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9 marzo 2013 6 09 /03 /marzo /2013 21:05

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Un bambino, l'esilio e "l'estrema fortuna" di perdere tutto.
È il nuovo romanzo del premio Pulitzer.

Alla fine della vita un uomo fortunato può contare un pugno di amici. Io, per esempio, potrò nominare Paolo, Giorgio, John Irving, Philiph Roth. E Richard Ford. L'ho conosciuto ai tempi de L'estrema fortuna. Mi hanno scaldato i suoi Incendi. Ho condiviso con lui Infiniti peccati, ma soprattutto la vita così universale di Frank Bascombe, giornalista sportivo che diventa agente immobiliare (da Sportswritera Indipendence Day). Tuttavia Ford rimane un prodotto americano: sa di spazi eppure riesce a chiudere mondi in una frase. Quando leggo i suoi libri metto molte "orecchie" alle pagine. Per lo più segnalano frasi icastiche alla fine di un capitolo. Una l'ho ricopiata su un cartone e incorniciata davanti al letto della casa dove abito. Dice: «Ho affrontato la rovina. Ho evitato il rimpianto. E sono ancora qui a raccontarlo». Lui parla esattamente di questo: come ricomporre le vite dopo che, inevitabilmente, si sono spezzate. Succede anche nel suo ultimo romanzo, Canada (Feltrinelli, traduzione di Vincenzo Mantovani).
È noto: ogni scrittore tende a fare variazioni sul tema, tutta la sua opera ruota intorno a un fulcro, una situazione chiave che fa da motore per ogni trama. Per Richard Ford è lo spaesamento. Quando la tua donna ti ha lasciato, il tuo migliore amico ti ha tradito, le tue speranze sono nel retrovisore, allora comincia L'estrema fortuna. Anche Frank Bascombe è spaesato, traumatizzato dalla morte del figlio, impossibilitato a condividere altro che questo dolore con la moglie e quindi costretto al divorzio, in via di separazione anche dal proprio lavoro. La versione cinematografica di questi personaggi sarebbe il magnifico Robert Redford dei Tre giorni del condor, il sedentario impiegato della Cia che trova i colleghi morti ammazzati al rientro dalla pausa caffè, capisce di non potersi più fidare dell'agenzia, degli amici, di nessuno e ripone la fiducia in una sconosciuta che fotografa panchine vuote. La sua estrema fortuna.
Ho affrontato la rovina. Ho evitato il rimpianto. E sono ancor qui a raccontarlo

Anche Canada ha un protagonista spaesato, un ragazzino che i genitori abbandonano nel modo più improbabile: pur rispettabili, vanno a fare una rapina in banca e si fanno arrestare. Sottolineatura di pagina 9: «Comunque, dare ai genitori la colpa delle difficoltà della propria vita alla fine non porta da nessuna parte». Così è: interi capitoli di storia sono costruiti su questo alibi, ma la storia è nostra, nostra è la responsabilità. Qualunque sia l'evento che ci colpisce: un lutto come un abbandono. C'è il trauma, ma c'è la reazione. E quella, siamo noi. Non il Dna, non la stirpe che ci ha preceduto. Siamo il movimento che sappiamo imprimere al percorso della nostra vita, non l'inerzia a cui la releghiamo, giacché (sottolineatura di pagina 304): «Le cose accadono quando le persone non stanno al loro posto, e il mondo va avanti e indietro in base a questo principio». Esattamente e semplicemente così. L'ordine delle cose è anche la loro morte. L'evoluzione delle sorti è determinata da uomini fuori posto.
Fidel Castro incontra il dottor Ernesto Guevara su una terrazza argentina e nasce la rivoluzione cubana. Un marito convince la moglie casalinga ad accompagnarlo nel North Dakota per una rapina e i loro figli non cresceranno più come ogni altro bambino. Saranno spaesati, indotti a cercare nell'oscurità l'abbraccio reciproco, proibito ma salvifico per il tempo necessario a scavalcare il precipizio della solitudine. Dopodiché, la sorella se ne andrà, il ragazzino resterà ancora più solo e verrà portato da un'amica di famiglia oltre il confine, in Canada, per essere affidato a uno sconosciuto.
Il Canada è il metaforico territorio dell'esilio. È una distesa spopolata, dove non c'è casa, non c'è famiglia, non c'è futuro. Non fosse che il futuro è la vita stessa, giorno dopo giorno dopo giorno. Il Canada è un luogo dove tutti, prima o poi, passiamo (o finiamo). È la terra delle incertezze, dove rimettere insieme quel poco che ci resta alla fine del tornado. E quel poco, solitamente, non è altro che: un corpo, la volontà di esserci nonostante tutto, la capacità di immaginare oltre. Quella che chiamiamo maledizione è, a guardarla con occhio disincantato, proprio l'estrema fortuna. Condor diventa un genio inafferrabile. Il ragazzino cresce, ragiona, si salva. Lo sconosciuto che lo accoglie gli fa un domanda chiave e gli dà una risposta. È la sottolineatura di pagina 103: «Cosa significa avere un senso? Significa che accetti le cose. Se capisci, poi le accetti. Se le accetti, capisci».

Dare ai genitori la  colpa delle difficoltà della propria vita non porta da nessuna parte. Chi ti ha detto che quella vicenda sia una disgrazia? Ci conviene eventualmente comprendere (in tutti i sensi) quale parte nostra non vitale ha giocato nella vicenda.
Tutto quel che Richard Ford ha scritto ruota intorno a questi due temi: spaesamento/accettazione. L'una come superamento dell'altro. Alla fine del romanzo il ragazzino, divenuto un anziano professore, invita i suoi allievi a «non cercare troppo accanitamente significati nascosti od opposti - anche nei libri che leggono - ma a guardare nel modo più diretto e possibile le cose che possono vedere alla luce del giorno. Nel processo di spiegare a te stesso le cose che vedi, riuscirai sempre a trovarvi un senso e a imparare ad accettare il mondo».
Non c'è altro. Siamo qui, sperduti in Canada, io che leggo Ford, tu che leggi me che ho letto Ford, e non è colpa di nessuno: è stato e basta. Accettarlo è il solo modo di capirlo. Capirlo è il solo modo di andare avanti. Affrontando la rovina. Evitando il rimpianto. Continuando a raccontare.

 

Gabriele Romagnoli

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