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12 marzo 2013 2 12 /03 /marzo /2013 22:41

solidarieta-civile.jpglink Wagner. Parsifal: prelude atto 1°- se clicchi con il tasto destro del mouse su LINK e con il sinistro in "apri in una nuova scheda" Leggerai l'articolo e ascolterai la musica                                                                                                                         Credetemi,  mai  il  mondo  è  stato così pacifico. Rispetto al passato l’uso della forza e i crimini sono diminuiti drasticamente, ma la percezione comune non tiene conto dei dati statistici e della realtà.

 

Il libro e l’autore. Il declino della violenza esce da Mondadori € 45. L’autore è Steve Pinkerpsicologo e neuroscienziato dell’università di Harvard.

Non fatevi fuorviare dai giornali. La preghiera laica dell'uomo modernoxè vittima di un errore di parallasse. Siamo troppo vicini ai fatti per metterli a fuoco. Guerre, omicidi, stupri: ci sentiamo soverchiati. Ma è solo perché if it bleeds it leads, se sanguina allora vende. Le buone notizie non fanno notizia.Nemmeno quella migliore di tutti, ovvero che viviamo nel periodo storico più pacifico di ogni tempo. Se ci sembra diversamente, cambiamo le lenti. Assumiamo la prospettiva lunga e ci renderemo conto che le straordinarie catastrofi di oggi sono niente rispetto all'ordinaria tregenda di ieri.

Ne è convinto Steven Pinker, psicologo e neuroscienziato a Harvard, e l'ha messo per iscritto in un tomo ponderoso dal titolo inequivoco: Il declino della violenza (Mondadori), in libreria da domani. Molto apprezzato da Bill Gates («Cambia il modo di pensare») e dal filosofo di Princeton Peter Singer («Supremamente importante»), quanto sbertucciato da Elizabeth Kolbert sul New Yorker che ha definito «confondente» l'approccioe  «ambigui» i dati che usa, come dal filosofo britannico John Gray, che non condivide affatto la tesi di fondo.

Siamo troppo vicini ai fatti  per capirli, ma la tendenza ci dice: andava meglio prima? No, molto peggio

Professore, perché ha deciso di scrivere un libro così controintuitivo? «Lavorando su testi precedenti mi ero imbattuto in dati sulla drammatica riduzione di morti violente dalle società non statali a oggi, oltre ad altri progressi come la fine dello schiavismo e l'abolizione delle pene corporali. Così quando la rivista Edge.org mi chiese "su cosa ero ottimista" risposi "sul declino della violenza". Altri studiosi commentarono, aggiungendo varie altre prove a favore.E mi convinsero che era una vicenda non molto nota, che andava raccontata».

Sfidando i manuali di storia del XX secolo e la quotidiana lettura dei giornali... «Bisogna guardare i dati. E i dati ci dicono che nelle guerre ai tempi delle società non statuali periva circa il 15 per cento della popolazione, mentre oggi non si arriva neppure all'uno. Quanto agli omicidi, siamo passati dai 110 su 100mila abitanti nella Oxford del XIV secolo all'uno della Londra di metà del XX se0colo. Per quanto riguarda i giornali, ricordiamoci che le notizie sono le cose che accadono, non quelle che "non accadono". Sino a quando la violenza non arriverà a zero, ci saranno sufficienti fatti criminosi con cui aprire il tg. Ma agli scienziati deve importare la tendenza: andava meglio prima? No, molto peggio». Lei cita sei tendenze che proverebbero il suo argomento. Ce le riassume? «La "pacificazione", ovvero il passaggio dalle società basate sulla caccia a quelle agricole, di circa 5.000 anni fa, con cui si registrò un calo di cinque volte delle morti violente. Il "processo civilizzante", tra Medioevo e il XX secolo, con cali negli omicidi tra 10 e 50 volte. La "rivoluzione umanitaria", che coincide con l'Illuminismo, in cui si formano i movimenti per abolire schiavitù, tortura, uccisioni per superstizione. La "lunga pace", dopo la Seconda guerra mondiale. La "nuova pace", dalla fine della Guerra fredda.

Sebbene qualche lettore potrà faticare a crederci, da allora conflitti, genocidi e attacchi terroristi sono diminuiti rispetto al passato. Infine le "rivoluzioni dei diritti", che hanno portato a meno violenze contro gli omosessuali, le donne, le minoranze etniche».

Usiamo l’empatia e l’autocontrollo per contrastare l’istinto di vendetta.

Quali sono stati i principali fattori pacificatori? «L'emergenza di uno Stato con il monopolio del legittimo uso della forza riduce la tentazione della vendetta. Poi il commercio, favorito dal progresso tecnologico, per cui diventa più economico comprare le merci che saccheggiarle e dove gli interlocutori diventano più preziosi da vivi che da morti, se no a chi vendi? Quindi le forze del cosmopolitismo, intese come mobilità, alfabetismo e mass media, che allargano i contatti tra le persone e rendono più facile mettersi nei panni altrui e assumere la loro prospettiva». Altrove però lei accusa il giornalismo di «distorcere la prospettiva storica per mancanza di cultura statistica». È ciò che chiamano «distorsione di disponibilità», per cui tendiamo a citare gli esempi più a portata di mano, anche se non statisticamente significativi? «La mancanza di cultura statistica è un problema serio per l'intera classe intellettuale. Dovremmo insegnarla in ogni ordine e grado. E prendere l'abitudine di verificare le nostre affermazioni al vaglio fattuale e scientifico. Il successo di libri come Pensieri lentie veloci di Daniel Kahneman, o di Moneyball di Michael Lewis o di The Signal and the Noise di Nate Silver in cui baseball e politica rispettivamente sono analizzati con metodo statistico sono segnali di speranza».

Ha fatto discutere, nella sua classifica "atrociologica", il fatto che la Seconda guerra mondiale fosse solo al nono posto quanto a numero di morti rispetto alla popolazione mentre la rivolta An Lushan nella Cina dell'VIII secolo al primo. Come spiega questa ignoranza collettiva? «Soffriamo di miopia storica: gli eventi più vicini sono più chiari, con più fatti e con ricordi più vividi. Nei secoli precedenti non avevano la Cnn. Si aggiunga che le atrocità sono spesso usate come munizioni nei dibattiti. Chi vuole criticare la modernità ha bisogno di sostenere che i peggiori episodi siano accaduti nei tempi moderni».

Lei è uno psicologo evolutivo. Nel dibattito sui ruoli di natura e cultura, in passato è sempre sembrato a favore della prima. Stavolta tiene in maggior considerazione la cultura, o sbaglio? «Credo che sbagli, anche se non è il primo a rivolgermi questo appunto. Ciò che sostengo da sempre è che la natura non può essere ignorata, che non siamo una tabula rasa. Nello specifico, il cambiamento culturale è necessario per spiegare il declino della violenza (non è passato abbastanza tempo per spiegarlo in termini evolutivi darwiniani), ma la natura umana serve per spiegare il cambiamento culturale. Abbiamo usato la cognizione, l'autocontrollo e l'empatia per contrastare l'istinto di vendetta, di dominio o di sadismo».

L’Italia nel mondo occidentale è un’isola felice. Il rapporto popolazione delitti e reati è tra i più bassi rispetto alle altre nazioni

 

RICCARDO STAGLIANÒ

 

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12 marzo 2013 2 12 /03 /marzo /2013 21:43

link   LaNG LANG – Chopin – Grande  Polonaise Brillante  - Se clicchi con il tasto destro del mouse su LINK e con il sinistro su "apri in una nuova scheda" ascolterai la musica e leggerai l'articolo

male.pngForse, più che nella psicologia individuale e sociale, quelle radici affondano nel predominio della tecnica su ogni altra dimensione dell’uomo e della società? La Repubblica, 10 marzo 2013

“Unde malum?”. Per cercare la risposta all’eterna domanda sulle origini del male, Zygmunt Bauman si concentra sul Novecento, secolo degli stermini di massa e di quell’“unicum” della storia umana che è l’Olocausto. La ricerca contenuta in questo breve testo (Le sorgenti del male, Erickson, pag. 108, euro10), riprende i temi che il sociologo polacco aveva svolto nel 1992 in Modernità e Olocausto(il Mulino), per arrivare però a conclusioni sensibilmente differenti.
Si parte dalla confutazione di alcune tesi illustri. Innanzitutto l’idea che la malvagità sia prerogativa di alcune psicologie particolari. Il male come frutto di predisposizioni naturali, del carattere “perverso” di certi individui, secondo il celebre studio di Adorno sulla “personalità autoritaria” che avvalorava l’idea di una “autoselezione dei malfattori”. Ma il pensiero in fondo consolante che solo alcune persone siano capaci delle atrocità, per cui dovremmo solo individuare i “mostri” e difendercene, non regge alla prova della storia e delle ricerche scientifiche. A dircelo sono, per esempio, gli esperimenti dello psicologo sociale Philip Zimbardo  (L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Cortina). Nel famoso “caso di Stanford” un gruppo di persone perfettamente normali è diviso tra coloro chiamati a fare i carcerieri e quelli destinati a essere prigionieri. Ed ecco che i primi subito si trasformano in sadici violenti, con una metamorfosi sbalorditiva. L’esperimento, che risale agli anni Settanta, ha trovato conferme clamorose nello scandalo dei prigionieri torturati dai soldati americani nel carcere di Abu Grahib.
Si torna allora alla “banalità del male” teorizzata da Hannah Arendt e al suo ritratto di Adolf Eichmann come persona del tutto “normale”, bravo padre di famiglia e anche amico degli animali. Con la perturbante conclusione che il male è fra noi e che chiunque, in certe circostanze e in assenza di una forza morale fuori dal comune, può diventare, da un giorno all’altro, un mostro. Ma nemmeno questo è sufficiente, perché, sostiene Bauman, siamo di fronte auna descrizione, non a una spiegazione, del fenomeno. Lo sguardo del sociologo si distoglie allora dalla Shoah e si volge ad altri fra gli eventi assurdi e terribili del secolo passato. La distruzione nell’inverno del ’44 delle città tedesche e il lancio dell’atomica su Nagasaki nell’agosto del ’45. Decisioni senza alcuna giustificazione “strategica”, ma solo ragioni “tecniche” ed “economiche”. Non c’era nessun bisogno di radere al suolo centri abitati senza fabbriche o caserme. E nemmeno, dopo Hiroshima, di tirare una seconda atomica. Quelle bombe, secondo le testimonianze degli stessi protagonisti, alti ufficiali alleati o il presidente americano Truman, furono usate per il semplice fatto che erano state costruite e non andavano lasciate nei magazzini. La macchina, una volta messa in moto, vive di vita propria.
Sulle orme delle riflessioni di Günther Anders, Bauman si concentra così sul predominio della tecnica. Arrivata a una potenza che supera l’immaginazione umana, e capace di realizzare in ogni momento le proprie potenzialità illimitate. A questo si aggiunge la perdita di sensibilità dovuta all’abitudine, come scriveva Joseph Roth in Ebrei erranti (Adelphi): «Le catastrofi croniche sono così spiacevoli per i vicini che questi ultimi diventano gradualmente indifferenti sia alle catastrofi, sia alle loro vittime, quando non sviluppano in proposito una vera e propria impazienza». Anders avvertiva: può succedere di nuovo solo perché è già successo. Del male dobbiamo dunque avere paura: far sapere agli uomini che hanno bisogno di essere sempre in allarme «è il compito morale più importante dei nostri giorni».

di Leopoldo Fabiani domenica 10 marzo 2013

 

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9 marzo 2013 6 09 /03 /marzo /2013 21:05

ford-Richard.jpg link Beethoven - Egmont ouverture - Se clicchi con il tasto desgro del mouse du LINK e con il sinistro su "apri in una nuova scheda" ascolterai la musica e leggerai l'articolo.

Un bambino, l'esilio e "l'estrema fortuna" di perdere tutto.
È il nuovo romanzo del premio Pulitzer.

Alla fine della vita un uomo fortunato può contare un pugno di amici. Io, per esempio, potrò nominare Paolo, Giorgio, John Irving, Philiph Roth. E Richard Ford. L'ho conosciuto ai tempi de L'estrema fortuna. Mi hanno scaldato i suoi Incendi. Ho condiviso con lui Infiniti peccati, ma soprattutto la vita così universale di Frank Bascombe, giornalista sportivo che diventa agente immobiliare (da Sportswritera Indipendence Day). Tuttavia Ford rimane un prodotto americano: sa di spazi eppure riesce a chiudere mondi in una frase. Quando leggo i suoi libri metto molte "orecchie" alle pagine. Per lo più segnalano frasi icastiche alla fine di un capitolo. Una l'ho ricopiata su un cartone e incorniciata davanti al letto della casa dove abito. Dice: «Ho affrontato la rovina. Ho evitato il rimpianto. E sono ancora qui a raccontarlo». Lui parla esattamente di questo: come ricomporre le vite dopo che, inevitabilmente, si sono spezzate. Succede anche nel suo ultimo romanzo, Canada (Feltrinelli, traduzione di Vincenzo Mantovani).
È noto: ogni scrittore tende a fare variazioni sul tema, tutta la sua opera ruota intorno a un fulcro, una situazione chiave che fa da motore per ogni trama. Per Richard Ford è lo spaesamento. Quando la tua donna ti ha lasciato, il tuo migliore amico ti ha tradito, le tue speranze sono nel retrovisore, allora comincia L'estrema fortuna. Anche Frank Bascombe è spaesato, traumatizzato dalla morte del figlio, impossibilitato a condividere altro che questo dolore con la moglie e quindi costretto al divorzio, in via di separazione anche dal proprio lavoro. La versione cinematografica di questi personaggi sarebbe il magnifico Robert Redford dei Tre giorni del condor, il sedentario impiegato della Cia che trova i colleghi morti ammazzati al rientro dalla pausa caffè, capisce di non potersi più fidare dell'agenzia, degli amici, di nessuno e ripone la fiducia in una sconosciuta che fotografa panchine vuote. La sua estrema fortuna.
Ho affrontato la rovina. Ho evitato il rimpianto. E sono ancor qui a raccontarlo

Anche Canada ha un protagonista spaesato, un ragazzino che i genitori abbandonano nel modo più improbabile: pur rispettabili, vanno a fare una rapina in banca e si fanno arrestare. Sottolineatura di pagina 9: «Comunque, dare ai genitori la colpa delle difficoltà della propria vita alla fine non porta da nessuna parte». Così è: interi capitoli di storia sono costruiti su questo alibi, ma la storia è nostra, nostra è la responsabilità. Qualunque sia l'evento che ci colpisce: un lutto come un abbandono. C'è il trauma, ma c'è la reazione. E quella, siamo noi. Non il Dna, non la stirpe che ci ha preceduto. Siamo il movimento che sappiamo imprimere al percorso della nostra vita, non l'inerzia a cui la releghiamo, giacché (sottolineatura di pagina 304): «Le cose accadono quando le persone non stanno al loro posto, e il mondo va avanti e indietro in base a questo principio». Esattamente e semplicemente così. L'ordine delle cose è anche la loro morte. L'evoluzione delle sorti è determinata da uomini fuori posto.
Fidel Castro incontra il dottor Ernesto Guevara su una terrazza argentina e nasce la rivoluzione cubana. Un marito convince la moglie casalinga ad accompagnarlo nel North Dakota per una rapina e i loro figli non cresceranno più come ogni altro bambino. Saranno spaesati, indotti a cercare nell'oscurità l'abbraccio reciproco, proibito ma salvifico per il tempo necessario a scavalcare il precipizio della solitudine. Dopodiché, la sorella se ne andrà, il ragazzino resterà ancora più solo e verrà portato da un'amica di famiglia oltre il confine, in Canada, per essere affidato a uno sconosciuto.
Il Canada è il metaforico territorio dell'esilio. È una distesa spopolata, dove non c'è casa, non c'è famiglia, non c'è futuro. Non fosse che il futuro è la vita stessa, giorno dopo giorno dopo giorno. Il Canada è un luogo dove tutti, prima o poi, passiamo (o finiamo). È la terra delle incertezze, dove rimettere insieme quel poco che ci resta alla fine del tornado. E quel poco, solitamente, non è altro che: un corpo, la volontà di esserci nonostante tutto, la capacità di immaginare oltre. Quella che chiamiamo maledizione è, a guardarla con occhio disincantato, proprio l'estrema fortuna. Condor diventa un genio inafferrabile. Il ragazzino cresce, ragiona, si salva. Lo sconosciuto che lo accoglie gli fa un domanda chiave e gli dà una risposta. È la sottolineatura di pagina 103: «Cosa significa avere un senso? Significa che accetti le cose. Se capisci, poi le accetti. Se le accetti, capisci».

Dare ai genitori la  colpa delle difficoltà della propria vita non porta da nessuna parte. Chi ti ha detto che quella vicenda sia una disgrazia? Ci conviene eventualmente comprendere (in tutti i sensi) quale parte nostra non vitale ha giocato nella vicenda.
Tutto quel che Richard Ford ha scritto ruota intorno a questi due temi: spaesamento/accettazione. L'una come superamento dell'altro. Alla fine del romanzo il ragazzino, divenuto un anziano professore, invita i suoi allievi a «non cercare troppo accanitamente significati nascosti od opposti - anche nei libri che leggono - ma a guardare nel modo più diretto e possibile le cose che possono vedere alla luce del giorno. Nel processo di spiegare a te stesso le cose che vedi, riuscirai sempre a trovarvi un senso e a imparare ad accettare il mondo».
Non c'è altro. Siamo qui, sperduti in Canada, io che leggo Ford, tu che leggi me che ho letto Ford, e non è colpa di nessuno: è stato e basta. Accettarlo è il solo modo di capirlo. Capirlo è il solo modo di andare avanti. Affrontando la rovina. Evitando il rimpianto. Continuando a raccontare.

 

Gabriele Romagnoli

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1 marzo 2013 5 01 /03 /marzo /2013 17:35

solidarieto-1.jpglink   Beethoven - Primavera - Se clicchi con il tasto destro del mouse su LINK e con il sinistro su "apri in una nuova scheda". Potrai leggere l'articolo e ascoltare la musica.

Consiglio di andare a leggere l'articolo: Per pensare, riflettere e vivere meglio del 27/11/2012 

 

Chi desidera un bene oggi non deve seguire regole o principi, ma solo avere la somma necessaria all´acquisto. Frenare il predominio globale del profitto sarà possibile solo se impareremo a muoverci insieme agli altri Il sociologo riflette sulla nostra epoca che non è più quella delle grandi crudeltà ma delle cattive azioni invisibili fatte per egoismo e solitudine


Esiste un tipo di male visibile e clamoroso, capace di catturare schiere di ammiratori o di artisti attratti dalla circostanza che esso, costituendo una violazione delle regole, è molto più affascinante del loro rispetto. Eppure, nonostante il clamore, questo tipo di male "spettacolare" è molto meno interessante di quel male "basso" che attraversa la nostra esistenza quotidiana, e che, come la lettera rubata di Poe, non riusciamo a vedere proprio perché è di fronte ai nostri occhi. Del resto è evidente che ogni "grande" male, per poter conquistare tutta la scena, deve poter contare su una larga complicità, saper attivare un virus latente all´interno della nostra vita di ogni giorno. E´ questo "basso continuo" che ci interessa, questo male diffuso ed intrecciato alla nostra connivenza, alla rassicurante apparenza della "normalità". Senza intercettare questi percorsi sottotraccia del male si corre il rischio di guardarlo da lontano, come se fosse estraneo a noi e alle nostre debolezze.
Ad Hannah Arendt va riconosciuto il merito di aver saputo cogliere, in un libro diventato famoso, questa dimensione "bassa" e normale del male, la sua banalità. Seguendo le sedute del processo ad Eichmann, Arendt rimase sorpresa: il massimo responsabile organizzativo dell´Olocausto non era una riproduzione in miniatura di quel campione del male che fu Hitler, ma un uomo scialbo ed insignificante, che si difendeva sostenendo di essersi limitato ad eseguire nel modo più solerte e scrupoloso ordini superiori. Il male non è lontano dalla normalità, ma spaventosamente intrecciato ad essa. Eichmann, dice Arendt, era un "cittadino ligio alla legge", costantemente teso a riscuotere l´approvazione dei suoi superiori. Ed è stato questo richiamo alla fedeltà all´ordine e agli ordini superiori che ha consentito a lui e ai suoi concittadini di occultare anche a se stessi il male che stavano facendo ad altri. Nello stato totalitario le grandi qualità dell´efficienza e dell´ordine si sono trasformate in incubatrici del male. Quest´ultimo, nel terzo Reich, "aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è - la proprietà della tentazione". Il totalitarismo produce un inquietante rovesciamento delle parti; laddove il male è ordinario e banale è il bene che diventa una tentazione: "Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero essere tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa, (…) di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni" (156-157).
Ma per fortuna il totalitarismo, la dismisura dello Stato, almeno in Europa, è alle nostre spalle. Resta però da chiedersi: insieme con il totalitarismo è scomparso, come pretendeva Fukuyama, anche il male, oppure esso ha assunto un´altra forma, ugualmente invisibile e "banale", che non riusciamo a vedere perché è strettamente intrecciata alla nostra normalità? Del resto in questi anni non sta diventando sempre più evidente che alla dismisura dello Stato sta succedendo quella del mercato e del danaro? E se questo passaggio è realmente in corso, perché facciamo fatica a resistere ad esso, che cosa ci rende complici, o almeno collaborazionisti di questa dismisura?
La risposta, al fondo, è meno difficile di quanto si possa immaginare. Come a suo tempo ha sottolineato Marx e poi in modo più diffuso Simmel, tra l´espansione del ruolo del danaro e quella della libertà individuale esiste una correlazione fortissima. Il danaro possiede la straordinaria capacità di incrementare la libertà dell´individuo, perché chi desidera un bene oggi non deve più chiedere l´autorizzazione a nessuno, seguire regole o principi, ma solo possedere la somma necessaria per acquistarlo. L´individuo è la massima potenza relativistica, che si libera da tutte le soggezioni personali e normative consegnandosi all´unica soggezione del danaro. Espansione della libertà individuale ed espansione della forma danaro sono quindi due facce della stessa medaglia: da un lato il danaro favorisce la dissoluzione di tutti i legami che frenavano la libertà individuale, dall´altro l´espansione di quest´ultima richiede la smisurata estensione della forma danaro e del mercato.
Il mondo nel quale l´individuo e l´individualismo si diffondono è quindi lo stesso in cui un´area vastissima di relazioni, esperienze e prestazioni precedentemente escluse dalla sfera dell´universale scambiabilità (la cura, il corpo, gli affetti, l´attenzione per l´altro, ecc.) diventano merci. Anche in questo caso è la dismisura, lo strapotere di una forma, ad occultare la realtà: un mondo in cui tutto è in vendita altro non è che l´organizzazione quotidiana e sistematica della tentazione. La famosa massima di Oscar Wilde: "a tutto so resistere tranne che alle tentazioni" ha perso il suo carattere trasgressivo ed è diventata banale, la regola imperante in un mondo affollato da miriadi di piccoli Wilde.
Non può quindi destare meraviglia che in questo mondo di individui "liberi" il capitale finanziario divenga la forma universale di connessione sociale, il luogo di concentrazione di un potere capace di governare il destino di un´enorme massa di esseri umani. Individuo e capitale finanziario possono conoscere momenti di conflitto, ma, essendo, come si è detto, due facce della stessa medaglia, sono legati a filo doppio. Mentre l´individuo erode, dal basso, ogni legame non volontario, il moto perpetuo del capitale finanziario erode, dall´alto, tutte le istituzioni fondate su principi diversi da quello dell´incremento dei profitti. L´individuazione di questa connessione tra individualismo radicale e dominio del capitale finanziario, che sfugge a gran parte della cultura laica, ci fornisce un´indicazione anche se solo iniziale su come agire. Negli ultimi mesi e a partire dagli Stati Uniti, la necessità di riportare sotto un controllo comune il capitale finanziario sembra essersi fatta spazio nella coscienza dei movimenti giovanili. Ma il passaggio non sarà né facile né lineare: frenare il predominio globale del capitale finanziario sarà possibile solo se l´individuo saprà uscire dalla sua forma attuale ed imparerà a muoversi insieme agli altri individui, a costruire prospettive nuove e parametri alternativi rispetto a quelli dominati dalla connessione tra individuo e danaro, senza cadere in altre dismisure, nella trappola di comunità chiuse e contrapposte tra loro. E´ un processo lungo, impegnativo e difficile, che ci chiederà di guardare in modo diverso anche ciò che amiamo. Ma capire quanto intricato e doloroso sia il nodo che si vuole sciogliere è la premessa di ogni vero cambiamento.  

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1 marzo 2013 5 01 /03 /marzo /2013 16:44

senso-civico.jpglink Verdi - Nabucco - Ouverture. Se clicchi con il tasto destro del mouse su LINK e con il sinistro su "apri in una nuova scheda. Ascolti la musica e senti gli interventi.

E' piacevole trovare qualcuno che ci fa comprendere  la situazione attuale o meglio cosa conviene cambiare per uscire dai nostri problemi che non sono solo economici. Non sempre tutte le indicazioni si condividono (a posteriori é facile criticare), ma il ragionamento è sempre stimolante.

 

Michele serra

http://video.repubblica.it/dossier/movimento-5-stelle-beppe-grillo/elezioni-2013-serra-m5s-una-rivoluzione-come-nel-68/120849/119334

 

Storia sintetica della cultura italiana

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-9895b202-a581-4a43-82b6-852791024352.html

 

 

 

 

 

 

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28 febbraio 2013 4 28 /02 /febbraio /2013 21:34

  

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cervello.jpg

link Verdi - Nabucco . OuvertureSe clicchi con il tasto destro del mouse su LINK e con il sinistro su "apri in una nuova scheda" ascolterai la musica e potrai leggere l'articolo                                                                                                                   "Il cervello non può essere replicato":
uno studio ridimensiona i computers

"Le macchine non diventeranno mai umane, ma noi assimileremo la tecnologia". Uno studio della Duke University risponde in maniera contraria a decenni di ricerche e applicazioni dell'intelligenza artificiale. E aggiunge: "Non sarà un calcolatore a cambiare il mondo"

NIENTE DA FARE a quanto sembra, e nonostante tentativi importanti per impegno e tempi. Lo studio del professor Miguel Nicolelis, uno dei principali nomi della neuroscienza alla Duke University, è laconico: il cervello umano non è replicabile in forma digitale. Le macchine non diventeranno mai umane, anzi saremo noi ad assimilare la tecnologia, anche fisicamente. E soprattutto la "singolarità" teorizzata da Ray Kurzweil, ora numero uno degli ingegneri di Google, non accadrà mai.

IMMAGINI: SUPERCOMPUTER DA HAL ALLA IBM

Per singolarità, Kurzweil intende quel momento in cui un'intelligenza artificiale supererà quella dell'uomo, e inizierà il suo processo di cambiamento del mondo, in modi che gli umani non potranno comprendere ma solo accettare. Uno scenario cinematografico da Terminator, in cui la rete informatica Skynet controlla e comanda su tutto. Secondo Kurzweil, prima o poi saremo in grado di riversare i nostri pensieri in apposito hardware, con apposite applicazioni Ma per Nicolelis non c'è pericolo: "Quella teoria è aria fritta" , dice lo scienziato, autore di molti studi sulle interfacce cervello-macchine.

La sfida di visioni avviene al vertice della categoria. Mentre Kurzweil lavora alla sua mente elettronica nei laboratori di Mountain View, compiendo esplorazioni retoringegneristiche sul funzionamento del cervello. E intanto Nicolelis smonta ogni sua teoria. Alla base del dibattito ci sono gli studi sulla effettiva sovrapponibilità dei funzionamenti del cervello e di un computer. Secondo diversi scienziati in teoria le due entità sono assimilabili, teorizzando l'esistenza di un calcolatore potente quanto serve per replicare i meccanismi del cervello, una volta che questi siano stati completati. Gli argomenti di Nicolesis si spostano dai meri calcoli però, per abbracciare il concetto di consapevolezza.

Se Kurzweil osserva i trilioni di collegamenti neuronali, Nicolesis invece punta sull'imprevedibilità di questi collegamenti, a seconda di cosa accade in quel momento. "Non si può prevedere l'orientamento di Borsa, perché neanche con tutti i computer del mondo si può ricreare una coscienza", osserva lo scienziato. Ma entrambi concordano nella visione secondo cui la tecnologia diventerà parte del nostro corpo, per cui sono già disponibili "ricambi" ed estensioni bioniche di ogni tipo. E per cui arriveranno a breve sensori che funzioneranno in simbiosi con il cervello, già in via di sperimentazione. Che aumenteranno le capacità dei nostri sensi, e potranno arrivare a donarcene di nuovi.

(28 febbraio 2013)

 

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9 febbraio 2013 6 09 /02 /febbraio /2013 17:53
 giovani-disoccupati.jpglink    Borodin - Nelle steppe dell'asia centrale. Cliccate con il tasto destro del mouse su LINK e con il sinistro su "apri in una nuova scheda" ascolterai la musica e potrai leggere il breve articolo
Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo.
Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza.
 
Antonio Gramsci
 
Con la disoccupazione dei giovani  in Italia siamo  al 37% . 1 su 3 non trova lavoro e in Europa (tra i ragazzi dai 15 ai 24 anni)  siamo all’11,1 %. Quelli che per dire trovano lavoro in Italia, perché molti vanno all’estero in altre nazioni a trovare una possibilità concreta di lavoro e di vita,  sono trattati a pesci in faccia con una retribuzione di 300-400 euro quando sono pagati, altrimenti lavorano gratis.
  L'unico consiglio è che devono trovare forme di collegamento e di incontro per organizzarsi collettivamente, a seconda della loro condizione sociale, economica  e far sentire la loro voce e le loro proposte. Individualmente c’è solo spazio per la frustrazione, la depressione, la  rabbia, la  protesta senza sbocco. Come dimostra la crisi economica e l’impronta ecologica – il giorno in cui le economie hanno esaurito le risorse rinnovabili-  (l’anno scorso il termine è scaduto ad agosto e si  sta accorciando di più ogni anno che passa) non hanno grandi prospettive. Gli adulti lasceranno loro una pesantissima situazione  economica e sociale e una  eredità che solo in gruppo possono affrontare e a cui  trovare una soluzione.
E'il momento di rifarsi a:

 

John Kennedy: Miei cittadini non chiedete cosa il vostro paese può fare per voi: chiedete cosa voi potete fare per il vostro paese.

Don Milani: uscirne insieme è politica, uscirne da solo è avarizia

 

    Ecco la lettera di un giovane a Michele Serra:
  Egregio Serra, ho ascoltato Carlo Pertrini e Salvatore Settisintervistati da Fazio , condivido in pieno leloro tesi ma non le ritrovo esplicite nei programmi elettorali. Hanno parlato di bene comune, di consumo del suolo, di impronta ecologica, di alimentazione e di relativo vergognoso spreco, di rispetto dell'ambiente, che non é solo nostro, ma delle prossime generazioni. Nel suo ultimo libro Settis afferma." il Neoliberismo ignora l'amore per i più lontani in tutte le sue forme, propugna invece l'amore per sè stessi, per un presente caduco che sfuma e inciampa in un labile futuro".      inoltre:   noi stiamo prendendoa prestito capitali delle generazioni future, senza intenzione e sprefranza di rimborsare alcunché" (Commissione Brundland). Non basta questo per creare indignazione, in particolare dei giovani? non sarebbe ora che questa crisi diventasse la presa di coscienza che la natura é infinita, che il PIL non misura il benessere, che le attuali ingiustizie sociali sonoinamissibili e che é ora di cambiare radicalmente? altro che riformatori, qui occorrono dei rivoluzionari!     Amedeo Piccini
Caro Piccini, è vero, il nostro modelloeconomico-sociale é al collasso e  occorrono dei rivoluzionari. Ma quelli che ho conosciuto, nella mia ormai non breve vita, non mi ispiravano fiducia. Erano veementi nelle analisi e sbrigativi nei giudizi. E soprattutto, una volta sfumata nel nulla la loro presunzione di cambiare tutto, il cinismo li ha fatti diventare reazionari: il centro destra italiano pullula di ex rivoluzionari. Ma siccome lei ha ragione, e bisogna cambiare tutto, e buttare all'aria il vecchio, decrepito malfunzionante ordine economico, e ricostruire una gerarchia dei valori totalmente nuova, che dobbiamo fare, in cosa dobbiamo sperare?Mettiamola così: anche i rivoluzionari devono essere completamente nuovi. Non arrognti, non violenti, perché lo è gia il potere. Razionali, rispettosi della realtà, perchè la sola maniera  di ribaltarla, la realtà è conoscerla- E poi umili, perché "nessuno nasce imparato", e rispetto al paesaggio politico che si stà davanti, l'umiltà intellettuale sarebbe davvero una rivoluzione clamorosa. Ma soprattutto: ho la netta sensazone che avesse ragione chi, in anni remoti, diceva che la rivoluzione deve avvenire dentro di noi (siate il cambiamento che voi chiedete algli altri - Ghandi). Specie se è l'ambiente (cioè il rapporto con le merci,con i consumi, con lo spazio e il tempo, con il lavoro, con il denaro) il vero fronte di lotta, e di mutamento socio-economico, allora ognuno di noi dovrebbe ripensare a come vive, come spende, che obiettivi di vita ha davvero. E quella dentro se stessi é senza ombra di dubbio la rivoluzione più complicata da fare. Michele Serra
 Baggio.jpg  

Baggio legge la lettera a San Remo

http://video.repubblica.it/dossier/sanremo-2013/baggio-a-sanremo-il-messaggio-di-aung-e-l-appello-ai-giovani/119541/118021

 Roberto Baggio da San Siro a Sanremo restando un Campione

Chi non ha esultato per un goal di Roberto Baggio? Vuoi per la Nazionale vuoi per una squadra di club, tutti almeno una volta abbiamo esultato per quella palla di cuoio dentro la rete.

Non sono un tifoso di calcio, questo mi rende neutrale nell’esprimere tutta l’ammirazione verso un uomo che – al pari di pochissimi altri – può vantare il titolo di “Campione” dentro e fuori l’ambito sportivo.

La lettera che Roberto Baggio ha letto, durante una serata del festival di Sanremo, è una delle pagine più belle nel rapporto pedagogico tra: adulto e giovane.

Questo il testo che lascio ad una Vostra attenta riflessione.

A tutti i giovani e tra questi ci sono anche i miei tre figli.
Per vent’anni ho fatto il calciatore. Questo certamente non mi rende un maestro di vita ma ora mi piacerebbe occuparmi dei giovani, così preziosi e insostituibili. So che i giovani non amano i consigli, anch’io ero così. Io però, senza arroganza, stasera qualche consiglio lo vorrei dare. Vorrei invitare i giovani a riflettere su queste parole.

La prima è passione.
Non c’è vita senza passione e questa la potete cercare solo dentro di voi. Non date retta a chi vi vuole influenzare. La passione si può anche trasmettere. Guardatevi dentro e lì la troverete.

La seconda è gioia.
Quello che rende una vita riuscita è gioire di quello che si fa. Ricordo la gioia nel volto stanco di mio padre e nel sorriso di mia madre nel metterci tutti e dieci, la sera, intorno ad una tavola apparecchiata. E’ proprio dalla gioia che nasce quella sensazione di completezza di chi sta vivendo pienamente la propria vita.

La terza è coraggio.
E’ fondamentale essere coraggiosi e imparare a vivere credendo in voi stessi. Avere problemi o sbagliare è semplicemente una cosa naturale, è necessario non farsi sconfiggere. La cosa più importante è sentirsi soddisfatti sapendo di aver dato tutto, di aver fatto del proprio meglio, a modo vostro e secondo le vostre capacità. Guardate al futuro e avanzate.

La quarta è successo.
Se seguite gioia e passione, allora si può parlare anche del successo, di questa parola che sembra essere rimasta l’unico valore nella nostra società.

Ma cosa vuol dire avere successo? Per me vuol dire realizzare nella vita ciò che si è, nel modo migliore. E questo vale sia per il calciatore, il falegname, l’agricoltore o il fornaio.

La quinta è sacrificio.
Ho subito da giovane incidenti alle ginocchia che mi hanno creato problemi e dolori per tutta la carriera. Sono riuscito a convivere e convivo con quei dolori grazie al sacrificio che, vi assicuro, non è una brutta parola. Il sacrificio è l’essenza della vita, la porta per capirne il significato. La giovinezza è il tempo della costruzione, per questo dovete allenarvi bene adesso. Da ciò dipenderà il vostro futuro. Per questo gli anni che state vivendo sono così importanti.

Non credete a ciò che arriva senza sacrificio. Non fidatevi, è un’illusione. Lo sforzo e il duro lavoro costruiscono un ponte tra i sogni la realtà.Per tutta la vita ho fatto in modo di rimanere il ragazzo che ero, che amava il calcio e andava a letto stringendo al petto un pallone. Oggi ho solo qualche capello bianco in più e tante vecchie cicatrici. Ma i miei sogni sono sempre gli stessi. Coloro che fanno sforzi continui sono sempre pieni di speranza. Abbracciate i vostri sogni e inseguiteli. Gli eroi quotidiani sono quelli che danno sempre il massimo nella vita.

Ed è proprio questo che auguro a Voi ed anche ai miei figli.
Roberto

  IL REDATTORE

L’ economia neoclassica, la scuola di Chicago, Milton Friedman  considerano l’uomo come soggetto dedito  esclusivamente al massimo tornaconto e parlano di homo  oeconomicus.     Questo concetto ha trovato una convinzione diffusa  nella nostra  società del consumo, dell’individualismo (vedi l’articolo del blog: “Per pensare, riflettere e vivere meglio”), dove il denaro è  diventato lo scopo del vivere non un mezzo. Si tratta  di uno formidabile specchietto per le allodole di questa società che si basa molto sull’apparenza. Lo constatiamo nella vita  di ogni giorno dove  si studia o si lavora, ma  ci svaghiamo con la musica, il teatro, il cinema, l’opera;   ci piace passeggiare e a camminare in montagna o in mezzo al verde. Ci rechiamo in gita per svagarci o a visitare posti interessanti e belli; ci appassioniamo all’ arte in tutte le sue espressioni;  coltiviamo un hobby;  pratichiamo uno sport o ci piace andare in palestra , a ballare o in piscina; stiamo bene con  amici e conoscenti; leggiamo, ci informiamo, ci acculturiamo, c’è chi fa volontariato in varie forme  ecc. ecc. Agiamo non solo per interesse  economico, ma ricopriamo molti ruoli in base a una pluralità di interessi e curiosità; ci spingono le relazioni;  ci emozioniamo di fronte a un bambino ad eventi naturali, come un bel tramonto o una giornata al mare; siamo soddisfatti di ciò che riusciamo a realizzare e di quello che ci scambiamo nelle varie relazioni  e così via. Non si tratta di essere seriosi, pensierosi, pesanti ma di fare una vita reale, autentica che si basa il più possibile sulla leggerezza, sul sorriso, sulla comprensione e su tutto ciò che è umano, sapendo che ognuno di noi ha dentro si sé cose vitali e non vitali e quindi non dobbiamo sempre essere lancia in resta contro tutte le altre persone, ci conviene essere pazienti con noi stessi e con gli altri e dobbiamo essere il cambiamento che chiediamo agli altri (Ghandi). Questa storia di incasellarci solo in una visione  economica  ci imprigiona in una sola dimensione, ci ruba la vita e quello che realmente siamo, mentre  ogni giorno facciamo cose svariate  e siamo diversi a seconda delle  molteplici situazioni in cui veniamo a trovarci. E’ bello avere un figlio perché si cresce assieme a lui e si imparano da lui molte cose, anche gli errori che facciamo e che loro, a loro volta hanno diritto di fare. Non conta cadere, ma cosa facciamo ogni volta che ci troviamo per terra, se ci rialziamo  e continuiamo nella nostra strada come dice Ghandi:  “Non seguite la via tracciata, ma quella che è dentro ognuno di noi, senza paura”

Le seguenti espressioni che sono un regalo di  mio figlio:

Danzacome se nessuno potesse vederti.

Cantacome se nessuno potesse sentirti.

Amacome se non fossi stato mai ferito prima.

Vivicome se il paradiso fosse in terra.

Ho deciso di essere felice perchè questo è bene per la mia salute.

Queste invece le ho trovate in un libro:

L’adesso è l’unico tempo che esiste e, quale sia la sfida che vi trovate ad affrontare, date ciò di cui siete capaci (nessuno vi chiede di più di ciò che siete in grado di dare) per far fronte alla situazione così com’è adesso. Se riuscite a cogliere l’opportunità, la potenzialità, la vita e ad assumervi la responsabilità che incontrate oggi, potrete far fronte a quelle che verranno domani. Che le abbiate affrontate o no, quelle di ieri sono passate, non sono più in vostro potere; quelle di domani non dipendono da voi; quindi non date loro energia: usate la vostra energia per gli eventi di oggi.

Se facciamo della gratitudine una pratica quotidiana per ciò che abbiamo e siamo, essa potrà aprirci la mente alle cose positive che ci circondano e diventerà facile  vedere il successo e l’abbondanza, in risposta a tutte le necessità, ma non all’avidità. Quindi sviluppiamo una coscienza dell’abbondanza in sostituzione della coscienza di povertà e della sensazione che ci manchi sempre qualcosa.

     

   
 
 
 
 
 
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24 gennaio 2013 4 24 /01 /gennaio /2013 10:47
                             
economia-crisi.jpg
OECD: USA e EUROPA. Questa tabella é superata: le ultime previsioni prevedono che nel 2040 l'economia  della Cina supererà quella degli USA.Il discorso di politica economica non può che essere gestito a livello di Europa. L'Italia (la padania fa sorridere) non può da sola andare da nessuna parte.
    link   Alexander Scriabin - Le Poème de l'extase opus 54   Se clicchi con il tasto destro del mouse su LINK e con il sinistro su "apri in una nuova scheda" potrai ascoltare la musica e leggere l'articolo       
   «Nell'uscire dalla grande crisi abbiamo dimostrato la nostra resilienza», ha detto Barack Obama nel discorso dell'inaugurazione. «Dinamismo resiliente», è la nuova parola d'ordine lanciata quest'anno al World Economic Forum di Davos. Se l'America "resiliente" è uscita per prima dalla recessione fra le economie occidentali, c'è una ricetta che l'Europa può imparare? Che cosa si nasconde dietro questo neologismo che dilaga tra economisti, sociologi, guru delle nuove tecnologie? C'è chi suggerisce di adottarlo come nuovo obiettivo anche nella tutela dell'ambiente: la "resilienza" è ancora meglio della sostenibilità.
   Per una volta non stiamo importando anglicismi. Resilienza esiste in italiano, anche se viene prevalentemente usato in campi diversi dall'economia. Per gli ingegneri descrive la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi. Per gli psicologi è la risorsa che consente un recupero più rapido dopo una depressione, aiuta a superare traumi e dolori. In ecologia riassume una forza intrinseca degli ecosistemi: la predisposizione a ritrovare l'equilibrio dopo uno shock esterno. Non è difficile intuire perché questo concetto abbia cominciato ad affascinare gli economisti. Siamo appena usciti - in America, non ancora in Europa - dal più grave "shock sistemico" che abbia mai colpito l'economia mondiale dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. Capire che cosa ci rende "resilienti" di fronte a questo genere di catastrofi, può essere essenziale per evitarle in futuro. O meglio: per ridurre i danni, sociali e umani, quindi ripartire al più presto.
Poiché l'ecologia ha un'antica dimestichezza con la resilienza, non è un caso se la riflessione è più avanzata in questo campo.
Un libro che ha contribuito ad alimentare il dibattito è quello pubblicato da Andrew Zollie Ann Marie Healy: "Resilience: Why Things Bounce Back". Ovvero, letteralmente, "perché le cose rimbalzano". Zolli dirige PopTech, un network di innovatori nel campo delle tecnologie e non soltanto. Di fronte alle grandi sfide del nostro tempo - le diseguaglianze sociali, l'inquinamento e il cambiamento climatico - Zolli sostiene che la parola d'ordine della sostenibilità si sta rivelando inadeguata. «Parlare di sostenibilità significa darsi l'obiettivo di ripristinare l'equilibrio perfetto». Un'illusione. Molto più realistico è «imparare a gestire un mondo in perpetuo squilibrio». Il guru dell'innovazione sostiene che «un numero crescente di scienziati, pensatori sociali, attivisti della società civile, filantropi, s'interessano alla resilienza per aiutare le categorie più vulnerabili a sopravvivere e perfinoa prosperare di frontea sconvolgimenti imprevedibili». Un esempio interessante di riflessione sulla resilienza riguarda la città di New York nel dopoSandy. I traumi di quell'uragano non si sono ancora esauriti,i danni non sono completamente riparati. Ma già si è avviata una discussione importante, su come una grande metropoli post-industriale del terzo millennio debba prepararsi agli eventi meteorologici estremi. Più che "affrontare" le calamità illudendosi di poter sostenere una prova di forza con la natura, forseè più saggio "adattarsi"? Il primo approccio, è quello che spingerebbe a investire nella costruzione di robuste barriere fisiche contro i futuri tsunami. Costosissime dighe,e non necessariamente invulnerabili. Ma la natura stessa ha elaborato altre risposte, più flessibili: per esempio le "wetland", zone umide, paludose, acquitrini naturali, laghetti e stagni, insomma una barriera mobile che può accomodare l'afflusso inusitato di una massa d'acqua, depotenziarne la capacità distruttiva. In un altro campo, Zolli cita la visione degli psicologi sui fattori che ci rendono resilienti di fronte ai traumi e al dolore: la solidità delle nostre amicizie, la qualità delle nostre relazioni sociali, la profondità degli affetti, nonché i valori in cui crediamo. In generale, perché la resilienza può aiutarci e può essere una risorsa ancora più sicura della sostenibilità? «Perché l'equilibrio perfetto non è di questo mondo. Tutti i sistemi attorno a noi si evolvono attraverso errori, tentativi, adattamenti, apprendimenti. È dai fallimenti, dagli insuccessi, che impariamo a crescere».
In campo economico-finanziario, questa riflessione ha come protagonista uno dei massimi esperti del rischio. Si tratta di Nassim Nicholas Taleb, colui che inventò il concetto del "cigno nero": un evento statisticamente rarissimo, quasi impossibile, e come tale capace di sconvolgerci, precipitarci in una crisi sistemica. Un esempio è proprio il crac dei mutui subprime del 2007, poi allargatosi in un collasso globale del credito. L'ultimo saggio di Taleb s'intitola "Antifragile", un sinonimo di resiliente. Il sottotitolo: "Le cose che migliorano grazie al disordine". La sua tesi è questa: poiché non riusciremo mai a prevedere adeguatamente il futuro,è molto più utile imparare a migliorare noi stessi sfruttando gli shock, a trarre beneficio dai traumi esterni quando ci aggrediscono. Dopotutto, è quello che la natura riesce a fare abbastanza spesso.
L'evoluzione della specie approfitta delle mutazioni genetiche casuali, per renderci più forti.
Sulla resilienza dell'economia americana imperversa una battaglia ideologica. La destra neoliberista cercò d'impadronirsi di questa idea contro Obama. Il 31 ottobre 2011, quando la ripresa Usa era già avviata e il Pil cresceva del 2,5%, il Wall Street Journal lanciò il dibattito su The Resilient Economy. Con una tesi molto netta: se il motore dell'economia ha ripreso a girare è tutto merito del settore privato. Resiliente "nonostante" le interferenze del governo. Dal Wall Street Journal veniva così un peana della distruzione creativa del capitalismo, termine coniato da Karl Marx e rilanciato da Joseph Schumpeter nel 1942 applicandolo alle analisi sulla depressione. La vera resilienza dell'economia americana sarebbe dunque nelle capacità innovative dei suoi imprenditori, questo il nocciolo duro del pensiero neoliberista. Che ignora tuttavia altre forze sottostanti: per esempio quell'immigrazione che Obama vuole facilitare sempre di più, e che garantisce all'America una demografia positiva. Inoltre l'equazione "capitalismo uguale resilienza" viene smentita proprio da Taleb e dagli eventi del tipo "cigno nero". Mentre la biologia e la psicologia lavorano per fare un uso costruttivo degli errori, questo non accade necessariamente nei sistemi economici.
Un esempio che usa Taleb: quando si verifica un crac bancario, l'incidente non rende meno probabile bensì più probabile la sua ripetizione: è l'effetto-contagio derivante dall'interconnessione delle banche.
La ricetta segreta della resilienzaè stata studiata da un gruppo di economisti che ha concentrato l'attenzione su nazioni molto piccole. Sono ricercatori guidati da Lino Briguglio, Gordon Cordina, Stephanie Vella e Constance Vigilance, che hanno pubblicato "Vulnerability and Resilience". In questo studio, ribattezzato manuale per "piccoli Stati", spicca il cosiddetto paradosso di Singapore. Più che una nazione, questo dragone asiatico è una città-Stato. Le sue dimensioni rendono Singapore terribilmente vulnerabile: troppo dipendente dalle esportazioni, quindi indifeso di fronte agli shock esterni che provengono dall'economia globale.
Eppure Singapore è diventato un laboratorio di resilienza. Così come, per altri versi, la Svizzera.
Esempi interessanti per nazioni medio-piccole come l'Italia, anch'essa dipendente dagli sbocchi sui mercati globali. Le ricette che salvano queste piccole nazioni dal benessere elevato e stabile, sono la qualità della governancee lo sviluppo sociale. Dunque non si tratta di capitalismo sregolato.
La resilienza è la conquista di politiche che investono nella scuola, nella riqualificazione dei lavoratori licenziati, nelle reti di protezione sociale, nella ricerca scientifica. Anche il World Economic Forum di Davos ammette che la via maestra alla resilienza non è il laissez-faire. Trai protagonisti del summit sulla resilienza ci sono gli "imprenditori sociali", quelli che indirizzano i loro talenti verso la soluzione dei grandi problemi del nostro tempo: le diseguaglianze di reddito, le emissioni carboniche, la penuria di acqua, l'aumento della longevità.
 FEDERICO RAMPINI
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22 gennaio 2013 2 22 /01 /gennaio /2013 17:51
obama-giuramento.jpglink   Ennio Morricone - 3 Themes , Se clicchi con il tasto destro del mouse su LINK e con il sinistro in "apri in una nuova scheda" potrai ascoltare la musica e leggere l'articolo     Obama é una persona che conosce bene i meccanismi del potere  della nazione più potente del mondo, ma é anche un uomo che quando parla sa scaldare il cuore delle persone e dei cittadini perchè sa dare e proporre dei valori, dei modi di vita che condividono e in cui si identificano e sa prospettare il futuro per loro e per la sua  nazione (evitiamo paragoni impietosi con la situazione itliana in cui siamo ancora invischiati con il passato). Si può non condividere  completamente le sue idee e la sua politica, ma si rispetta la sua convinzione e la sua assunzione di responsabilità perché crede in quello che dice. Alla fine dell'articolo ci sono una serie di video di alcuni punti del suo discorso.
Il discorso di Obama alla cerimonia d'insediamento
Vicepresidente Biden, signor ministro della giustizia, membri del Congresso degli Stati Uniti, distinti ospiti e concittadini.
  Ogni volta che ci ritroviamo per l’insediamento di un presidente, siamo testimoni della forza che la nostra Costituzione conserva nel tempo. Confermiamo la promessa della nostra democrazia. Ricordiamo che ciò che tiene insieme questa nazione non è il colore della pelle o le basi della nostra fede, o le origini dei nostri nomi. Ciò che ci rende eccezionali - che ci rende americani - è la nostra fedeltà a un’idea, articolata in una dichiarazione scritta più di due secoli fa:
«Consideriamo autoevidenti le seguenti verità, e cioè che tutti gli uomini siano stati creati uguali, che siano stati dotati dal loro Creatore di taluni inalienabili diritti, e che fra questi vi siano la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità».
Oggi proseguiamo il nostro viaggio senza fine, per congiungere il significato di quelle parole con le realtà del nostro tempo. Perché la storia ci dice che benché queste verità possano essere auto-evidenti, non si sono mai realizzate da sole; mentre la libertà è un dono di Dio, dev’essere assicurata dal Suo popolo qui sulla Terra. I patrioti del 1776 non hanno lottato per sostituire la tirannia di un re coi privilegi dei pochi o lo strapotere di una folla. Ci hanno dato una Repubblica, un governo del, e per, il popolo, affidando a ciascuna generazione il compito di tenere al sicuro le fondamenta del nostro credo.
E per più di duecento anni, l’abbiamo fatto.
obama-waschinton.jpg         Col sangue versato dalla frusta e quello versato dalla spada, abbiamo imparato che non c’è unione fondata sui principi di libertà e uguaglianza che possa sopravvivere mezza schiava e mezza libera. Ci siamo rigenerati, e abbiamo promesso di avanzare insieme.
Insieme, abbiamo stabilito che un’economia moderna richiede ferrovie e autostrade per velocizzare viaggi e commerci; scuole e università per formare i nostri lavoratori.
Insieme, abbiamo scoperto che un libero mercato prospera solo quando ci sono regole per garantire concorrenza e fair play.
Insieme abbiamo determinato che una grande nazione deve prendersi cura dei deboli, e proteggere la sua gente dai pericoli e dalle sfortune peggiori della vita.
In tutto questo tempo, non abbiamo mai abbandonato uno scetticismo nei confronti dell’autorità centrale, né abbiamo mai ceduto a quella finzione secondo la quale tutti i mali della società possano essere curati esclusivamente dal governo. La nostra esaltazione dell’iniziativa e dell’impresa; la nostra insistenza sul duro lavoro e la responsabilità personale, sono tutte costanti del nostro pensiero.
Ma abbiamo sempre compreso che quando i tempi cambiano, anche noi dobbiamo cambiare; che la fedeltà ai nostri principi fondamentali richiede nuove risposte a nuove sfide; che la tutela delle nostre libertà individuali richiede in ultima analisi un’azione collettiva. Perché gli americani non possono venire incontro da soli alle richieste del mondo di oggi più di quanto i soldati americani avrebbero potuto affrontare le forze del fascismo o del comunismo coi moschetti e gruppuscoli di volontari. Nessuno da solo potrà formare tutti gli insegnanti di matematica e di scienze di cui abbiamo bisogno per preparare i nostri figli al futuro, o costruire le strade e le reti e i laboratori di ricerca che porteranno nuovi lavori e attireranno nuovi affari sulle nostre sponde. Ora più che mai, dobbiamo fare queste cose insieme, un’unica nazione, e un unico popolo.
Questa generazione di americani è stata messa alla prova da crisi che hanno indurito la nostra risolutezza, e dimostrato la nostra resilienza (vedi articolo del blog successivo). Un decennio di guerra finisce oggi. Una ripresa economica è incominciata. Le possibilità dell’America sono illimitate, perché possediamo tutte le qualità che questo mondo senza confini ci richiede: gioventù e motivazione; diversità e apertura; una capacità infinita di rischiare, e il dono di reinventarci. Miei compatrioti americani, siamo preparati a questo istante, e lo coglieremo - ma solo se lo faremo insieme.
Perché noi, il popolo, capiamo che il nostro paese non può farcela quando una porzione sempre più ristretta vive molto bene, e una maggioranza crescente ce la fa a stento. Noi crediamo che la prosperità dell’America debba poggiare sulle larghe spalle di una classe media in ascesa. Sappiamo che l’America prospera quando ognuno è in grado di trovare indipendenza e orgoglio nel proprio lavoro; quando gli stupendi di un onesto lavoro liberano le famiglie dall’orlo delle difficoltà. Siamo fedeli al nostro credo quando una bambina nata nella povertà più buia è consapevole di avere le stesse possibilità di aver successo di chiunque altro, perché é americana, è libera, è uguale non solo agli occhi di Dio, ma ai nostri.
Noi capiamo che i nostri programmi vecchi sono inadeguati rispetto alle necessità del nostro tempo. Dobbiamo imbrigliare nuove idee e tecnologie per ricreare il nostro governo, migliorare il nostro sistema fiscale, riformare le nostre scuole, e potenziare i nostri cittadini con le abilità di cui hanno bisogno per lavorare meglio, imparare di più e arrivare più in alto. Benché i mezzi debbano cambiare, il nostro obiettivo resta: una nazione che premi lo sforzo e la determinazione di ciascun americano. Ecco ciò che questo momento richiede. Ecco ciò che darà vero senso al nostro credo.
Noi, il popolo, riteniamo ancora che ogni cittadino meriti una minima base di sicurezza e dignità. Dobbiamo prendere decisioni difficili per ridurre il costo della sanità e le dimensioni del nostro deficit. Ma rifiutiamo la convinzione secondo la quale l’America debba scegliere tra prendersi cura della generazione che ha costruito questo paese e investire nelle generazione che ne costruirà il futuro. Perché ricordiamo le lezioni del nostro passato, quando gli anni del crepuscolo si trascorrevano in povertà, e i genitori di un bambino disabile non avevano nessuno a cui rivolgersi. Non riteniamo che in questo paese la libertà non sia riservata ai fortunati, né la felicità ai pochi. Riconosciamo che per quanto responsabilmente viviamo le nostre vite, ciascuno di noi, in qualsiasi momento, potrà affrontare la disoccupazione, o ammalarsi repentinamente, piuttosto che vedersi spazzare via la casa da una terribile tempesta. Gli impegni che prendiamo l’un con l’altro - col Medicare, Medicaid e la Social Security - cose come queste non riducono la nostra intraprendenza; ci rafforzano. Non ci trasformano in una nazione di mendicanti; ci rendono liberi di prendere quei rischi che fanno grande questo paese.
Noi, il popolo, crediamo ancora che i nostri doveri come americani non siano solo nei confronti di noi stessi, ma di tuta la posterità. Daremo una risposta alla minaccia dei cambiamenti climatici, consapevoli che se non lo facessimo tradiremmo i nostri figli e le generazioni future. C’è chi ancora nega il soverchiante giudizio della scienza, ma nessuno può aggirare il devastante impatto di scatenati incendi, delle siccità soffocante e delle ancor più potenti tempeste. La strada verso fonti energetiche sostenibili sarà lunga e talvolta ardua. Ma l’America non può resistere a questa transizione; dobbiamo guidarla. Non possiamo cedere ad altre nazioni la tecnologia che darà energia a nuovi posti di lavoro e nuove industrie - dobbiamo farne una  nostra promessa. Ecco come conserveremo la nostra vitalità economica e il nostro tesoro nazionale - le nostre foreste e vie fluviali; i nostri raccolti e i picchi innevati. Ecco come preserveremo il nostro pianeta, affidato da Dio alla nostra cura. Ecco ciò che darà senso al credo che i nostri padri pronunciarono un tempo.
Noi, il popolo, ancora crediamo che una sicurezza duratura e una pace prolungata non richiedano una guerra perpetua. I nostri coraggiosi uomini e donne in uniforme, temprati dal fuoco della battaglia, non hanno pari quanto a capacità e coraggio. I nostri cittadini, segnati dal ricordo di coloro che abbiamo perso, conoscono fin troppo bene il prezzo che viene pagato per la libertà. La consapevolezza del loro sacrificio ci terrà sempre vigili contro coloro che vorrebbero farci del male. Ma siamo altresì eredi di coloro che hanno vinto la pace, non solo la guerra, trasformando nemici giurati nei più leali fra gli amici, e dovremo portare anche quelle lezioni nel presente.
Noi difenderemo il nostro popolo, tenendo fede ai nostri valori con la forza delle armi e quella della legge. Mostreremo il coraggio necessario a cercare di risolvere pacificamente i contrasti con le altre nazioni - non perché siamo ignari dei pericoli che affrontiamo, ma perché gli scontri possono sollevare sospetti e paure a lungo termine. L’America resterà l’ancora di alleanze forti in ogni angolo del globo; e rinnoveremo quelle istituzioni che ampliano la nostra capacità di affrontare le crisi all’estero, perché nessuno ha più interesse in un mondo in pace della sua nazione più potente. Noi sosterremo la democrazia dall’Asia all’Africa; dalle Americhe al Medio Oriente, perché i nostri interessi e la nostra coscienza ci spingono ad agire per coloro che aspirano alla libertà. E dovremo essere fonte di speranza per i poveri, i malati, i marginalizzati, le vittime del pregiudizio - non per mera carità, ma perché la pace nella nostra epoca richiede il progresso costante di quei principi che il nostro credo condiviso descrive: tolleranza e opportunità; dignità umana e giustizia.
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Noi, il popolo, oggi dichiariamo che la più palese fra le verità - che tutti noi siamo stati creati uguali - è l’astro che ancora ci guida; così come ha guidato i nostri precursori a Seneca Falls, Selma e Stonewall; così come ha guidato tutti quegli uomini e donne, noti e ignoti, che hanno lasciato le proprie impronte lungo questo grande viale, per sentire un predicatore che spiegava perché non possiamo camminare da soli; per ascoltare [Martin Luther] King proclamare che la nostra libertà individuale è inestricabilmente legata alla libertà di ogni altra anima sulla Terra.
Ora è compito della nostra generazione portare avanti ciò che quei pionieri hanno cominciato. Perché il nostro viaggio non sarà concluso finché le nostre mogli, madri e figlie non possano guadagnarsi da vivere proporzionalmente ai loro sforzi. Il nostro viaggio non sarà concluso finché i nostri fratelli e sorelle omosessuali non saranno trattati come chiunque altro davanti alla legge – perché se siamo veramente stati creati uguali, allora di certo l’amore con cui ci leghiamo l’uno all’altro dovrà essere altrettanto uguale. Il nostro viaggio non sarà concluso finché nessun cittadino si troverà costretto ad aspettare per ore il suo turno di esercitare il diritto di voto. Il nostro viaggio non sarà concluso finché non troveremo un modo migliore per accogliere gli immigranti volenterosi e pieni di speranza che ancora vedono l’America come la terra dell’opportunità; finché bravi e giovani studenti e ingegneri entrino nella nostra forza lavoro piuttosto che venire espulsi dal nostro paese. Il nostro viaggio non sarà concluso finché tutti i nostri figli, dalle strade di Detroit alle colline dell’Appalachia, alle strade silenziose di Newtown, sapranno che ci si prenderà cura di loro, che verranno amati e tenuti al sicuro dal pericolo.
obama-bacia-michele.jpgQuesto è il compito della nostra generazione - rendere queste parole, questi diritti, questi valori – di Vita, e Libertà e Inseguimento della Felicità – vere per ogni americano. Essere fedeli ai nostri testi fondamentali non ci richiede di concordare su ogni singolo aspetto della vita; non significa che definiremo la libertà tutti nello stesso identico modo, o che seguiremo la stessa identica strada per la felicità. Il progresso  ci impone di porre fine per sempre a dibattiti lunghi secoli sul ruolo del governo - ma ci richiede di agire nel presente.
Perché adesso è il momento di decisioni che non possiamo permetterci di rimandare. Non possiamo confondere l’assolutismo col principio, o sostituire la politica con lo spettacolo, né trattare gli insulti come fossero ragionevoli dibattiti. Dobbiamo agire, consapevoli che la nostra opera sarà imperfetta. Dobbiamo agire sapendo che le vittorie di oggi saranno solo parziali, e che starà a chi sarà qui fra quattro anni, e quarant’anni e quattrocento anni da oggi, portare avanti quello spirito senza tempo che fu infuso in noi in una sala spartana di Philadelphia.
Miei compatrioti americani, il giuramento che oggi ho fatto davanti a voi (...) è stato un giuramento davanti a Dio e al paese, non a un partito o a una fazione - e dovremo tenervi fede per la durata del nostro incarico. Ma le parole che ho pronunciato oggi non sono così diverse da quelle del giuramento che fa ogni soldato prima di arruolarsi, o di un immigrato che realizza il suo sogno. Il mio giuramento non è così diverso dalla promessa che noi tutti facciamo davanti alla bandiera che sventola sopra di noi, e che riempie d’orgoglio i nostri cuori.
Sono le parole dei cittadini, e rappresentano la nostra più grande speranza.
Voi e io, come cittadini, abbiamo il potere di determinare la rotta di questo paese.
Voi e io, come cittadini, abbiamo il dovere di dare forma ai dibattiti della nostra epoca - non solo attraverso i voti che esprimiamo, ma con le voci che leviamo in difesa dei nostri più antichi valori e dei più duraturi ideali.
Che ciascuno di noi abbracci, con solenne dovere e meravigliosa gioia, ciò che è il nostro retaggio permanente. Con sforzi comuni, e comuni intenti, con passione e dedizione, rispondiamo alla chiamata della storia, e trasportiamo la preziosa luce della libertà verso un futuro confuso.
Grazie, Dio vi benedica, e che benedica per sempre questi Stati Uniti d’America.

Barack Obama

(traduzione di Stefano Pitrelli

http://video.repubblica.it/mondo/obama-e-finito-decennio-di-guerra-ora-inizia-sviluppo-economico/116919?video

http://video.repubblica.it/mondo/obama-stessi-diritti-per-fratelli-e-sorelle-gay/116925?video

http://video.repubblica.it/mondo/obama-non-vogliamo-una-liberta-per-i-piu-fortunati-e-una-felicita-per-pochi/116922?video

http://video.repubblica.it/mondo/obama-basta-dibattiti-lunghi-secoli-agiamo-nel-nostro-tempo/116920/115373

Obama commosso si gira a guardare la folla: ''Non mi capiterà mai più''

"Voglio guardare ancora una volta. Una cosa così non la rivedrò mai più", così Barack Obama un attimo prima di lasciare la scalinata del Campidoglio dopo la cerimonia inaugurale del suo secondo mandato. A cogliere la frase sono i media americani che attraverso il labiale leggono la frase del presidente visibilmente commosso che si gira un'ultima volta a guardare la folla del National Mall di Washington

http://video.repubblica.it/mondo/obama-commosso-si-gira-a-guardare-la-folla-non-mi-capitera-mai-piu/116934?video

http://video.repubblica.it/mondo/obama-presidente-il-ballo-di-biden/116936?video

     
 
 
 
 
 
 
 
 
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18 dicembre 2012 2 18 /12 /dicembre /2012 09:26

 

 

newtown1.jpg

link Blowing in the wind - Joan Baez  Se clicchi con il tasto destro del mouse su LINK e con il sinistro su "apri in una nuova scheda" potrai ascoltare la musica e leggere gli  articoli

 

Ecco dei video che ti fanno sentire di avere speranza nella vita e nel futuro perché solo assieme ad altre  altri uomini e donne, al  loro senso civico, alla loro solidarietà ai loro  affetti possiamo superare tutte le situazioni quali  esse siano. Obama è un uomo di potere (USA, Esercito,CIA, politica, economia, lobby  ecc.) e conosce e gestisce anche le contraddizioni e la forza  di una grande nazione, ma sa essere una persona come diceva qualcuno: “bisogna essere duri senza perdere la tenerezza” (direi l’umanità). Non dà mai la colpa agli altri, si assume sempre le responsabilità sia come presidente degli USA che come uomo. Si può anche non essere d’accordo con la sua politica.

Dopo i video,  due articoli che aiuta a comprendere il fenomeno e cosa si può fare.

Obama dopo la strage

http://video.sky.it/news/mondo/strage_scuola_connecticut_parla_obama/v144496.vid

Obama legge i nomi dei bambini uccisi

http://video.repubblica.it/dossier/scuola-strage-connecticut-newtown/newtown-obama-legge-i-nomi-dei-20-bambini-uccisi/113883?video=&ref=HREC2-7

Non facciamo abbastanza per proteggere i nostri figli

http://video.repubblica.it/dossier/scuola-strage-connecticut-newtown/obama-si-commuove-alla-veglia-di-newtown-dobbiamo-cambiare/113882?video

C'è un vuoto di ideali e di valori per questo esplode la violenza

NEW YORK - Pochi scrittori come Chuck Palahniuk hanno raccontato con uguale forza la violenza che esplode improvvisamente nella società americana. E forse nessuno come lui è riuscito a coglierne gli elementi di assurdità e disperazione. Nei suoi romanzi più estremi, come "Fight Club" e "Choke" ha inserito anche elementi di umorismo nero, ma di fronte a quanto è accaduto a Newtown si chiude in silenzio pieno di angoscia, spiegando che «questo orrore ci dice innanzitutto qualcosa su quello che siamo: il male è dentro di noi, ma viviamo continuando a illuderci di negare questa verità».

 A seguire la logica della associazione delle armi USA si può mettere un poliziotto in armi a fianco di ogni cittadino, ma chi controllerà i poliziotti?(nota del redattore)

 Però il giovane che ha compiuto il massacro aveva gravi disturbi psicologici...

«È assolutamente vero, tuttavia credo che dobbiamo sfuggire alla tentazione di rubricare quanto accaduto come un semplice episodio di follia. Ritengo che oggi siamo costretti a confrontarci dolorosamente con il grado di profondo malessere che esiste nel mondo, specie tra i giovani».

 Il massacro ha generato un movimento di opinione che chiede forti restrizioni sull'uso delle armi da fuoco.

«Ci sono troppe armi in America, ed è certamente necessario limitarne la diffusione, ma anche parlare di questo significa non cogliere il cuore del problema: all'interno della generazione più giovane cova un sentimento sempre più forte di angoscia e frustrazione che si sfoga anche in episodi violenti, colorati a volte di farneticanti connotati ideologici, come avvenne ad Oklahoma City. Tuttavia l'equazione: violenza= America + armi è facile e forse consolatoria per qualcuno, ma anche limitata, fuorviante e per  alcuni aspetti menzognera.Un esempio evidente di quello che dico è quanto è avvenuto in Norvegia, un paese citato sempre come modello di civiltà, e nel quale le armi non circolano come negli Stati Uniti. Sono il primo ad auspicare una restrizione delle armi da fuoco, ma si tratterebbe di una soluzione tecnica, che non purificherebbe alla base il problema. La vera domanda da porsi è perché un giovane uccide»

Lei che è risposta si è dato?

«Non sono un sociologo né uno psicologo, ma vedo che molti ragazzi vivono senza un sentiero da percorrere, e nel vuoto assoluto di valori e ideali. Non c'è nulla di peggio che vivere nel vuoto: alla lunga ciò può portare solo ad esplosioni violentissime. E ciò è valido in ogni parte del mondo. Un altro elemento sul quale dobbiamo riflettere è che queste stragi sono tutte compiute da maschi: cosa dobbiamo pensare? Che l'indole femminile è diversa? Che le faticose conquiste degli ultimi decenni ne hanno mitigato gli elementi violenti e frenato il senso di rivalsa, generando parallelamente un senso frustrazione tra i maschi?».

C'è chi pone l'indice contro il cinema e la letteratura violenta.

 «È comprensibile, tuttavia io ritengo che ci sia da fare un'importante distinzione tra chi tratta la violenza in maniera pornografica per solleticare gli elementi più morbosi del lettore o spettatore. Questo è da condannare, come è da condannare il racconto della violenza come qualcosa di inevitabile e veloce, quasi indolore. Quante volte abbiamo visto film in cui qualcuno viene ucciso su due piedi, senza neanche sapere chi sia: è un atteggiamento che priva i personaggi della loro umanità, e questo è non solo grave, ma irresponsabile e pericoloso. Infine ci sono opere che raccontano la violenza anche con grande realismo, ma al di là dell'eventuale risultato artistico credo che possano avere un effetto benefico. Penso al finale di "Heavenly Creatures" in cui una donna viene massacrata con un mattone: è una scena terribile, ma genera orrore nei confronti della violenza».

 link    We shall over come - Joan Baez . Se clicchi con il tasto destro su LINK e con il sinistro su "apri in una nuova scheda" potrai ascoltare la musica e leggere l'articolo

 Newtown.jpgnewtown-2.jpg

Foto fonte:web

L'INTERVENTO

MIA CARA AMERICA ABBI IL CORAGGIO DI POSARE IL FUCILE

Nicholas D. Kristof, giornalista statunitense vincitore di due premi Pulitzer, riflette sulla strage in Connecticut

Nicholas D. Kristof, giornalista statunitense vincitore di due premi Pulitzer

17 Dicembre 2012

La Repubblica - Ed. nazionale Dopo la sparatoria nella scuola elementare del Connecticut, fra il dolore straziante per quanto accaduto, un pensiero si fa largo prepotentemente nella mia testa: perché non riusciamo a regolamentare le armi da fuoco con la stessa severità con cui riusciamo a regolamentare le automobili? La ragione fondamentale per cui dei bambini rimangono uccisi in massacri del genere non è che abbiamo gente schizzata o criminale - tutti i Paesi ce l'hanno - ma la nostra incapacità politica di imporre delle regole al possesso delle armi da fuoco. I bambini frai 5ei 14 anni di età negli Stati Uniti, secondo David Hemenway, esperto di salute pubblica all'Università di Harvard e autore di un ottimo libro sulla violenza con armi, hanno una probabilità 13 volte superiore a quella dei loro coetanei di altri Paesi industrializzati di essere uccisi da un'arma da fuoco. E allora cerchiamo di trattare il problema delle armi con razionalità, come l'elemento centrale di una crisi di salute pubblica che produce un morto ogni 20 minuti. GLI Stati Uniti, realisticamente, non metteranno al bando le armi, ma promulgare misure per contenere la carneficinaè possibile. Le uniche cose su cui non siamo rigidi sono quelle che hanno più probabilità di uccidere. L'Occupational Safety and Health Administration, l'ente pubblico che si occupa della sicurezza sul lavoro, ha cinque pagine di regolamenti sulle scale, mentre le autorità federali fanno spallucce quando qualcuno propone di imporre limitazioni concrete alla diffusione delle armi da fuoco. Le scale uccidono circa 300 americani all'anno, le armi 30.000. Abbiamo regolamentato perfino le armi giocattolo, che devono avere obbligatoriamente la punta arancione, eppure ci manca il fegato per prendere di petto gli estremisti della National Rifle Association e imporre sulle armi vere regole altrettanto rigorose di quelle che imponiamo sui giocattoli. Come ha scritto uno dei miei follower su Facebook dopo il mio articolo sul massacro: «È più difficile adottare un animale domestico che comprare un'arma». Io sono cresciuto in una fattoria dell'Oregon, dove le armi erano parte della vita quotidiana, e mio padre mi regalò un fucile calibro 22 per il mio dodicesimo compleanno. Per cui lo posso capire: sparare è divertente! Ma anche guidare è divertente, eppure accettiamo che sia obbligatorio indossare le cinture di sicurezza, accendere i fari di notte e riempire dei moduli per comprare una macchina. Perché anche le armi da fuoco non possono essere regolamentate in modo altrettanto maturo? E non venitemi a dire che non cambierebbe nulla perché i pazzi saranno sempre in grado di procurarsi un'arma. Se riuscissimo a ridurre di un terzo le vittime delle armi, salveremmo ogni anno 10.000 vite. E non sognatevi neanche di tirar fuori la balla che se più persone andassero in giro armate questo scoraggerebbe o fermerebbe gli sparatori. I casi in cui un semplice cittadino armato ha fermato una strage negli Stati Uniti sono più unici che rari. La tragedia non è un singolo massacro in una scuola,è l'incessante pedaggio di morte che paga ogni anno il nostro Paese, ovunque. Muoiono più americani per omicidi e suicidi con armi da fuoco in 6 mesi di tutti quelli che sono morti in attentati terroristici negli ultimi 25 anni e nelle guerre in Afghanistan e in Iraq messe insieme. Ma allora che cosa possiamo fare? Un buon inizio sarebbe imporre il divieto di acquistare più di un'arma al mese, per limitare il fenomeno dei trafficanti. E allo stesso modo si potrebbe proibire la vendita di caricatori con più di dieci pallottole, così gli assassini non potrebbero più ammazzare tutte quelle persone senza ricaricare. Bisognerebbe anche introdurre l'obbligo di un controllo generalizzato dei precedenti per chi compra un'arma, anche nelle compravendite tra privati. Facciamo numeri di serie più difficili da cancellaree sosteniamo il progetto californiano di introdurre l'obbligo di imprimere un minuscolo timbro su ogni cartuccia, in modo che sia possibile ricondurre i proiettili sparati a un'arma specifica. «Abbiamo sopportato troppe tragedie del genere negli ultimi anni», ha dichiarato fra le lacrime il presidente Barack Obama in televisione. Ha ragione, ma la soluzione nonè limitarsia piangere le vittime, la soluzione è cambiare politica. Serve capacità di leadership, non solo discorsi commoventi. L'esperienza di altri Paesi ci può essere di insegnamento. In Australia, nel 1996, il massacro di 35 persone portò al riacquisto da parte dello Stato di 650.000 armi da fuoco e all'introduzione di regole più severe sul porto d'armi. Nei 18 anni precedenti c'erano state 13 stragi: nei 14 anni dopo la completa entrata in vigore della legge, nemmeno uno. Il tasso di omicidi commessi con armi da fuoco è crollato di oltre il 40 per cento, secondo i dati compilati dal Centro di ricerca sul controllo degli infortuni dell'Università di Harvard,e il tasso di suicidi con armi da fuoco si è più che dimezzato. Oppure possiamo cercare ispirazione guardando a quello che abbiamo realizzato sul fronte della sicurezza sulle strade. Alcune morti sono causate da persone che violano la legge o si comportano in modo irresponsabile. Però non liquidiamo la cosa dicendo: «Non sono le auto che ammazzano la gente, sono gli ubriachi». Al contrario: abbiamo imposto le cinture di sicurezza, gli air bag, i seggiolini per bambini. Qualcuno di voi oggi è vivo grazie a quelle.

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