui in agosto quando tutto sembrava perduto, ora è qui con il piccolo Jack di cinque anni: «Sono contenta per mio figlio, sono sicura di aver dato il mio contributo per costruire un mondo migliore per lui». E’ una festa per famiglie a partire dalla “first family” ancora una volta protagonista della scena. Le rende omaggio Bill Clinton: «Voi siete il futuro di questa città, il futuro dell’America». E de Blasio apre il suo discorso, dopo aver giurato sulla Bibbia che fu di Roosevelt, con una dedica romantica: «Ricordo il giorno che ho incontrato in questo palazzo dietro di me una meravigliosa giovane ragazza: Chirlane, la donna che mi ha cambiato la vita. Mia compagna, amica, consigliera e anima gemella». Poi dice, in italiano, “Grazie” ai suoi fratelli che lo «sostengono da sempre». La figlia Chiara, che con coraggio nei giorni di Natale aveva ammesso di aver avuto problemi di alcol e droga, soffia baci alla folla. Dante, «i capelli più famosi d’America » come lo ha definito un comico, recita con grande serietà il ruolo di cerimoniere: stringe mani, sostiene Belafonte ma quando parte la musica non resiste e ondeggia il ciuffo. Qualche ora prima, poco dopo la mezzanotte sono tutti insieme davanti alla piccola casa di legno in Park Slope a Brooklyn per il primo giuramento di de Blasio, che sceglie apposta la sua residenza middle class. Così come decide di arrivare alla cerimonia ufficiale in metropolitana, senza scorta e corteo di auto. Cappotto blu, guanti di pelle nera e la cravatta rossa portafortuna, sbuca in perfetto orario dal tunnel e subito viene accerchiato dai sostenitori che lo spingono dentro il recinto di Park Row. Accurata anche la scelta degli ospiti: ci sono una coppia che ha perso la casa nella tragedia di Sandy, un lavoratore di un fast food, un immigrato e la piccola Dasani, la bambina di 11 anni protagonista di una campagna del New York Times in favore dei senza tetto: è il suo pantheon. Simboli ma non solo, come lui stesso ci tiene a ribadire per respingere le accuse di populismo: «Qualcuno pensa che la mia sia solo retorica buona per la propaganda. Dimostrerò che non è così ». Il manifesto è scritto: «New York ha affrontato la bancarotta, un’epidemia di criminalità e il terrorismo adesso siamo di fronte ad una nuova crisi: la diseguaglianza e l’ingiustizia. Una crisi che magari non conquista i titoli dei giornali ma che è una minaccia altrettanto pericolosa. Dobbiamo lottare perché non sia più così». Promette un programma per le case popolari, più fondi alle scuole, dare a tutti i ragazzi la possibilità di studiare, sostegno agli ospedali, attenzione ai più poveri perché «nessuno deve essere lasciato indietro», basta con le «due città, quella della ricca Manhattan e quella degli altri quartieri dimenticati» e soprattutto basta con «la dittatura dell’un per cento». A loro, alla minoranza ricca, dice con chiarezza e un filo di ironia: «Chiederò ai più abbienti di pagare poche tasse in più, chi guadagna oltre 500mila dollari avrà 700 dollari in più all’anno: sono 3 al giorno, quanto costa un bicchiere di latte di soia da Starbucks». Poi spiega: «Io non chiedo di più ai ricchi per punire il loro successo, lo faccio perché voglio creare più storie di successo. Non è una novità, tutto questo sta scritto nei nostri geni, lo hanno già fatto prima di me Roosevelt e La Guardia. Questa è la città che accolto i miei nonni da un piccolo paese dell’Italia: un posto dove tutti hanno le stesso possibilità, dove tutti, bianchi, neri, latinos, asiatici, gay, lesbiche hanno gli stessi diritti. Questa è la nostra missione. La marcia verso un luogo più giusto, più equo, più solidale inizia oggi: lavoreremo assieme e manterremo le nostre promesse ». La musica dance copre gli applausi, Bill si gira, cerca Chirlane, Chiara e Dante che lo raggiungono, si stringono le mani, fanno una catena, alzano le braccia al cielo e poi le abbassano, fanno un passo avanti e uno indietro come gli attori dopo uno spettacolo. Il sipario si abbassa, la festa è finita: adesso, come scherza Belafonte, inizia il lavoro: «Nei prossimi quattro anni saremo molto impegnati».

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29 dicembre 2013 7 29 /12 /dicembre /2013 17:17

Decreto alla Nerone che sazia la folla. Renzi conti fino a 10 prima di tagliare

BOLOGNA - «Una legge non buona». Anzi, «brutta». Ma soprattutto, «un provvedimento "alla Nerone", per cui si portano gli italiani al Colosseo e gli si dà in pasto qualcosa per placare la loro rabbia». A Fabrizio Barca non piace il decreto del governo sull' abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. A Bologna per lanciare il suo nuovo viaggio nei circoli, a caccia dei "Luoghi Idea(li)" del Pd, l' ex ministro di Monti, sostenitore di Pippo Civati, ammette la necessità di una «riduzione drastica» dei fondi ai partiti, ma definisce «iniquo» il meccanismo della nuova legge. E dà un consiglio anche al neosegretario Pd Matteo Renzi, che oggi all' assemblea nazionale potrebbe rinunciare ai rimborsi elettorali: «Conti fino a dieci, servono scelte meditate». Barca, lei ha lanciato un crowdfunding per finanziare il suo tour nei circoli. Perché non le piace la legge che abolisce i fondi ai partiti? «In questa legge c' è una cosa sacrosanta e importantissima: l' obbligo di certificazione dei bilanci. Quello che non va sono le modalità del finanziamento ai partiti». In che senso? «Si rischia di avvantaggiare i partiti che sono supportati da persone con un maggior reddito. Primo, il livello di contribuzione massima, fino a 300mila per le persone fisiche, è troppo alto. Secondo, le detrazioni tra il 37% e il 75% fanno sì che una parte della contribuzione sia a carico di tutti, non solo di chi fa la donazione. Infine, il 2xmille consentirà di far arrivare più fondi a chi ha sostenitori ricchi. Tutto questo ne fa un meccanismo iniquo, non ragionevole». In questi anni però c' è stato un abuso del finanziamento pubblico. «Certo, infatti la premessa è che il finanziamento ai partiti va assolutamente ridotto, drasticamente. Ma ci sono altri modi: in Germania c' è una ripartizione tra quote degli iscritti e dei simpatizzanti. Con questa legge invece si rischia di fare una cosa più eclatante che giusta, per saziare la folla. Saziandola, però, male». In assemblea il segretario Pd Renzi potrebbe annunciare la sua «sorpresina» a Grillo: la rinuncia da subito ai rimborsi elettorali. Un altro atto "alla Nerone"? «Non commento quella che per ora è solo un' ipotesi. Il mio consiglio è che qualunque proposta sia meditata. I 3 milioni delle primarie hanno votato per un partito che lavori meglio. Ma pur sempre per un "partito": organizzato, solido, l' unico. Poi può funzionare bene anche con il crowdfounding, ma con progetti convincenti. Competiamo su questo con Grillo». Cioè? «Si faccia una gara a rialzo, su chi raccoglie più fondi per una buona proposta. Non una corsa a ribasso, a chi taglia di più i soldi pubblici». Anche il blitz di Letta sul taglio del finanziamento è stata una corsa per arrivare prima di Renzi? «Non ci leggo una mossa anti Renzi. Letta ha mantenuto una promessa. E poi Renzi oggi è in una posizione tale per cui qualunque cosa faccia il governo di buono, lui può rivendicarne una parte di merito». SILVIA BIGNAMI -15 dicembre 2013 La Repubblica

 

La truffa del finanziamento pubblico ai partiti

di  Roberto Perotti  su La Voce Info

 La notizia dell’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti è falsa. Con questa legge i partiti costeranno al contribuente da 30 a 60 milioni, poco meno di quanto costano ora. (Questo articolo è stato modificato alle ore 21:30 di sabato 14 dicembre 2013, un’ora dopo la prima pubblicazione. La modifica riflette un’ incertezza nell’ interpretazione della legge. Questa nuova versione assume che il decreto legge – che al momento di scrivere questo articolo non è disponibile su alcun sito ufficiale – abolisca il cofinanziamento del 50 percento delle elargizioni ai partiti. La versione precedente assumeva che il cofinanziamento sia ancora presente, e portava a una stima dei costi pià alta). GLI ANNUNCI DEL GOVERNO SONO UNA COSA LA REALTA’ UN’ALTRA Il governo ha annunciato che il finanziamento ai partiti sarà abolito interamente a partire dal 2017. La realtà è ben diversa: i partiti continueranno a pesare sul contribuente, da 30 milioni a 60 milioni, poco meno di quanto costano ora. Il motivo è nascosto tra le pieghe della legge approvata dalla Camera il 18 ottobre e riproposta nel decreto legge del governo del 13 dicembre. Con la legislazione vigente, i partiti avevano diritto a un massimo di 91 milioni di euro all’ anno: 63,7 milioni come rimborso spese elettorali, e 27,3 milioni come cofinanziamento per quote associative ed erogazioni liberali ricevute. Inoltre, il 26 percento delle erogazioni liberali ai partiti erano detraibili dall’ imposta dovuta. LE NOVITA’ PRINCIPALI DELLA LEGGE 1) elimina i rimborsi delle spese elettorali dal 2017 (li riduce del 25 percento ogni anno fino ad arrivare a zero nel 2017) 2) innalza dal 26 al 37 percento la detrazione per le erogazioni liberali fino a 20.000 euro (la stragrande maggioranza) 3) consente al contribuente di destinare a un partito il 2 per mille della propria imposta. L’ interpretazione universale è che, dal 2017, i partiti non prenderanno più un euro dallo Stato, e dovranno sopravvivere solo con contributi privati. Questa interpretazione è falsa: vediamo perché. QUANTO RICEVERANNO ORA I PARTITI? La prima cosa da notare è che i soldi ricevuti dai partiti attraverso il 2 per mille non sono un regalo deciso da privati: sono a carico di tutti i contribuenti. Il motivo è che il 2 per mille è di fatto una detrazione al 100 percento dall’ imposta dovuta. Se lo stato raccoglieva 10.000 euro in tasse per pagare sanità e pensioni, e ora un contribuente destina 1 euro a un partito attraverso il 2 per mille, tutti i contribuenti nel loro complesso dovranno pagare 1 euro di tasse in più per continuare a pagare pensioni e sanità. L’ art. 12, comma 12 della legge autorizza una spesa massima per il 2 per mille ai partiti pari a 45 milioni dal 2017. E’ plausibile che venga toccato questo tetto? Gli iscritti totali ai partiti sono probabilmente circa 2 milioni (nel 2011 gli iscritti al PdL erano 1 milione, quelli al PD mezzo milione). Non tutti gli iscritti ai partiti pagano l’ Irpef, e non tutti sceglieranno il 2 per mille. Tuttavia, dall’ esperienza analoga dell’ 8 per mille sappiamo che, quando il costo è zero, una percentuale notevole dei contribuenti esercita la scelta. Una stima prudenziale suggerisce quindi che il gettito del 2 per mille potrebbe essere tra i 20 e i 30 milioni. (1) L’ art. 11 della lege, comma 9, prevede che le detrazioni per erogazioni liberali siano di circa 16 milioni a partire dal 2016. Si noti che la legge consente di detrarre anche il 75 percento (!) delle spese per partecipazioni a scuole o corsi di formazione politicao. Nella colonna 1 della tabella sottostante assumo uno scenario prudenziale: le detrazioni saranno la metà del previsto, cioè solo 8 milioni, e il gettito del 2 per mille di 20 milioni. Il costo totale per il contribuente sarà di quasi 30 milioni. Nella colonna 2 assumo uno scenario intermedio: la previsione del governo sulle detrazioni, 16 milioni, è rispettata, e il gettito del 2 per mille è di 30 milioni. Il costo al contribuente è in questo caso è di circa 45 milioni. Nella colonna 3 assumo uno scenario normale: la previsione del governo sulle detrazioni, 16 milioni, è rispettata, e il gettito del 2 per mille è di 45 milioni. Il costo al contribuente è in questo caso è di circa 60 milioni! IL TETTO MASSIMO DEL 2 PER MILLE C’ è poi un meccanismo molto complicato, ed egualmente insensato (e quasi certamente non compreso neanche da chi ha scritto e votato la legge). Per il comma 11 dell’ art. 11, se le detrazioni per elargizioni liberali sono inferiori a 16 milioni, la differenza verrà aggiunta al tetto di spesa per il 2 per mille. Quindi di fatto in questo caso il tetto massimo del 2 per mille può arrivare a 61 milioni invece di 45. Poiché non sappiamo come reagiranno i contribuenti alla opzione del 2 per mille, questo è un modo per assicurarsi che, se c’è molta richiesta per il 2 per mille e poche elargizioni liberali, la richiesta del 2 per mille non vada “sprecata” dal tetto di 45 milioni. Si noti infine che le detrazioni per erogazioni liberali sono pratica comune, ed esistono già anche in Italia. Ma i partiti si sono elargiti detrazioni quasi doppie di quelle consentite, per esempio, per le erogazioni a università e centri di ricerca (che sono al 19 anzichè al 37 percento). Inoltre questa legge, senza che questo sia stato notato da nessuno, innalza l’aliquota di detraibilità già presente nella legge Monti. (1) Secondo Wikipedia, nel 2007 il 43 percento dei contribuenti ha effettuato una scelta ed il 37 percento ha scelto la Chiesa Cattolica, anche se la percentuale di praticanti è molto inferiore; lo 0.89 percento dei contribuenti ha scelto la Chiesa Valdese, quindi presumibilmente quasi la totalità dei contribuenti valdesi. E’ quindi probabile che la quasi totalità degli iscritti sceglierebbe di destinare il 2 per mille al loro partito, visto che il costo è 0. Per prudenza, diciamo 1,7 milioni. Di questi, non tutti pagheranno l’ Irpef. Supponiamo dunque che 1,3 milioni di iscritti ai partiti paghino l’ Irpef e destinino il 2 per mille al partito. Supponiamo che 700.000 simpatizzanti non iscritti facciano lo stesso. Nel 2011 l’ imposta Irpef netta è stata di 152 miliardi, con 31,5 milioni di contribuenti. Se i 2 milioni di contribuenti che destinano il 2 per mille ai partiti hanno la stessa composizione media dell’ universo dei contribuenti, il gettito del 2 per mille sarebbe di quasi 20 milioni. Se a devolvere il 2 per mille saranno 3 milioni, il gettito sarà di circa 30 milioni.

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29 dicembre 2013 7 29 /12 /dicembre /2013 09:06

 di BARBARA SPINELLI - La Repubblica

Fin qui abbiamo visto come in uno specchio, in maniera confusa, l'impoverirsi italiano: lo leggevamo nella scienza triste delle statistiche, delle percentuali. Ora lo vediamo faccia a faccia: è l'insurrezione formidabile, generalizzata, di chi patisce ricette economiche che piagano invece di risanare. Non è insurrezione pura, anzi il contrario. Non è collera di operai ma dei più svariati mestieri, perché tutti precipitano, anche il ceto medio che s'immaginava scampato e tanto più si sgomenta. In molte regioni il movimento è agguantato dalle mani predatrici della destra estrema, o berlusconiana, o leghista. Già sei anni fa, il Censis avvertì governi e politici: attenzione - disse - l'Italia è una "poltiglia" che ha smesso di sperare nel futuro, non potete far finta di niente. Prima ancora, fra il 2003 e il 2004, nacque la canzone che divenne emblema del sito di Grillo ed è oggi parola ricorrente del movimento 9 dicembre: "Non ce la faccio più!". Qualche mese fa sui muri di Atene comparve una scritta, contro l'Unione europea, che echeggia il nuovo antieuropeismo italiano: "Non salvateci più!". È detta rivolta dei forconi, perché volutamente rimanda alle jacquerie contadine del '300. Neppure questa è una novità. La crisi frantuma la società, il vecchio scontro fra chi nella scala sociale stava sopra e chi sotto è soppiantato dall'atroce separazione tra chi sta dentro i castelli signorili e chi è fuori: escluso, non visto, non più rappresentato, ignaro della vecchia contrattazione perché il sindacato protegge i protetti, non chi è allo sbando. Hilary Mantel, scrittrice inglese, sostiene che gli inglesi son ricaduti nel Medio Evo: "La povertà è di nuovo equiparata a fallimento morale e debolezza, e l'assistenza pubblica anziché un diritto è un privilegio". C'è di tutto, nel tumulto degli impoveriti: i piccoli commercianti che non rientrano dallo scoperto bancario, gli artigiani senza soldi per pagare le tasse e puniti dai tassi usurai praticati da Equitalia, i proletari giovanili del precariato, gli autotrasportatori, e il popolo delle partite Iva che usava evadere, che votava Lega, ed è ora sul lastrico. Non stupisce che nel movimento si attivino destre eversive come Forza Nuova o CasaPound. La Casa della Legalità a Genova sospetta infiltrazioni mafiose a Torino, Imperia, Ventimiglia, Savona. Alcuni inneggiano a governi militari, come in Grecia. Andrea Zunino, agricoltore, rappresenta solo se stesso ma si proclama leader e confessa, a Vera Schiavazzi su Repubblica, la sua ammirazione per la dittatura nazionalista e xenofoba del premier ungherese Orbàn. Si domanda, anche, come mai "5 o 6 tra i più ricchi del mondo siano ebrei". Lo sguardo lungo della storia è utile, per ascoltare e capire la storia mentre si fa. Forse più dello sguardo degli economisti, disabituati a pensare l'uomo quando dice, nel sottosuolo, "non ne posso più". Jacques Le Goff, non a caso specialista del Medio Evo, denunciò già nel '97 la nefasta smemoratezza storica degli economisti: "Una lacuna tanto più disdicevole se si pensa che la maggior parte degli stessi economisti, che hanno acquisito nelle nostre società e presso i governi europei e mondiali un'autorità spesso eccessiva e a volte ingiustificata, non hanno una buona conoscenza della storia economica e, cosa ancor più grave, si preoccupano poco della dimensione storica". Anche l'apparire di un personaggio come Pierre Poujade, negli anni '50 in Francia, sorprese le élite dominanti quando si mise alla testa di una vastissima rivolta di piccoli commercianti e artigiani fino allora trascurati. Anche quel movimento, effimero ma per alcuni anni possente, covava sporadici pensieri fascistoidi, antisemiti (il bersaglio era il premier Mendès France, "non autenticamente francese"). Gli intellettuali lo stigmatizzarono, da Roland Barthes a Maurice Duverger. Più fine e terribilmente attuale il giudizio che diede lo storico-geografo André Siegfried: figli reietti della deflazione, i poujadisti "si dibattono nel chiasso, con i gesti disordinati della gente che annega". Qui si ferma tuttavia il paragone. Poujade spuntò nell'era della ricostruzione e del Piano Marshall, a partire dal 1953. Lottava contro le trasformazioni di una crescita forte: le prime catene di supermercati che bandivano i negozi tradizionali, e le tasse innanzitutto, che dopo la Liberazione misero fine a tanti vantaggi - penuria, prezzi alti, mercato nero - accumulati in guerra dal piccolo commercio. Ben altro clima oggi: c'è deflazione, ma senza trasformazioni e senza vere rappresentanze locali. È una discesa di tutti, tranne per i ricchissimi. Forse per questo viene meno il mito della Piazza, caro a Poujade. La piazza romana divide i capi dell'odierno movimento, e i più temono infiltrazioni neofasciste. La parola che usano di più è "presidio". Importante non è sfilare davanti al centro del potere ma presidiare i propri territori, i "pochi metri quadrati di pavimento" di cui parla Kafka, su cui a malapena stanno diritti. Ma, soprattutto, quel che manca oggi alla rivolta è un'egemonia culturale e politica che la interpreti e non la sfrutti elettoralmente. Il poujadismo fu all'inizio egemonizzato dai comunisti, che presto si ritrassero. Poi fu De Gaulle ad assorbirlo. La partitocrazia esecrata dai poujadisti fu lui a spegnerla, creando una repubblica presidenziale; e poté farlo perché nella Resistenza era stato uomo senza macchia, capace di incarnare il meglio e non il peggio della nazione, di redimerla e non di inchiodarla ai suoi vizi. Non così da noi: specie nell'ultimo trentennio. Sono tante le colpe di chi ha lasciato gli impoveriti senza rappresentanza e senza futuro. "Troppo volgare è stato l'esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita", scrive Marco Revelli sul Manifesto del 12 dicembre, e pare di riascoltare l'economista Federico Caffè quando deprecava il "mito della deflazione risanatrice" e l'indifferenza dei politici, degli economisti, degli stessi sindacati, a chi questo mito lo pagava immiserendosi. Gli adoratori del mito fanno capire che non c'è niente da fare: altra medicina non esiste. Mario Monti quand'era premier invitò addirittura a rassegnarsi: una generazione è perduta. La realtà è ancora più cupa, se pensiamo che in Italia i Neet (le persone che non lavorano né studiano-Not in Education, Employment or Training) sono il 27% fra i 15 e i 35 anni, non fra i 16 e i 25 come si calcola in altre democrazie: vuol dire che stiamo parlando ormai di due generazioni perdute, non di una sola. C'è da fare invece, se si aprono gli occhi su quel che accade nei luoghi della vita (sono questi i "presìdi"), e non si trasforma la rivolta in mero affare di ordine pubblico. Se la sinistra non lascia alle destre il monopolio su una disperazione in parte poujadista e regressiva, in parte assetata di giustizia e uguaglianza di diritti. Se si tira la gente verso l'alto e non il basso; verso l'Europa da cambiare e non verso la bugia dell'assoluta sovranità nazionale. È un insulto al movimento bollarlo come fascista, ma anche abbracciarlo con euforica, ipocrita, e finta acquiescenza. Senza linguaggio di verità, inutile sperare in un'egemonia culturale che aiuti a pensare chi insorge. È quel che tenta Paolo Ferrero, quando adotta il parlar-vero e dice al movimento: in fondo la vostra è una battaglia subalterna al liberismo che combattete; è dal liberismo che attingete i vostri slogan anti-statalisti, anti-tasse, anti-sindacato. Non ha torto: molto accomuna i nuovi movimenti italiani al moderno tea party americano, oltre che al poujadismo di ieri. Meglio schiodarsi da simili modelli, se non si vuol restar prigionieri di un nazionalismo che vuol liquidare il Welfare, e che non aiuterà chi soffre la povertà e la perdita dei diritti.

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29 novembre 2013 5 29 /11 /novembre /2013 16:08

“Io, partigiana tra i piduisti”

intervista a Tina Anselmi a cura di Enzo Biagi

in “il Fatto Quotidiano” del 28 novembre 2013 (intervista a “Linea diretta” in onda su Rai 1 il 20 marzo 1985)

Signora Anselmi, come è maturata la sua decisione di combattere la dittatura di Mussolini?

L’aver scoperto nel mio Paese e in quelli vicini cos’era la dittatura e che cosa il fascismo e il

nazismo volevano portare nella nostra società. Un giorno a scuola mi obbligarono ad andare a vedere dei ragazzi che erano stati presi come ostaggi ed erano stati impiccati. Avevo 16 anni e ho incontrato la morte barbara e disumana, lì ho capito che non potevo rimanere indifferente perchénessuno di noi era più padrone della propria vita, dovevamo fare qualcosa per cambiare in meglio le cose, così, con alcuni compagni, decidemmo che fatti simili non dovevano più accadere.

I ragazzi di oggi sanno cosa vuol dire regime?

Credo poco. Molte volte mi sento dire dai ragazzi, dopo che abbiamo fatto insieme una

conversazione o un dibattito dove si è parlato della mia esperienza di staffetta: “Perché queste cose non ce le avete dette prima, perché non ci avete fatto scoprire che se non prendevate in mano il Paese voi giovani, allora diciottenni, ventenni, non vi sarebbe stato un futuro per noi?”. Allora gli italiani commisero l’errore di non ribellarsi subito al dittatore, oggi di pensare che il ventennio non possa mai più tornare.

La prima donna ministro

Signora Anselmi lei è stata la prima donna ministro, ha cominciato al lavoro e poi è passata alla sanità. Quando ha iniziato a fare politica pensava di avere tanto successo?

No, assolutamente. Ho cominciato quando c’era da rischiare facendo la partigiana, poi via via si sono aperte altre occasioni e altre possibilità.

Sono i partiti che non favoriscono l’entrata delle donne in politica o sono le donne che non si danno abbastanza da fare?

C’è una certa difficoltà a convincere le donne a entrare attivamente nella politica, questa difficoltà è dovuta anche alla durezza della selezione, alla durezza dell’impegno politico, alle difficoltà che le donne trovano nei meccanismi interni dei partiti, non tanto per potersi candidare, ma soprattutto per poter riuscire a essere elette. Questo è il vero problema. C’è anche una certa resistenza nelle stesse donne a dare la preferenza a un’altra donna, anche se poi, parlando in termini generali, la donna riconosce che ce ne vorrebbero di più in politica perché la politica possa essere fatta in modo migliore. Le donne, dottor Biagi, visto che abbiamo parlato di Resistenza, di guerra partigiana, sono state fondamentali, non lo dice solo la storia, lo dicono i militari che sono vissuti al loro fianco.

È vero che i peggiori nemici si hanno nel proprio partito?

Credo di sì.

La commissione sulla Loggia P2

Lei ha presieduto la commissione sulla Loggia P2, che è al centro di polemiche durissime. Montanelli ha scritto: “In mano alla signora Anselmi resta solo il cicaleccio di portineria”.

Vuol dirmi un po’ di questi pettegolezzi?

Non credo che quello che abbiamo fatto si possa ridurre a pettegolezzo: è l’esperienza più dura della mia vita politica.

Pensa che gli aderenti alla P2 volessero abbattere lo Stato, modificarlo secondo i loro modelli o fare degli affari e proteggere le loro carriere?

Probabilmente alcuni hanno aderito alla P2 per essere garantiti nella loro carriera, qualcuno per fare affari, ma la Loggia di Gelli non è una combriccola di malaffare, perché è presente nei servizi segreti e negli organi di informazione.

Può riassumere quelli che sono i risultati dell’inchiesta sulla P2.

Sì, certo, anche perché il Parlamento quando ne discuteremo, giudicherà anche sulla base della documentazione che abbiamo allegato alle dichiarazioni. Mi auguro che condivida il giudizio che la Commissione, a larghissima maggioranza, ha dato. La P2 è un pericolo per le istituzioni democratiche avendo occupato dall’interno centri di potere essenziali della vita del nostro Paese, al fine di deviare, di condizionare la vita politica del nostro Paese. Quando un Paese non vive nella trasparenza delle istituzioni è un Paese che rischia la condanna di non essere democratico e di avere il cittadino senza potere. Diceva John Kennedy: “Fin quando un solo cittadino si sentirà inutile quel Paese non avrà democrazia”. Bisogna che la democrazia mobiliti tutti, donne e uomini. La mia valutazione, che è stata quella della Commissione, è che c’è del torbido da togliere, ci sono delle ombre che vanno eliminate. La P2 è è evidentemente che gli obiettivi erano politici. Questo fa della P2 non solo uno scandalo, ma un fenomeno che deve essere guardato con più attenzione e responsabilità.

Avete riscontrato difficoltà?

La Commissione ha incontrato grandi difficoltà. Mi auguro che attorno al nostro lavoro tacciano le polemiche e vi sia una mobilitazione per andare oltre alla nostra indagine, che proprio a causa delle polemiche e delle resistenze politiche, non è riuscita, secondo il mio modesto parere, a chiarire tutto. Ci sono stati dei silenzi che non dovevamo subire.

Secondo lei chi erano le figure dominanti in quella associazione?

Le figure dominanti sono quelle che hanno composto il gruppo di comando: Gelli, Ortolani e altri personaggi, che rappresentano alcuni di quei silenzi di cui ho detto prima, la loro versione sulla vicenda non l’abbiamo potuta raccogliere, ma come la relazione ha detto, dietro a questi uomini c’erano certamente altre persone che si sono servite di loro.

Chi è Licio Gelli?

Un avventuriero che è riuscito ad accumulare una grande ricchezza, potere, amicizie molto solidali. Un abile direttore generale, soprattutto in tema di pubbliche relazioni, non gli darei altre responsabilità.

Perché si è sentita la necessità di rendere pubblici gli elenchi di tutti i massoni delle logge coperte?

Questa è stata una decisione presa all’unanimità dalla Commissione. Lo si è fatto, prevedendo la pubblicazione alla fine dei lavori, per due motivi: il primo perché non venisse mescolato questo secondo elenco con quello con i nominativi degli appartenenti alla P2; il secondo perché l’articolo 18 della Costituzione vieta la formazione di società segrete. La Commissione ha ritenuto doveroso segnalare la loro esistenza al Parlamento per rispetto della Costituzione. Lei sa che due mesi fa c’è stata una sentenza delle sezioni riunite della Corte di Cassazione che ha dichiarato illegittima l’appartenenza a logge segrete richiamandosi proprio all’articolo 18 e non solo alla legge di scioglimento della P2?

Quello che io trovo strano, nella vicenda P2, è che siano stati coinvolti dei politici del suo partito, questo vale anche per i comunisti e i socialisti, per i loro principi, per le affermazioni di fede in particolare per i democristiani, perché stare nella massoneria e contemporaneamente dall’altra parte lo ritengo una grande contraddizione.

Infatti, c’è un articolo dello statuto della Dc che dichiara inconciliabile l’appartenenza al partito con l’appartenenza alla massoneria.

Comunque si è usato un trattamento diverso per i politici coinvolti rispetto agli altri.

Bisognerebbe chiederlo ai responsabili dei singoli partiti. Per quanto riguarda la nostra

Commissione, noi abbiamo usato un trattamento per certi aspetti più severo nei confronti dei politici, perché sono stati sentiti in seduta pubblica, per il loro ruolo prima di tutto devono

rispondere al Paese.

Cosa pensa della fuga di Licio Gelli?

È la dimostrazione del potere che ha la P2, nonostante che qualcuno abbia tentato di minimizzarlo. Gelli e la P2 sono ancora forti, godono di troppe solidarietà, troppe complicità e la fuga dimostra che c’è chi ha interesse che Gelli non parli. La fuga gli ha permesso di sottrarsi alla Commissione oltre all’autorità giudiziaria.

Aldo Moro, Enrico Berlinguer e il partito

Il politico per lei esemplare è Aldo Moro e di Berlinguer, ha detto, conserva il ricordo di un largo sorriso. Vedeva qualcosa in comune tra questi due personaggi?

Qualcosa in comune certamente: la severità e la serietà con cui svolgevano i loro compiti, la

passione per il loro Paese. Persone che hanno cercato sempre di legare il loro partito alla storia delle masse popolari del nostro paese cercando di dare a esse un potere effettivo nelle istituzioni democratiche.

Le critiche la feriscono? Lei si è trovata al centro di tante discussioni in questo ultimo periodo.

Mi feriscono quando le critiche sono chiaramente faziose e non motivate, quando invece sono motivate, naturalmente ci rifletto perché sono convinta che nella critica può esserci un elemento di verità.

Oggi bisogna ancora resistere?

Bisogna sempre resistere, non bisogna mai dimenticare che la libertà è una conquista di ogni giorno. Senza la libertà non può esserci democrazia, e quando accade significa che i cittadini non si assumono la responsabilità. La grandezza della Resistenza è stata nel fatto che essa ha reso ognuno responsabile e questo ha portato alla libertà.

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28 novembre 2013 4 28 /11 /novembre /2013 19:38

Quando si devono fare i conti con una situazione é opportuno avere tutti gli elementi appropriati per far fronte ad essa e superarla (ndr)

 

LA TENTAZIONE sarà grande, dopo il voto sulla decadenza di Berlusconi al Senato, di chiudere il ventennio mettendolo tra parentesi. È una tentazione che conosciamo bene: immaginando d'aver cancellato l'anomalia, si torna alla normalità come se mai l'anomalia - non fu che momentanea digressione - ci avesse abitati.

Nel 1944, non fu un italiano ma un giornalista americano, Herbert Matthews, a dire sulla rivista Mercurio di Alba de Céspedes: «Non l'avete ucciso!» Tutt'altro che morto, il fascismo avrebbe continuato a vivere dentro gli italiani. Non certo nelle forme di ieri ma in tanti modi di pensare, di agire. L'infezione, «nostro mal du siècle », sarebbe durata a lungo: a c i a s c u n o t o c c a v a «combatterlo per tutta la vita», dentro di sé. Lo stesso vale per la cosiddetta caduta di Berlusconi. È un sollievo sapere che non sarà più decisivo, in Parlamento e nel governo, ma il berlusconismo è sempre lì, e non sarà semplice disabituarsi a una droga che ha cattivato non solo politici e partiti, ma la società. Sylos Labini lo aveva detto, nell'ottobre 2004: «Non c'è un potere politico corrotto e una società civile sana». Fosse stata sana, la società avrebbe resistito subito all'ascesa del capopopolo, che fu invece irresistibile: «Siamo tutti immersi nella corruzione», avvertì Sylos. La servitù volontariaa dominatori stranieri e predatori ce l'abbiamo nel sangue dal Medioevo, anche se riscattata da Risorgimento e Resistenza. La stessa fine della guerra, l'8 settembre'43, fu disastrosamente ambigua: «Tutti a casa», disse Badoglio, ma senza rompere con Hitler, permettendogli di occupare mezza Italia. Tutte le nostre transizioni sono fangose doppiezze. Dico cosiddetta caduta perché il berlusconismo continua, dopo la decadenza. Il che vuol dire: continua pure la battaglia di chi aspira a ricostruire, non solo stabilizzare la democrazia. Il ventennio dovrà essere finalmente giudicato: per come è nato, come ha potuto attecchire. Al pari di Mussolini non cadde dal cielo, non creò ma aggravò la crisi italiana. Nel '94 irruppe per corazzare la cultura di illegalità e corruzione della Dc, di Craxi, della P2, e debellare non già la Prima repubblica ma la rigenerazione (una sorta di Risorgimento, anche se trascurò la dipendenza del Pci dall'oro di Mosca) avviata a Milano da Mani Pulite, e poco prima a Palermo da Falcone e Borsellino.

Il berlusconismo resta innanzitutto come dispositivo del presente. Anche decaduto, assegnato ai servizi sociali, il leader di Forza Italia disporrà di due armi insalubri e temibili: un apparato mediatico immutato, e gli enormi (Sylos li definiva mostruosi) mezzi finanziari.

Tanto più mostruosi in tempi di magra. Assente in Senato, parlerà con video trasmessi a reti unificate.

E in campagna elettorale avrà a fianco la destra di Alfano: nessuno da quelle parti ha i suoi mezzi, la sua maestria. Monti contava su 1516 punti, prima del voto a febbraio.

Alfano solo su 8-9 punti. La scissione potrebbe favorire Berlusconi, e farlo vincere contro ogni nuova gioiosa macchina di guerra.

Ma ancora più fondamentale è l'eredità culturale e politica del ventennio: i suoi modi di pensare, d'agire, il mal du siècle che perdura. Senza uno spietato esame di coscienza non cesseranno d'intossicare l'Italia.

Il conflitto d'interessi in primis, e l'ibrido politica-affarismo: ambedue persistono, come modus vivendi della politica. La decadenza non li delegittima affatto. La famosa legge del '57 dichiara ineleggibili i titolari di importanti concessioni pubbliche (la Tv per esempio): marchiata di obsolescenza, cade nell'oblio. Sylos Labini sostenne che fu l'opposizione a inventare il trucco per aggirarla. Non fu smentito. L'onta non è lavata né pianta.

Altro lascito: la politica non distinta ma separata dalla morale, anzi contrapposta. È un'abitudine mentale ormai, un credo epidemico. Già Leopardi dice che gli italiani sono cinici proprio perché più astuti, smagati, meno romantici dei nordici. Non sono cambiati. Ci si aggrappa a Machiavelli, che disgiunse politica e morale. Ci si serve di lui, per dire che il fine giustifica i mezzi. Ma è un abuso che autorizza i peggiori nostri vizi: i mezzi divengono il fine (il potere per il potere) e lo storcono. Il falso machiavellismo vive a destra, a sinistra, al Quirinale. La questione morale, poco pragmatica, soffre spregio.

Berlinguer la pose nel '77: nel Pd vien chiamata una sua devianza fuorviante.

Anche il mito della società civile è retaggio del ventennio: il popolo è meglio dei leader, i suoi responsi sovrastano legalmente i tribunali.

Democraticamente sovrano, esso incarna la volontà generale, che non erra. Salvatore Settis critica l'ambiguità di questa formulapasse-partout: è un'«etichetta legittimante, che designa portatori di interessi il cui peso è proporzionale alla potenza economica, e non alla cura del bene comune; tipicamente, imprenditori e banchieri che per difendere interessi propri e altrui si degnano di scendere in politica», ritenendo inabili politici e partiti. Non solo: la società civile «viene spesso intesa non solo come diversa dallo Stato, ma come sua avversaria; quasi che lo Stato (identificato con i governi pro tempore) debba essere per sua natura il nemico del bene comune». ( Azione popolare, Einaudi 2012, pp. 207, 212). Così deturpata, la formula ha fatto proseliti: grazie all'uso oligarchico della società civile (o dei tecnici), la politica è vieppiù screditata, la cultura dell'amoralitào illegalità vieppiù accreditata. Il caso Cancellieri è emblematico: la mala educazione diventa attributo di un'élite invogliata per istinto a maneggiare la politica come forza, contro le regole. A creare artificiosi stati di eccezione permanente, coincidenze perfette fra necessità, assenza di alternative, stabilità.

Simile destino tocca alla laicità, non più tenuta a bada ma aborrita nel ventennio. Il pontificato di Francesco non aiuta, perché la Chiesa gode di un pregiudizio favorevole mai tanto diffuso, perfino su temi estranei alla promessa «conversione del papato». Difficilmente si faranno battaglie laiche, in un'Italia politica che mena vanto della dipendenza dal Vaticano. La nuova destra di Alfano è dominata da Comunione e Liberazione. Dai tempi di Prodi, i democratici evitano di smarcarsi sulla laicità. Tutti i leader del momento (Letta, Alfano, Renzi) vengono dalla Dc o dal Partito popolare. Diretto com'è da Napolitano, il Pd non ha modo di liberarsi del ventennio (a che pro le primarie quando è stato il Colle a dettare la linea sul caso Cancellieri?).

Permane la vergogna d'esser stati anticapitalisti, antiamericani, anticlericali (l'ultima accusaè falsa da sessantasei anni: fu Togliatti ad accettare l'innesto nella Costituzione dei Patti Lateranensi di Mussolini).

Infine l'Europa. Nel discorso ai giovani di Forza Italia, Berlusconi ha cominciato la sua campagna antieuropea, deciso a svuotare Cinque Stelle. La ricostruzione della sua caduta nel 2011 è un concentrato di scaltrezza: sotto accusa l'Unione, la Germania, la Francia. Ancora una volta, con maestria demagogica, ha puntato il dito sul principale difetto italiano: la Serva Italia smascherata da Dante.

No, Berlusconi non l'abbiamo cancellato. Perché la società è guasta: «Siamo tutti immersi nella corruzione». Da un ventennio amorale, immorale, illegale, usciremo solo se guardando nello specchio vedremo noi stessi dietro il mostro.

Altrimenti dovremo dire, parafrasando Remarque: niente di nuovo sul fronte italiano. La guerra civile ed emergenziale narrata da Berlusconi ha bloccato la nostra crescita civile oltre che economica, e perpetuato la «putrefazione morale» svelata da Piero Calamandrei.

Un'intera generazione è stata immolata a finte stabilità. La decadenza di Berlusconi, se verrà, è un primo atto. Sarà vana, se non decadrà anche l'atroce giudizio di Calamandrei.

BARBARA SPINELLI – La Repubblica

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10 novembre 2013 7 10 /11 /novembre /2013 15:27

New York non lascia indietro nessuno Bill il rosso lancia il suo manifesto

De Blasio eletto con il 73% dei voti. In agenda più tasse ai ricchi

NEW YORK - Il "big change", il grande cambiamento passa anche da questa stradina di Park Slope con gli alberi color autunno e le case pigiate una sull' altra, tinte pastello, fiori ordinati alle finestre e le decorazioni di Halloween ancora sopra le finestre. L' era degli attici appesi alle stelle su Park Avenue in stile Bloomberg è finita, il nuovo sindaco di New York, Bill de Blasio, abita qui. Davanti alla sua porta c' è solo un' auto della polizia, qualche curioso passa e scatta una foto. I vicini sorridono orgogliosi: è l' anima di Brooklyn che si prende la rivincita con l' odiata Manhattan e non è solo folclore, è il motore della vittoria. Patrick porta fuori il cane, sta dall' altra parte del marciapiede: «Da loro le luci sono rimaste accese sino a tardi: è stata una notte splendida». In fondo alla via il bar Toto, dove il neo padrone della città spesso riuniscei suoi collaboratori è chiuso: le sedie stanno rovesciate sul bancone. Monya passa con il bambino nel passeggino, indica con uno sguardo sorridente le vetrine abbassate, sospira: «È stata una notte splendida». Con la stessa, identica, frase apre la sua prima conferenza stampa da vincente anche de Blasio: «Ora siamo pronti per partire, dobbiamo metterci a lavorare. Costruiremo un governo progressista, diverso e competente per garantire la sicurezza e la salute di tutte le famiglie della nostra città». Poi aggiunge: «La forza di New York è nella diversità del suo popolo e noi la sfrutteremo, sarà la molla con cui raggiungere gli obiettivi». Poi ripete la sua parola d' ordine: «Combatterò la diseguaglianza in ogni angolo». La promessa che riassume tutto assomiglia ad uno slogan: «È l' ora di un grande cambiamento». Lo dice anche a Bloomberg che vede per un' ora durante un incontro che i due definiscono «cordiale, positivo e sereno». Il primo passo verso la nuova era è la nomina di un comitato di transizione, con tanto di sito aperto alle idee dei newyorchesi. In cima all' agenda, da tradurre subito in concreto nei primi mesi di lavoro, c' è l' aumento delle tasse ai più danarosi, in modo da finanziare le scuole pubbliche (soprattutto gli asili nido) e poi l' innalzamento del salario minimo. Adesso viene il difficile, come scrive il New York Times: «Ha scaldato gli animi degli elettori, ha parlato loro di uguaglianza ed equità facendo loro credere che siano lì ad un passo. Invece un sindaco non ha la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi: far capire loro questa cosa sarà il suo primo ostacolo», spiega l' analista politico Kenneth Sherill. A gennaio si troverà un buco di due miliardi nel bilancio, una polizia (di cui lui rimuoverà il capo: Raymond Kelly) sotto la lente dei giudici e un esercito di dipendenti comunali che aspettano l' avvento del "comunista" per avere rinnovo del contratto e aumenti salariali. Per riuscirci dovrà lavorare fianco a fianco con il governatore dello Stato, Andrew Cuomo: i due sono amici, si stimano, ma la filosofia politica li divide. E "il piano Robin Hood", come lo chiamano qui, di aumentare le tasse ai ricchi per dare ai poveri non convince il padrone di Albany, che invece in vista della sua rielezione vuole diminuire la pressione fiscale. «Ma Bill è un osso duro, imparerete a conoscerlo», spiega Lisa del suo team. L' aneddoto che usano più spesso i collaboratori risale al 2001: lui corre per una delle sue prima cariche pubbliche, cade, si frattura la caviglia ma continua la campagna porta a portae viene eletto. Testardoe deciso, lo definisce anche la moglie. Ma è anche molto bravo, come racconta il New York Times, a circondarsi degli uomini giusti. Tra i suoi consiglieri più fidati ci sono figure di grande esperienza, magari non famosi, ma autentici fuoriclasse della macchina amministrativa. Ex consiglieri di Koch e dello stesso Bloomberg, manager di aziende pubbliche, esponenti democratici di lungo corso. Saranno loro a consigliarlo, a spiegargli come sfruttare al meglio la potente onda elettorale che lo ha portato sulla poltrona di sindaco. I numeri assoluti (come ormai avviene negli Stati Uniti) sono bassi, con poco più di un milione di votanti, ma la vittoria è schiacciante con il 73.34% delle preferenze, per trovarne una simile bisogna tornare all' idolo Ed Koch nel 1985. Afromericani (95%) e latinos (85%) sono il suo zoccolo duro, mentre trai bianchiè al 52%. Ma il vero plebiscito è tra quelli che guadagnano meno di 50mila dollari, ovvero il popolo invisibile che non vede le mille luci di New York, ma vive all' ombra della soglia di povertà. Sono loro quelli che sperano nel "grande cambiamento", quelli che hanno scommesso tutto su «questo liberal audace e sorprendente», per non scivolare ancora più in basso ed avere di nuovo la certezza di un tetto e di un lavoro. Citando l' amato Dickens Bill de Blasio li rassicura: «Cammineremo come una sola città, non lasceremo più nessuno indietro». Fa quasi buio, all' angolo tra la Sesta e l' Undicesima il bar Toto accende le luci, l' happy hour inizia prima e promette giri doppi: un' altra notte splendida sta per iniziare. Poi il sogno stropiccerà gli occhi per affrontare la sfida della realtà. - MASSIMO VINCENZI

festeggia il "suo" vincitore: "De Blasio è un simbolo vivente di New York"

Lo scrittore e sceneggiatore: "Il nuovo sindaco ha una volontà sfacciata di cambiare le cose, di lui apprezzo che non ha paura
di essere molto liberal"

di ANTONIO MONDA

Paul Auster NEW YORK  -  Paul Auster è stato un sostenitore di Bill de Blasio sin dal momento in cui il nuovo sindaco ha deciso di candidarsi, e ora Auster esulta per una vittoria agognata che tuttavia non è mai stata in discussione.
Si è scritto molto dell'ascesa irresistibile di questo gigante (è alto quasi due metri) di origine italiana, delle posizioni radicali della sua gioventù, della famiglia multirazziale, del passato omosessuale della moglie, e di una piattaforma politica che ha spaventato i conservatori e inorridito i reazionari. Però, tutti questi elementi, che hanno sedotto irreversibilmente i liberal newyorchesi, sono da valutare insieme ad una personalità che riesce ad essere nello stesso tempo empatica e rivoluzionaria.
"È la caratteristica più affascinante di de Blasio", racconta Paul Auster nello studio non lontano dalla sua casa di Brooklyn. "Basta incontrarlo per riconoscerne il calore e l'intelligenza, mista a una volontà coraggiosa, quasi sfacciata, di cambiare le cose".

Che eredità lasciano Giuliani e Bloomberg, i sindaci precedenti?
"Giuliani non mi è mai piaciuto: per molti versi era un fascista e anche i risultati più sbandierati, come la diminuzione dei crimini, sono stati ottenuti con metodi per me inaccettabili. C'è poi da riflettere sul fatto che in quegli anni si sono sentiti gli effetti della Roe vs Wade, la sentenza della Corte suprema che ha legalizzato gli aborti: molti figli non voluti non sono diventati delinquenti".

Ammetterà che questa è una teoria discutibile.
"Credo che sia un dato valido quanto la soppressione violenta messa in atto da Giuliani. Per tornare ai sindaci, nessuno dei due ha parlato a tutta la città, nemmeno Bloomberg, che è stato un politico decisamente più interessante".

De Blasio ha dichiarato che sarà il sindaco del 99 per cento dei newyorchesi.
"È una battuta, ma nasconde una verità: ci sarà sempre una fascia molto ricca con cui lui sarà incompatibile. Ma mi lasci dire che sono entusiasta: è la prima volta che vince un mio candidato dopo cinque elezioni in cui ho votato lo sconfitto".

Come mai una città estremamente liberal come New York ha avuto per più di vent'anni sindaci non democratici?
"Dinkins, l'ultimo sindaco democratico, era un uomo per bene ma non aveva il polso per guidare una città così complicata. E gestì in maniera molto debole gli scontri razziali del 1991 a Crown Heights. Giuliani lucrò su quella vicenda, promettendo sicurezza e tolleranza zero. Poi, alla fine del suo mandato, ci fu l'11 settembre e prevalse un indipendente abile e miliardario come Bloomberg, che cambiò le regole per rimanere sindaco per tre mandati. C'è da dire anche che i candidati della sinistra non sempre sono stati all'altezza".

Quale sono le cose che più le piacciono di de Blasio?
"Il fatto che non abbia paura di essere molto liberal e di essere un simbolo vivente della New York odierna".

Quali saranno le sfide più grandi?
"Oltre alle normali, enormi difficoltà della metropoli, credo che tra le prima sfide ci sia quella di portare a termine il rinnovo del contratto di lavoro, trovando un accordo con i sindacati. Bloomberg non ce l'ha fatta e sarà un elemento che segnerà il suo mandato".

La destra imputa a de Blasio di non avere alcuna esperienza.
"Ha lavorato per Dinkins e Hillary Clinton: conosce dall'interno la politica. Non voglio sbilanciarmi sul suo futuro e per ora mi limito solo ad apprezzare l'ottimismo della sua volontà".

Ormai a New York solo un terzo della popolazione è bianca.
"Questo è uno dei fattori che ha segnato maggiormente questo grande successo elettorale. La città è in perenne cambiamento e de Blasio lo interpreta in prima persona. Sono sbalordito da come i repubblicani non comprendano come il mondo stia cambiando e tendano ad arroccarsi sempre di più su posizioni estremiste ed inquietanti".

Quanto è importante ancora l'identità italiana?
"Io espanderei la domanda a qualunque tipo d'identità: non credo che cambierebbe molto se de Blasio fosse greco o polacco, anche se gli italiani in città sono più numerosi. A volte ci illudiamo che le nostre radici scompaiano, e riteniamo di diventare qualcosa di altro, ma in realtà credo che il rapporto con l'identità sia sempre più forte di quanto possiamo immaginare. Non le sarà sfuggito che ieri lui abbia ringraziato anche in italiano.

 

Il sindaco rosso espugna la New York dei ricchi

COMUNISTA. Sandinista. Istigatore della lotta di classe. Marito di un' ex-lesbica. Papà di due adolescenti così orgogliosi della loro identità afro-italoamericana, da sembrare i nipotini di Jimi Hendrix e Angela Davis. Gliele hanno dette tutte a Bill de Blasio. Contro di lui hanno usato la sua giovinezza marxista, i viaggi in Urss, Cuba e Nicaragua. La famiglia multietnica e atipica. Di certo colui che si è candidato a guidare una mega-azienda come New York City (8,6 milioni di abitanti, 300.000 dipendenti municipali, 70 miliardi di budget annuo) non ha fatto la carriera del top manager. Come ex Public Advocate, difensore dei cittadini contro abusi e disservizi dell' amministrazione locale, il suo profilo è a metà strada fra il magistrato e il politico di professione. È una storia lontana anni luce dall' imprenditore miliardario Michael Bloomberg (quest' ultimo peraltro un self-made man, non l' erede dinastico di fortune altrui). Con la sua piattaforma radicale, all' insegna della lotta alle diseguaglianze, De Blasio ha voluto sfidare il dogma per cui un democratico vince solo facendo campagna al centro: fu quello il teorema di Bill Clinton, in parte seguito da Barack Obama, anche se i tentativi di intese bipartisan dell' attuale presidente sono stati regolarmente respinti da una destra oltranzista. La rivoluzione de Blasio si misura per contrasto. Perchè New York, pur essendo una città solidamente democratica (vota sempre a sinistra nelle elezioni presidenziali e congressuali), da 20 anni non eleggeva un sindaco progressista? Prima ci furono i due mandati di Rudolph Giuliani, repubblicano, poi i tre mandati di Michael Bloomberg, indipendente. Due grandi sindaci, che hanno impresso il loro segno nella rinascita di questa metropoli. Pur molto diversi tra loro, Giuliani e Bloomberg hanno proposto lo stesso contratto sociale alla città. Un equilibrio fatto di ordine pubblico ("tolleranza zero" verso la criminalità grande o piccola; crollo degli omicidi dai 2.245 del 1990 ai 418 dell' anno scorso), liberismo economico, atteggiamento "liberal" sui temi valoriali. Bloomberg piaceva a sinistra perché favorevole ai matrimoni gay, impegnato nel salutismo e nella difesa dell' ambiente (verde pubblico, piste ciclabili, aree pedonali, campagne contro il junk-food), attivo nella promozione della cultura (nuovi poli universitari e museali), coraggiosamente mobilitato contro la lobby delle armi. Ma Bloomberg non ha mai detto o fatto nulla che potesse disturbare i poteri forti del capitalismo, da Wall Street ai grandi costruttori edili. Il risultato è una metropoli tornata a risplendere, con un rinnovamento urbanistico stupefacente: 40.000 nuovi grattacieli, un ritmo di trasformazione più consono alle megalopoli delle nazioni emergenti. E 50.000 senzatetto, molti dei quali non sono disoccupati bensì lavoratori dipendenti dal reddito insufficiente per pagare un canone di affitto. Dopo vent' anni di quel contratto sociale, la Grande Mela racchiude tutto il meglio e il peggio del modello americano. Nei suoi "bor o u g h s " ( M a n h a t t a n , Brooklyn, Queens, Bronx e Staten Island) abitano ben 400.000 milionari, la più fantastica concentrazione di ricchezze del pianeta. Ma il 48,5% dei residenti vivono sotto la soglia della povertà (fissata a 30.000 dollari di reddito annuo per una famiglia di quattro persone) o nell' area della "quasi-povertà" che per il costo della vita locale si misura sotto i 46.000 dollari a nucleo familiare. De Blasio vuole un contratto sociale diverso. Nel suo programma c' è la costruzione di 200.000 alloggi popolari per contrastare la "gentrification" che sta trasformando perfino Harlem e Brooklyn in quartieri alto-borghesi. Asilinido e dopo-scuola per tutti. Un sostegno alla scuola pubblica contro i costosissimi istituti privati. Un salario "vitale" obbligatorio di 11,75 dollari l' ora, contro un minimo attuale di soli 7,25. Il tutto finanziato con un aumento delle imposte sui ricchi, compresa ovviamente la tassa sulla casa. Poiché già oggi New York contende a San Francisco la palma della città a più alta pressione fiscale degli Stati Uniti, la destra agita lo spettro di... Gerard Depardieu. Cioè una fuga dei ricchi che impoverirebbe tutti. Ma se la Grande Mela e la Silicon Valley californiana sono diventate quel che sono oggi, non è in virtù di un' attrattiva fiscale. La loro forza sta nell' essere dei formidabili bacini di talenti umani, sta nelle "sinergie culturali" che offrono un habitat favorevole all' innovazione. Sembrano averlo capito quei ceti medio-alti che hanno accolto con simpatia la sfida di de Blasio, convinti che un nuovo patto socialeè indispensabile per uscire da questa crisi. New York è un laboratorio multietnico unico al mondo: solo 33% dei residenti sono bianchi, il 29% ispanici, 23% afroamericani, 13% asiatici. È un caso estremo e tuttavia indica la direzione verso la quale si evolve l' America intera. A questa trasformazione si può rispondere, come il Tea Party, con una rivolta anti-Stato che è anche una psicosi da fortino assediato della minoranza bianca. De Blasio è certo che un' altra risposta è quella vincente.  FEDERICO RAMPINI

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