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23 dicembre 2014 2 23 /12 /dicembre /2014 18:22

Attacco del Papa alla Curia “Troppa vanagloria nessuno è indispensabile”

Viva il Papa e abbasso la Curia!, verrebbe spontaneo gridare dopo il magnifico e severo discorso che papa Francesco ha rivolto ieri ai responsabili della Curia romana. Il discorso con un’analisi ammirevole e coraggiosa elenca ben quindici malattie che secondo il Papa aggrediscono l’organismo di potere vaticano, ma in realtà si tratta di un’analisi perfettamente estendibile a tutte le altre nomenclature, a tutte le corti che nel mondo si formano inevitabilmente attorno a chi detiene il potere. Ieri il Papa si è rivolto alla Curia romana, ma le sue parole colpiscono praticamente tutti gli organi di potere dell’odierna società, dalla politica all’economia, dalle università ai tribunali, in Italia e ovunque nel mondo. Tra le malattie della mente e del cuore dei burocrati vaticani e non, il Papa pone al primo posto ciò che definisce (1) la “malattia del sentirsi immortale o indispensabile”, vale a dire l’identificazione del proprio sé con il potere…

Seguono (2) “la malattia dell’eccessiva operosità” e (3) “l’impietrimento mentale e spirituale”, intendendo con ciò l’atteggiamento di coloro che “perdono la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando macchine di pratiche”. Le altre malattie del potere, elencate dal Papa spesso con termini colorati, sono: (4) l’eccessiva pianificazione, (5) il cattivo coordinamento che trasforma una squadra in “un’orchestra che produce chiasso”, (6) “l’Alzheimer spirituale” che fa perdere la memoria dell’incontro con il Signore e consegna in balìa delle passioni, (7) la rivalità e la vanagloria, (8) la schizofrenia esistenziale che porta a vivere una doppia vita, di cui la seconda è all’insegna della dissolutezza, (9) le chiacchiere e i pettegolezzi che arrivano a un vero e proprio “terrorismo” delle parole, (10) la divinizzazione dei capi in funzione del carrierismo, (11) l’indifferenza verso i colleghi che priva della solidarietà e del calore umano e che anzi fa gioire delle difficoltà altrui, (12) la faccia funerea di chi è duro e arrogante e non sa che cosa siano l’umorismo e l’autoironia, (13) il desiderio di accumulare ricchezze, (14) i circoli chiusi e infine (15) l’esibizionismo.

Queste sono le numerose malattie che secondo il Papa aggrediscono la Curia romana e i suoi responsabili. Ma una domanda s’impone: è davvero così semplice separare il Pontefice dalla sua amministrazione? La Curia romana è una creatura dei Papi, è l’espressione di ciò che per secoli è stato il Papato, governata dagli infallibili successori di Pietro dei quali tra l’altro quasi tutti coloro che hanno regnato nel ‘900 sono stati proclamati santi o beati. Com’è quindi possibile il paradosso di papi così vicini a Dio e tuttavia incapaci di mettere ordine tra i più stretti collaboratori, scelti da loro stessi? Come si concilia lo splendore dei pontefici canonizzati con una curia che dipende da loro direttamente e che è così tanto malata?

La Curia romana non è piovuta in Vaticano dal cielo, né è stata messa lì da qualche potentato straniero, ma è sorta quale logica emanazione della politica ecclesiastica papale che ha fatto del Vaticano un centro di potere assoluto, e non un organo di servizio come vorrebbe oggi papa Francesco. Se si vuole la coerenza del ragionamento, indispensabile alla coerenza della vita giustamente tanto cara a papa Francesco, occorre concludere che i mali della Curia romana non possono non essere esattamente i mali dello stesso potere pontificio.

Il papato per secoli ha concepito se stesso come potere assoluto senza spazio per una minima forma di critica e meno che mai di opposizione, traducendo fisicamente questa impostazione in precisi segni di spettacolare effetto quali il bacio della pantofola, la sedia gestatoria, e la tiara pontificia detta anche triregno tempestata di pietre preziose. Chi lavorava in Curia respirava quotidianamente quest’aria e non c’è nulla da meravigliarsi se poi, nella sua vita privata, tendesse a riprodurne la logica circondandosi a sua volta di lusso e di potere. È stato così per secoli e, come fa intendere il discorso di papa Francesco, è così ancora oggi. Emblematico è il caso del cardinal Bertone, per anni a capo della Curia romana e ora autopremiatosi con un lussuoso superattico nel quale probabilmente si aggira fiero contemplando i frutti di un fedele servizio alla logica del potere.

L’impietrimento mentale e spirituale denunciato da papa Francesco come malattia n. 3 non è altro che la conseguenza di come nei secoli è stata interpretata la figura del successore di Pietro. Quindi la riforma della curia non può che condurre a una riforma del papato. Avrà la forza papa Francesco per intraprendere questa strada? La volontà, di sicuro, sì.

Vito Mancuso - la Repubblica

 

 

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6 novembre 2014 4 06 /11 /novembre /2014 21:36

Eutanasia, Küng: “Io, teologo cattolico, voglio decidere da solo quando e come morire”

“Morire felici?”, il nuovo libro di Hans Küng, uno dei maggiori teologi contemporanei, riapre il dibattito sulla “dolce morte”. “Dal diritto alla vita non deriva affatto il dovere alla vita e l’autodeterminazione fa parte della dignità umana”.“L’aiuto a morire va inteso come estremo aiuto a vivere”.

Andrea Tarquini  - la Repubblica

Se la vita è un dono di Dio, perché non accettare la possibilità di restituire gentilmente il dono? È da tempo l’argomento- chiave di chi chiede di legalizzare l’aiuto a chi vuole morire, oggi possibile quasi solo in Svizzera e in Olanda. Ma adesso uno dei massimi teologi cattolici del nostro tempo, il grande ribelle (ma esegeta di Papa Francesco) Hans Küng, a suo modo la fa propria. In un libro appena uscito in Germania. "Gluecklich sterben?" (“Morire felici?”) s’intitola il volume di 160 pagine per i tipi del Piper Verlag, cui la Sueddeutsche Zeitung ieri ha dedicato una megarecensione con richiamo in prima pagina. Una presa di posizione destinata a smuovere le acque nel grande dibattito — tra cristiani e non solo — sul tema sofferto della liceità o meno di scegliere da soli quando passare dalla vita alla morte.

«È parte del mio modo di concepire la vita, ed è legata alla mia fede nella Vita Eterna, la scelta di non protrarre a tempo indeterminato la mia vita terrena», scrive Hans Küng nel libro recensito ieri da Matthias Drobinski, forse il più autorevole vaticanista tedesco. È la prima volta che un grande teologo cattolico si esprime in favore della “dolce morte”. Continua Küng: «Se e quando giunge il momento, io vorrei avere il diritto, se potrò ancora farlo, di decidere con la mia responsabilità sul momento e il modo della mia morte». E poi: «È conseguenza del principio della dignità umana il principio del diritto all’autodeterminazione, anche per l’ultima tappa, la morte. Dal diritto alla vita non deriva in nessun caso il dovere della vita, o il dovere di continuare a vivere in ogni circostanza. L’aiuto a morire va inteso come estremo aiuto a vivere. Anche in questo tema non dovrebbe regnare alcuna eteronomia , bensì l’autonomia della persona, che per i credenti ha il suo fondamento nella Teonomia» (decisione di Dio o ispirata dai dettami divini, ndr).

Hans Küng, ricorda l’articolo, soffre di morbo di Parkinson. È ricoverato in Svizzera, ha già fatto capire di voler porre fine alla sua vita quando saranno percepibili i sintomi di degrado spirituale e fisico grave. Da tempo è membro di “Exit”, l’associazione elvetica, forse la più nota organizzazione al mondo che aiuta chi, perché malato inguaribile esposto al degrado e declino di ogni facoltà fisica e mentale e a sofferenze insopportabili, desidera essere aiutato a morire sereno.

Già nel 1994 il teologo aveva enunciato il concetto del «morire con dignità». Due tragiche esperienze, ricorda l’articolo ripreso da siti e agenzie di stampa del mondo globale, hanno segnato la sua vita. Prima la morte di suo fratello, che a 23 anni, nel 1955, fu ucciso da un tumore cerebrale: mese dopo mese, l’atletico ragazzo soffrì del rapido decadere d’ogni facoltà mentale e fisica, alla crisi funzionale terminale d’ogni organo vitale, alla fine morì soffocato dall’acqua che gli saliva dai polmoni. Cinquant’anni dopo, morì per un processo di demenza il suo amico, il grande intellettuale Walter Jens. Esperienze che segnano e fanno riflettere, tanto più se credi in Dio e se hai passato una tua vita a chiedere al mondo di riflettere sul ruolo della Chiesa, della vita, dell’Onnipotente.

Non sempre, ricorda Hans Küng nel suo libro appena uscito, i cristiani hanno condannato la scelta di morire. Per primo fu Sant’Agostino a condannare il suicidio, ma durante la persecuzione dei cristiani per opera del pagano e decadente Impero romano, chi credeva in Cristo preferiva morire piuttosto che tradire altri fedeli parlando sotto tortura. Perché allora vedere nel suicidio la via verso l’Inferno, perché non accettare l’aiuto a chi vuole morire?

Bene sarebbe, suggerisce il libro, liberalizzare ampiamente l’attività delle associazioni che aiutano a morire, anche accettando che lo facciano a pagamento, così come parroci chiese e autorità si fanno pagare per i funerali. Bene sarebbe accettare che le persone decise a non sopportare più dolori tremendi e a non continuare a vivere possano decidere sovrane. Tesi provocatoria. «Non voglio esaltare il suicidio», precisa Küng. Ma per la prima volta chi è a favore dell’aiuto alla dolce morte per libera scelta ha un teologo cattolico dalla sua parte.

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5 novembre 2014 3 05 /11 /novembre /2014 21:18

Padre d'Ors

Parla lo scrittore e consigliere di Papa Francesco: "Il Pontificio Consiglio ha chiesto una relazione sul ruolo femminile. Ormai i tempi sono maturi. Rousseau e Einstein erano capaci di esperienze spirituali profonde anche senza Dio" 

SIMONETTA FIORI – La Repubblica

"PERCHÉ mi ha scelto papa Francesco? Un mistero. Forse avrà chiesto: qual è il prete più marginale di Madrid?". Pablo d'Ors scoppia in una risata mentre s'inerpica nella sua casa del quartiere Tetuán, una specie di torre su quattro piani che sarebbe piaciuta a Montaigne. È qui, tra il piano della biblioteca dove d'Ors compone i suoi romanzi e la cappella su in alto dove recita messa, che sta maturando un'altra rivoluzione del pontificato di Bergoglio. Finora se n'è parlato poco, anzi per niente. E per scoprirla bisogna venire a trovare questo outsider delle lettere e del sacerdozio che emana una vitalità allegra.

Davvero inclassificabile, padre d'Ors. "Scrittore mistico, erotico e comico", così lui si presenta rivelando la sua vocazione al paradosso. I suoi primi bellissimi racconti del Debutto si prendevano beffa delle letteratura mondiale, narrando le gesta di una signora slovacca che fa l'amore con i più grandi scrittori del Novecento. Pagine sorprendenti in cui si possono leggere riflessioni del genere: "Pessoa è lo scrittore che ha dormito di meno in tutta la letteratura mondiale". Cresciuto in una famiglia colta - il nonno era Eugenio d'Ors, un monumento della cultura spagnola - Pablo s'è sempre nutrito di parole, per poi approdare alla Biografia del silenzio , un manifesto della meditazione che è diventato un caso editoriale in Spagna (tradotto da Vita e Pensiero). Non più giovanissimo, a 27 anni, dopo una vita ricca di amori, letture, viaggi anche spericolati, ha scelto il sacerdozio: ora nell'ospedale Ramón y Cajal accompagna i malati a morire. Quest'anno è stato chiamato dal Pontificio Consiglio della Cultura presieduto dal cardinal Ravasi, dove a febbraio porterà il suo mattone per la costruzione di un nuovo immenso edificio.

Che incarico le è stato affidato? "Sono uno dei trenta consiglieri nominati in tutto il mondo. Ci hanno chiesto di presentare una relazione sul ruolo della donna nella Chiesa. Ormai sono maturi i tempi per percorrere nuove strade".

Si parlerà dell'apertura del sacerdozio alle donne? "Non posso dire apoditticamente di sì, ma penso che dietro la prossima riunione plenaria ci sia questa impostazione".

Lei è favorevole? "Assolutamente sì, e non sono da solo. Che la donna non possa essere prete per il fatto che Gesù era un uomo e che avesse scelto solo uomini è un argomento molto debole. È una ragione culturale, non metafisica".

Cosa porterebbero le donne? "La vita. E tanta ricchezza. Il cambiamento è necessario, anche perché si tratta di una discriminazione inaccettabile. Per preparare il mio lavoro ho parlato con moltissime donne di diversa estrazione sociale e culturale, cristiane e non cristiane: con una sola eccezione, tutte si sono mostrate favorevoli".

C'è ancora molta resistenza? "Sì, non solo nella curia ma anche nella base. La novità fa sempre paura. Invece un criterio importante per misurare la vitalità spirituale di una persona è la sua disponibilità al cambiamento. Resistere alla vita è un peccato perché la vita è svolgimento continuo".

Questo vale anche per la Chiesa? "Soprattutto per la Chiesa".

Lei che tipo di sacerdote è? "Sono un prete felice. Ho sentito una voce interiore. E quando vivi la vita come risposta a una vocazione provi la felicità. Questo non significa che non ci siano stati momenti difficili".

Il fatto di aver molto vissuto prima di prendere i voti... "... anche ora vivo intensamente".

Sì, ma il fatto di aver avuto molte storie d'amore la rende un sacerdote migliore? "Conoscere l'amore umano aiuta a conoscere meglio l'amore divino. Oggi posso dire che mi ha aiutato, mentre nel momento in cui lo vivevo avevo l'impressione che mi facesse male. Bisogna avere il tempo per elaborare l'esperienza".

I suoi rapporti con le gerarchie vaticane non sono stati sempre sereni. "Si riferisce ad Antonio Maria Rouco Varela, ex vescovo di Madrid? Avevamo due modi molto diversi di intendere la presenza cristiana nel mondo. Potrei sintetizzarlo in due parole: alternativa oppure dialogo. L'alternativa ti porta a una visione chiusa del cristianesimo, separato da un mondo visto come sentinella di tutti i vizi. Il dialogo significa riconoscere nel mondo anche la bellezza e il bene. Dunque non ti impongo la mia verità assoluta, ma ti invito a metterti in dialogo con me per trovare insieme la verità. Francesco è un vero pontefice perché crea ponti intorno a sé".

Oggi lei lavora nell'ospedale di Ramón y Cajal. Come si accompagna una persona a morire? "Ascoltando veramente ciò che dice, senza giudicare intellettualmente o caricare emotivamente. Ascoltare e basta, dimenticando se stessi, che è la cosa più difficile".

Lei ha detto che morire da cristiani non comporta meno angosce che morire da laici. "Un momento. Se sei davvero un credente ti aiuta. Non ti aiuta quando sei cristiano di nome ma non di cuore".

Ma si può vivere una buona vita senza Dio? "Certo che si può vivere senza un Dio. Non si vive bene senza contatto con la fonte della pienezza, si chiami Dio, essere o vita. Persone come Einstein o Rousseau non erano credenti, ma capaci di esperienze spirituali profondissime".

Lei perché scrive romanzi? Pensava a sé quando fa dire a Pessoa: "Non scrivo ciò che penso, ma scrivo per pensare"? "Uno ritiene ingenuamente che la scrittura serva per comunicare, ma questo vorrebbe dire che io so già cosa devo dire. In realtà la scrittura è rivelazione, nel senso che rivela a te stesso quello che devi scrivere. Non è un fatto solo intellettuale, ma più profondo, direi viscerale".

Ma perché poi lei è approdato all'elogio del silenzio? Non c'è un aspetto paradossale, ossimorico, nel biografare il silenzio? "Solo in apparenza. Parola e silenzio sono le due facce di una stessa medaglia. Le parole vere, quelle che hanno la possibilità di toccare l'altro, nascono dal silenzio, ossia dall'intimità con se stessi. E approdano al silenzio perché la cosa più bella, quando leggi un libro, è il bisogno di ricreare tu stesso quello che hai letto. In fondo la letteratura è un invito a tacere".

Il silenzio come l'unica etica possibile. Lei lo fa dire a Thomas Bernhard. "Sì, per me è stato fondamentale. È Bernhard a teorizzare che tutto è citazione. La letteratura nasce dalla letteratura. Anche i miei romanzi nascono ai margini dei libri altrui".

Lei si definisce scrittore erotico, mistico e comico. Ma cosa tiene unite cose così diverse? "L'ironia è lo stile, misticismo ed erotismo sono i contenuti. Sia la mistica che l'eros cercano l'unità: ricompongono la separazione nell'unione dello spirito e dei corpi. Quanto alla leggerezza, è quella che genera l'allegria del lettore".

A proposito di leggerezza, ne Il debutto fa a pezzi Kundera e molti altri. Grandi scrittori, ma piccoli uomini. "L'ironia ha anche una funzione liberatoria. Quasi una dichiarazione di principio: ecco i miei maestri, ma non voglio restare schiacciato sotto queste bestie della letteratura".

Ma perché introdurre il tema corporale: l'organizzatrice slovacca che si lascia possedere da tutti i grandi intellettuali? "Ho voluto mostrare un inganno. Noi ci illudiamo di possedere libri e persone. Ma, dal momento che non è possibile padroneggiare tutta la letteratura, la cosa più facile è accedere al corpo degli scrittori".

La sua critica ricorrente verso gli scrittori è di preferire la scrittura alla vita. "Per molti la letteratura è un modo vicario di vivere la realtà. Credo invece che ciascuno dovrebbe fare un'opera d'arte non solo della scrittura, ma anche dalla propria vita. Thomas Mann l'ha capito benissimo. Proust e Kafka, al contrario, hanno sacrificato le loro esistenze alla letteratura".

 Primum vivere. Ma i sacerdoti vivrebbero meglio con una donna al loro fianco? "I tempi sono maturi anche per questa svolta, ma è solo una mia opinione personale. E nel Pontificio Consiglio, no, di questo non si parlerà".

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28 ottobre 2014 2 28 /10 /ottobre /2014 20:39

MACIEJ Zieba adopera il concetto di "società veritale" per significare quella forma di coesistenza umana in cui «l'intera vita individuale, dalla culla alla tomba, così come la vita collettiva» sono imperniate su «una verità trascendente universalmente riconosciuta». E per chiarire che forma ha in mente, Zieba si affretta ad aggiungere che «questo vale non solo per gli Aztechi e i Masai ma anche per i seguaci di Marx e Mao, e per chi nutre una fiducia acritica e quasi-religiosa nella fisica e nella genetica». Aggiungerei i credenti quasi religiosi nel Pil, nel commercio, nell'informatica. In tutti questi casi la divinità è una; questo tratto comune relega ai margini le differenze tra un caso e un altro.

Nell'idea di "verità", non importa se associata o no al termine "uno", c'è dal principio un suggerimento arduo da togliere che qualcosa di "unico" ci sia o almeno vada presupposto. Quella di verità è un'idea agnostica per la sua origine e la sua natura. È infatti un concetto che può emergere solo dall'incontro col suo contrario, con un antagonista. La necessità del concetto di verità è avvertita dal momento in cui l'affermazione «è quel che è» diventa insufficiente e occorre aggiungere «e non è quel che dicono alcuni (chiunque siano) ». "Verità" è a suo agio in un lessico del monoteismo, e, in ultima analisi, in un monologo. Ed effettivamente, usare "verità" al singolare in un mondo polifonico è come voler applaudire con una mano sola... Con una mano si può dare un ceffone, ma non applaudire.

Ecco perché le parole di papa Francesco sull'aprire le porte e andare incontro a tutti, pronunciate ad Assisi, e più ancora le sue parole sul comunicare non per far proseliti ma per capirsi, mi hanno così toccato; soprattutto perché pronunciate conversando con un agnostico dichiarato e direttore di un autorevole giornale anticlericale, che stampa regolarmente nelle sue colonne punti di vista mal deglutiti dai cardinali. Mi hanno commosso perché succede molto di rado, per non dire mai, nei monologhi a puntate spacciati per "dialoghi". Non è a queste forme molto comuni di finto dialogo che Francesco guarda, né nelle conversazioni a cui partecipa di persona né nella teoria del dialogo che, tenacemente, promuove da anni. In un articolo pubblicato in origine nel 1990, riproposto nel 2005 solo con modifiche minori, egli considerava il finto dialogo un segno di corruzione, la corruzione essendo, diversamente dal peccato (che si può perdonare), imperdonabile; la corruzione, lungi dall'andar perdonata, «andrebbe curata». Il marchio dell'individuo corrotto, secondo Jorge Mario Bergoglio, sta nel «prender male qualunque critica. [Un individuo così] svaluta chi lo giudica negativamente, e vorrebbe disfarsi di qualsiasi autorità morale atta a disapprovare qualche aspetto della sua condotta; giudica gli altri e disdegna chi è di parere diverso. Il loro [dei corrotti] modo di perseguitare è imporre un sistema di terrore a chiunque li ostacola; si vendicano rimuovendo [gli oppositori] dalla vita sociale». «Il corrotto non riconosce la fratellanza né l'amicizia, solo la collaborazione. L'amore verso i nemici per lui conta nulla, al pari della distinzione di amico e nemico su cui si basava il diritto antico. Piuttosto, egli si muove nell'ottica dell'opposizione collaboratore- nemico. Così un corrotto con un incarico pubblico finisce sempre per coinvolgere altri nella propria corruzione. Li abbasserà al suo livello e li farà complici della scelta». Inoltre ala persona corrotta non vede la sua corruzione. È come con l'alito cattivo: chi ne soffre non se ne accorge».

Tirando le somme, è possibile indicare un'emozione tipica del corrotto e del suo comportamento: l'odio, l'opposto dell'amore. Quell'amore che Henryk Elzenberg, un importante filosofo etico polacco, ha definito come «la gioia dell'esistenza di qualcun altro». In particolare, il corrotto odia chi non collabora, chi si sente in diritto di pensare diversamente, chi fa resistenza. Chiudo gli occhi, mi turo le orecchie... mi affretto a premere "cancella" quando sul monitor mi imbatto in un'idea in disaccordo con le mie. Hic, davanti al portatile, all'i-Pad o allo schermo dell'i-Phone; e nunc, nelle circa sette ore che l'uomo medio di oggi passa a guardarli. Questo hic et nunc che abbiamo avuto in dono dall'intelligenza artificiale, è una "comfort zone"; uno spazio al riparo dalle controversie, dalla stancante necessità di portare prove e argomenti a sostegno di ciò che diciamo, e dal pericolo di esser smentiti in uno scambio dialettico. Hic et nunc, in un mondo sempre più affollato e congestionato in cui chiese cattoliche, luterane e ortodosse, moschee, sinagoghe e luoghi di culto metodisti, battisti e dei Testimoni di Geova, si contendono lo spazio disponibile a volte nella medesima strada, ignorarsi a vicenda è sempre meno possibile.

Come Jorge Bergoglio prima di lui, papa Francesco non solo predica la necessità del dialogo, ma la pratica. Di un dialogo vero, tra persone con punti di vista esplicitamente diversi, che comunicano per comprendersi. Non di un dialogo all'insegna dell'elogio reciproco, pensato dall'inizio per concludersi con una standing ovation; né un "dialogo" (solo in apparenza di tipo opposto) che sia in realtà una mera giustapposizione di monologhi. È stata una decisione molto significativa da parte di Francesco concedere la prima intervista alla stampa del suo pontificato all'apertamente anticlericale La Repubblica, rappresentata, con Eugenio Scalfari, da un decano del giornalismo che non fa mistero di non essere credente.

Di sicuro l'arte che papa Francesco predica, e pratica lui stesso ogni giorno, è difficile da imparare e, più ancora, da attuare quotidianamente. La sua meno rischiosa alternativa è molto più allettante. Dopo tutto, in un dialogo degno del nome si deve mettere in conto anche l'insuccesso; la possibilità che il nostro punto di vista, ciò in cui crediamo, risulti errato, o che il nostro interlocutore risulti più nel giusto di noi... Simili timori tendono ad aggravarsi e moltiplicarsi, perché meno ci confrontiamo con persone e punti di vista diversi dai nostri, più si indebolisce la nostra capacità di provare i meriti della nostra posizione (che è tutt'altro, naturalmente, dal cercare di aver la meglio alzando la voce, o dal turarsi le orecchie per non sentire le ragioni di chi consideriamo nient'altro che un nemico) e aumentano i nostri motivi di temere il confronto. Ma non lasciamoci indurre in tentazione! Sottrarci al dialogo, voltare le spalle al dovere di confrontarci con la varietà delle umane ricette per una vita decente, ci darà forse la pace mentale (benché, senza dubbio, solo per un po') ma non risolverà nessuno dei problemi che minacciano il pianeta di estinzione e avvelenano la vita dei suoi abitanti. Per il futuro dell'umanità in un mondo irreversibilmente multiculturale e multicentrico, l'accettazione del dialogo è una questione di vita o di morte. Il monoteismo produce solo monologhi ma il nostro è un mondo polifonico

Zygmunt Bauman

Francesco e il coraggio di sfidare la Verità

Risposta a Zygmunt Bauman sul dialogo secondo Papa Francesco 

EUGENIO SCALFARI - La Repubblica

È MOLTO difficile e per me in particolare che sono da tempo arrivato a considerare Berlusconi un disastro non solo per la nostra vita pubblica ma anche per i pensieri e i rapporti dell’Italia a livello internazionale, interessarmi a quanto scrive Zygmunt Bauman su Papa Francesco. Pochi giorni fa abbiamo pubblicato un suo articolo su Repubblica che tratta a fondo di questa questione ed ha un titolo estremamente significativo: "Se il Papa ama il dialogo vero più della verità". È tratto da una dissertazione tenuta alla Cattolica di Milano ed è chiarissima l’intenzione dell’autore che il titolo fedelmente rispetta: il dialogo vero ha più senso della verità assoluta.

Questo tema solleva com’è evidente una quantità di problemi che pongono in discussione "l’assoluto" e appunto la Verità che lo rappresenta. Si era mai sentito un pontefice che rappresenta il Vicario di Cristo in terra mettere in discussione la Verità assoluta? Il testo di Bauman descrive con molta chiarezza il gruppo di questioni che il suo articolo, ma soprattutto quello che ha detto papa Francesco, solleva. Cito la parte essenziale di quel testo: "La verità è un’idea agnostica per la sua origine e la sua natura. È infatti un concetto che può emergere solo dall’incontro con il suo contrario, con un antagonista. Verità è a suo agio in un lessico monoteistico e in ultima analisi in un monologo ed effettivamente usare 'verità' al singolare in un mondo polifonico è come voler applaudire con una mano sola. Con una mano sola si può soltanto dare un ceffone o una carezza, ma non applaudire. Papa Francesco non solo predica la necessità del dialogo ma la pratica. Di un dialogo vero tra persone con punti di vista esplicitamente diversi che comunicano per comprendersi. È stata una decisione molto significativa da parte di Francesco concedere la prima intervista del suo pontificato all’apertamente anticlericale La Repubblica rappresentata con Eugenio Scalfari da un decano del giornalismo che non fa mistero di non essere credente. Per il futuro dell’umanità in un mondo irreversibilmente multiculturale e multicentrico, l’accettazione del dialogo è dunque una questione di vita o di morte".

Ringrazio l’amico Bauman per la citazione che peraltro è pertinente al tema. È un tema infatti o meglio un gruppo di temi che domina o dovrebbe dominare il mondo intero ma purtroppo non è così perché una parte rilevante di popoli, pur essendo colti e notabili nella politica, nell’economia, nelle scienze sociali, nella medicina, è tuttavia indifferente a queste questioni. Indifferente nel senso che li rimuove perché richiamano l’inevitabile appuntamento con la morte e la morte è qualche cosa di comprensibilmente preoccupante. Alcuni pensano che sia la fine di tutto, altri sperano che sia l’inizio d’una nuova vita sia pure in forme assai diverse da quella precedente e ben conosciuta. Comunque è un pensiero inquietante, quale che sia il modo in cui si definisce e quindi viene rimosso, nascosto in qualche interiore caverna dalla quale comincia a sbucare soltanto quando l’età incalza e quell’appuntamento si avvicina. Non se ne conosce né il come né il quando ma si sa che avverrà e la rimozione diventa da un certo punto di vista ancor più necessaria ma da un altro punto di vista sempre meno possibile.

Papa Francesco è dunque, tra i numerosissimi vicari di Cristo che guidano la Chiesa da ormai duemila anni, uno dei pochissimi, secondo me addirittura l’unico, che affronta in questo modo il problema della Verità e quindi dell’assoluto. In una nostra recente conversazione gli chiesi che mi spiegasse che cosa è per lui la Chiesa missionaria, della quale parla in continuazione e ne incoraggia la crescita.

La risposta fu anzitutto una premessa: "Io sono religiosamente cresciuto nella compagnia di Gesù e sono tuttora interamente gesuita. Lei di recente l’ha scritto ma molti ne dubitano, se non altro perché pur potendo scegliere come nome pontificale quello di Ignazio, mai usato finora da nessun pontefice, ho scelto invece quello del Santo di Assisi. Anche quello non era mai stato scelto prima ma perché un gesuita che tale si sente dalla testa ai piedi non sceglie il nome di Ignazio ma quello di Francesco?"

Gli dissi che credevo di saperlo e cioè perché Francesco era un mistico e lui ama i mistici pur non essendolo affatto.

"È vero, questa è certamente una delle ragioni e forse la prima, ma non la sola. Francesco amava una confraternita itinerante di frati che avevano fatto rinuncia a tutti i piaceri della vita ma non alla gioia, non all’allegrezza, non all’amore. Alcuni di essi e lui soprattutto erano profondamente mistici in ogni atto, in ogni istante della loro vita, nel senso che si identificavano con nostro Signore, dimenticavano il loro io. Sentivano l’amore verso di lui e verso le creature che lui insieme al Padre aveva creato: le stelle, i tramonti, i fiori, gli animali, le donne, i bambini, i vecchi e insomma tutto ciò che ci circonda e al quale noi possiamo offrire soltanto l’amore in tutte le sue manifestazioni filiali, fraterne, paternali. Questo è stato il Santo di Assisi. La sua vicinanza a Santa Chiara è uno dei segnali più significativi, ma quello che lo identifica nel misticismo permanente sono le stimmate che a un certo punto comparvero su di lui com’erano comparse sulle mani del Signore. Ciò non significa che lui non si occupasse anche di questioni pratiche, concrete e vorrei dire politiche. Voleva che la sua confraternita avesse delle regole e passarono molti anni perché il papa gliele concedesse. Fu posta tuttavia una condizione: una parte dei frati francescani doveva predisporre e alloggiare in appositi conventi e soltanto un’altra parte sarebbe stata missionaria e itinerante. Francesco accettò. Quelli nei conventi riscoprirono San Benedetto, lo studio, il lavoro e la questua; ma la vera chiesa francescana missionaria fu quella itinerante".

Perché Santo Padre - gli chiesi - la Chiesa deve essere soprattutto itinerante e comunque missionaria? La risposta di Francesco fu immediata: "Noi dobbiamo parlare le lingue di tutto il mondo il che non significa soltanto e necessariamente i linguaggi veri e propri. Pensi che in Cina esistono almeno cinquantamila diversi linguaggi. La chiesa missionaria deve soprattutto capire le persone che incontra, il loro modo di pensare, la loro sintonia. Questa è la premessa che come vede è al tempo francescana e gesuitica perché la nostra Compagnia ha sempre fatto questo: capire gli altri, che siano miserabili socialmente, impreparati culturalmente, oppure colti, notabili nella vita sociale; e ancora meno rilevante per questa conoscenza degli altri sono le loro posizioni politiche, importanti per la vita pubblica dei popoli ma non per la religione. La religione aborre il politichese, non è e non dev’essere cosa nostra. Se per politica s’intende una visione del bene comune che per noi è quella contenuta nella nostra religione, allora sì, anche la politica diventa importante, le istituzioni diventano importanti per il bene di tutti, poveri e ricchi, colti o ignari, donne o uomini o bambini o vecchi. Il popolo si deve dedicare e realizzare queste istituzioni ma non innalzando il nome di un dio. Nessuno può appropriarsi del nome di un dio che è ecumenico e creatore".

E la Chiesa missionaria verso la quale lei ha così grande attenzione che cosa deve dunque fare? "La Chiesa deve entrare in sintonia con i linguaggi delle persone che incontra, capire come la pensano, quali sono le modalità dei loro rapporti con gli altri e con se stessi e una volta capito questo la Chiesa esorta le persone che ha incontrato verso il bene, fermo restando il libero arbitrio che il Creatore ha concesso a noi esseri umani".

Ricordo queste conversazioni con Sua Santità, cominciate circa otto mesi fa e più volte ripetutesi, l’ultima delle quali nello scorso settembre. Le riflessioni dell’amico Zygmunt Bauman mi hanno indotto a riprendere questi concetti che anche lui a quanto leggo dai suoi vari interventi e in particolare nell’ultimo su Repubblica segue con interesse e in gran parte, credo, condivide. Certo converrà con me su un aspetto peraltro essenziale: i papi hanno sempre riformato la Chiesa, all’interno ed anche all’esterno. Ma soprattutto all’interno, nelle regole che si danno ai vari ordini, nei modi con i quali i loro membri convivono tra loro e nei poteri che hanno nei confronti della Chiesa-Istituzione. All’esterno questi aggiornamenti sono stati molto più rari. Il cardinale Walter Kasper ha paragonato la Chiesa ad un castello con un ponte levatoio quasi sempre alzato. Papa Francesco ha ripreso questa frase e l’ha commentata dicendo che se il ponte levatoio non è abbassato e non consente quindi l’entrata e l’uscita, allora la Chiesa rischia di morire. Il Concilio Vaticano II avvenuto più di mezzo secolo fa, ha concluso, in totale dissenso con il Vaticano I, esortando la Chiesa a prendere contatto col mondo moderno. Se capisco bene, prendere il contatto significa capirlo, entrare, come dice il Papa, in sintonia con esso.

E la verità? Il Papa rifiuta la parola relativismo cioè un movimento vero e proprio con caratteristiche di politica religiosa; ma non rifiuta la parola "relativo". Il relativismo no ma che la verità sia relativa questo è un dato di fatto che il Papa riconosce e il titolo e la dissertazione con Bauman ne fanno piena fede. Naturalmente c’è la dottrina elaborata dai pensatori religiosi della patristica e da quelli che si succedettero nei secoli fino ad arrivare a Domenico e a Tommaso e perfino a Carlo Borromeo. Essi elaborarono, ciascuno a suo tempo e a suo modo, la dottrina la cui fonte principale però fu Paolo, apostolo per autodesignazione. La dottrina fu elaborata principalmente da lui e in parte dalla comunità ebraico-cristiana di Gerusalemme guidata a suo tempo da Pietro e da Giacomo.

La dottrina che noi leggiamo, cristiani o non cristiani, è il racconto che gli evangelisti fecero della vita e della predicazione e più della predicazione che della vita della quale i punti culminanti furono il discorso della montagna, l’ultima cena, la meditazione solitaria del Getsemani e infine e soprattutto la crocifissione. Questi racconti, l’ho già ricordato più volte ma credo sia utile ripeterlo, furono scritti da persone che non conobbero e non videro mai Gesù di Nazareth; racconti di seconda mano se non addirittura di terza che non di meno hanno fornito nei secoli, sia pure con continui rimaneggiamenti, una struttura dottrinaria che ha dato sostegno alla religione. Allo stesso modo altre religioni monoteiste sono nate su racconti poiché dio non parla con la sua voce. Dio non ha voce così come non ha nome e non ha figura immaginabile. Il Figlio ce l’ha e forse proprio per questo i cristiani lo inventarono così come le altre religioni monoteistiche inventarono le loro figure rappresentabili e immaginabili, a cominciare da quella di Mosè e a chiudere con quella di Maometto e dei suoi successori

. A me piacerebbe molto che l’amico Zygmunt Bauman, se avrà tempo e voglia, esprimesse la sua opinione su questi ed altri pertinenti problemi.

 

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7 ottobre 2014 2 07 /10 /ottobre /2014 19:28

L a posta in gioco del Sinodo è molto grande: riguarda la Chiesa in se stessa, in quanto verificherà l’effettiva leadership di cui gode papa Francesco presso i vescovi e i cardinali, e riguarda ancor più la capacità del cattolicesimo di tornare a parlare alla coscienza contemporanea. Per quanto concerne il primo aspetto occorre considerare che questo pontificato, a un anno e mezzo dal suo inizio, si trova per la prima volta di fronte a una prova decisiva: quella di vedere o no confermato dall’assise sinodale lo stile completamente nuovo da esso impresso all’azione della Chiesa, e quindi inevitabilmente anche alla sua identità. Con papa Francesco infatti si è passati da un papato dal profilo sostanzialmente dottrinario (secondo cui il papa è colui che spiega, insegna, corregge, e così governa) a un papato dal profilo esistenziale e spirituale (il papa è colui che capisce, condivide, soffre e gioisce con, e così governa), ma non è per nulla chiaro se questa trasformazione radicale sia apprezzata e voluta dai vescovi e dai cardinali.

Al di là della retorica delle dichiarazioni ufficiali, quanti di essi sono disposti a seguire fino in fondo Francesco passando da una Chiesa in cattedra a una Chiesa “ospedale da campo”, a lasciare i privilegi del potere e a prendere “lo stesso odore delle pecore”? Se si dovesse tenere oggi il Conclave, quanti cardinali elettori rivoterebbero Bergoglio? …

Che vi sia una dura opposizione al rinnovamento papale da parte dell’ala intransigente della Chiesa cattolica è sotto gli occhi di tutti: ne fanno parte cardinali importanti tra cui il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Gerhard Müller, vescovi, teologi, responsabili di movimenti ecclesiali, opinionisti come l’ateo devoto Giuliano Ferrara, il saggista Antonio Socci che è giunto a mettere in dubbio la legittimità dell’elezione di Bergoglio. Si tratta di posizioni isolate oppure della punta di un grosso iceberg che costringerà la caravella papale a una mutazione di rotta? Probabilmente dopo questo Sinodo si avranno le idee più chiare su quanto pesano tra le gerarchie cattoliche gli oppositori di papa Francesco.

C’è però un aspetto ancora più importante in gioco nel Sinodo. In esso infatti non ne va solo del destino di un singolo papato, ma del cattolicesimo in quanto tale nella sua capacità di comunicare con profitto alla coscienza contemporanea secondo quel processo di rinnovamento iniziato da papa Giovanni XXIII con il Vaticano II (1962-1965) e purtroppo rimasto incompiuto. Il VaticanoII rinnovò l’autocomprensione della Chiesa in ambiti importanti come la libertà di coscienza, l’ecumenismo, il dialogo interreligioso, la liturgia, la morale sociale, in genere il rapporto della Chiesa con la storia e la cultura. Non riuscì però a estendere tale rinnovamento anche all’ambito della morale individuale e familiare perché Paolo VI (subentrato nel 1963 a Giovanni XXIII) sottrasse all’assise conciliare la possibilità di dibattere sulle questioni sessuali avocando a sé l’intera materia e pubblicando nel 1968, a tre anni dalla chiusura del Concilio, la famigerata enciclica Humanae vitae. Con essa, sia nel contenuto sia nel metodo, la Chiesa ritornò al preconcilio.

Ne è sorta una Chiesa a due velocità: perfettamente in grado di coinvolgere la parte migliore della coscienza contemporanea quando si tratta di questioni sociali ed economiche, del tutto destinata all’isolamento quando si tratta di questioni sessuali e bioetiche. A questo proposito nella sua ultima intervista il cardinal Martini affermò: “Dobbiamo chiederci se le gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale: la Chiesa in questo campo è ancora un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media?” (Corriere della Sera, 1 settembre 2012), domanda a cui Martini aveva risposto con le dure critiche all’Humanae vitae nel suo libro Conversazioni notturne a Gerusalemme. I padri sinodali sono chiamati a prendere atto del fatto che la morale ufficiale della Chiesa cattolica in ambito sessuale e familiare è ormai una “caricatura”, lo è anche per la gran parte dei cattolici praticanti (come ha mostrato il sondaggio pre Sinodo voluto dal Papa).

Si può ancora continuare a sostenerla per amore di tradizione, ma si deve essere consapevoli che ciò significa collocarsi fuori dal mondo, e quindi rendersi incapaci di esercitare l’azione fecondatrice di cui il mondo ha tanto bisogno. Tale estraneità al mondo infatti non è certo riconducibile alla posizione profetica di chi si pone fuori dal mondo per capirlo meglio e operare su di esso con più efficace misericordia; coincide piuttosto con ciò che veicola il senso ordinario dell’espressione: essere fuori dal mondo = non capire nulla della realtà.

Chi oggi sostiene ancora il no ai sacramenti per i divorziati risposati, il no alla contraccezione, il no ai rapporti prematrimoniali, il no alla benedizione delle coppie gay, è fuori dal mondo nel senso che non ne capisce l’evoluzione. E con ciò si priva della possibilità dell’azione peculiare che il Vangelo chiede a chi vi aderisce, cioè l’amore.

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17 settembre 2014 3 17 /09 /settembre /2014 20:01

Vito Mancuso - la Repubblica

La nostra piccola anima non si perderà mai se continua a essere anche una donna, vicina a queste due grandi donne che ci accompagnano nella vita, Maria e la Chiesa ": così ieri nell’omelia mattutina ha affermato papa Francesco. Sono parole sorprendenti. Il Papa sostiene forse che l’anima è una donna? Che la nostra anima cioè possiede un sesso e la sua identità è femminile? Oppure si tratta solo di un’immagine poetica, dettata dal fatto che il termine anima in italiano e nelle principali lingue occidentali (spagnolo compreso, nonostante l’articolo maschile al singolare) è femminile? …

Quello che è sicuro è che nell’omelia di ieri il Papa ha affermato una delle più tradizionali dottrine cattoliche di sempre, cioè che Maria, madre biologica di Gesù, è anche la madre spirituale di ogni cristiano e che in questa prospettiva anche la Chiesa assume un volto femminile e materno. La Chiesa infatti, «quando fa la stessa strada di Gesù e di Maria», è madre, così che, ha continuato il Papa, «queste due donne, Maria e la Chiesa, generano Cristo in noi». A questo punto però, in analogia con le due donne maggiori, il Papa è giunto a parlare dell’anima umana come di una terza donna, che assomiglia alle prime due anche se è più piccola: «La nostra piccola anima non si perderà mai se continua a essere anche una donna». Ritorna così la questione: si tratta solo di un’immagine poetica oppure realmente l’anima va pensata al femminile?

La dottrina ecclesiastica sull’anima si può compendiare in tre precise affermazioni che ne dichiarano l’identità, l’origine e il destino. Quanto all’identità, il cattolicesimo pensa l’anima come un’essenza spirituale strettamente unita con il corpo materiale cui conferisce forma, e per questo parla di essa in termini di forma corporis (con evidente eredità aristotelica). Quanto all’origine, la dottrina cattolica sostiene che l’anima viene creata direttamente da Dio senza nessun concorso dei genitori, e che ciò avviene nello stesso istante del concepimento biologico, quando lo spermatozoo maschile feconda l’ovulo femminile (non più quaranta giorni dopo, come affermava san Tommaso d’Aquino e altri insigni teologi del passato).

Quanto al suo destino, il cattolicesimo afferma che l’anima è immortale (con evidente eredità platonica), sostenendo che essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo; anzi, essa verrà di nuovo unita al corpo alla fine dei tempi quando i corpi di carne verranno richiamati in vita. Al di là della plausibilità di queste dottrine da me indagate analiticamente nel libro L’anima e il suo destino, va notata l’assenza nella dottrina cattolica di ogni riferimento al sesso dell’anima. Anzi, essendo l’anima un’essenza spirituale, ed essendo lo Spirito al di là di ogni determinazione sessuale che consenta di parlarne in termini maschili o femminili (l’apposito termine è femminile in ebraico, maschile in latino, neutro in greco), sembrerebbe di dover concludere che l’affermazione di ieri di papa Francesco rientra nell’ambito delle immagini poetiche che i predicatori amano utilizzare nelle loro omelie senza nessuna diretta attinenza alla realtà ontologica dell’anima.

Io però ritengo che non sia così, e al contrario scorgo dietro l’intuizione papale un concetto molto importante che occorre sottolineare e su cui si dovrebbe riflettere attentamente. Per comprenderlo occorre rispondere a due domande, la prima delle quali è la seguente: quale fenomeno fisico portiamo al pensiero quando pronunciamo il termine anima? Rispondere è decisivo, perché se non si è in grado di mostrare il fenomeno fisico per esprimere il quale è sorto il concetto di anima, tale concetto risulta nulla più che un mitico retaggio del passato.

La mia risposta è la seguente: il fenomeno fisico che supporta il concetto di anima è la vita. Vita, ovvero quella particolare disposizione dell’energia che fa sì che un fenomeno fisico (un fiore, un orso) sia “animato”, a differenza di un altro fenomeno fisico (una pietra, una nuvola) che invece è “inanimato”. Il concetto di anima esprime la particolare condizione dell’energia in alcuni fenomeni fisici secondo cui il totale della loro energia non è del tutto condensato nella loro massa materiale, in essi rimane un’eccedenza di energia libera che consente al corpo di muoversi, di essere animato cioè vivente.

Ora la seconda domanda: qual è la logica fondamentale mediante cui si muove quel surplus di energia libera che ci fa esseri vivi e che chiamiamo anima, ma che potremmo anche chiamare vita? La mia risposta è la seguente: è la logica della relazione, dell’armonia relazionale, della cooperazione. La vita non è un fenomeno individuale, ma è da subito un fenomeno sociale, aggregativo: perché essa possa sorgere occorre l’aggregazione di quattro componenti biochimici quali proteine, zuccheri, grassi, acidi nucleici; perché essa possa evolversi occorre l’aggregazione di miliardi di cellule, e poi di tessuti, organi, sistemi di organi; perché essa possa esprimere sapienza occorre l’aggregazione di esperienze e conoscenze. Ne viene che il nome filosofico della vita in tutte le sue manifestazioni è relazione. E la relazione, eccoci al punto, è l’essenza della femminilità; di ciò che Goethe a conclusione del Faust denomina «das Ewig-Weibliche», l’Eterno Femminile, intendendo con ciò la logica al contempo naturale e divina mediante cui la vita si genera e si diffonde nel mondo, la medesima logica che salva Faust dal patto con Mefistofele donando alla sua anima «il perdono meritato».

Anche il gesuita Teilhard de Chardin amava ricorrere al femminile per connotare la logica che muove la materia: «Il Femminino ossia l’Unitivo». L’anima spirituale è quindi femminile, ha detto bene il Papa, lo è in quanto espressione della logica orizzontale della relazione, ben distinta dalla logica verticale dell’imposizione deduttiva che caratterizza l’archetipo del maschile. Tale consapevolezza del genere femminile della grammatica della vita spirituale si va sempre più diffondendo nel mondo, così che la Chiesa cattolica potrà uscire dalla sua crisi solo aprendosi al mondo femminile in tutte le sue strutture. Ovviamente gerarchia compresa. Il primo passo è il diaconato, e questo è possibile anche domani solo che il papa lo voglia davvero e non siano solo retorica omiletica le sue parole sulla femminilità della Chiesa. Non sarebbe ora di mettere fine al paradosso di una Chiesa che è donna, e la cui gerarchia è composta solo da maschi?

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9 luglio 2014 3 09 /07 /luglio /2014 14:35

Intervista a Paolo Ricca a cura di Antonio Gnoli in “la Repubblica”

I Valdesi, in fuga dalla Francia, giunsero nella Val Pellice intorno al 1200. E lì — grosso modo tra Cuneo e Torino — per secoli vissero rinchiusi come in un ghetto. Perseguitati e oppressi. Vado a trovare il teologo Paolo Ricca con qualche vaga nozione di storia. Abita nel rione Prati di Roma, a poche decine di metri dalla Chiesa valdese, di cui è stato un importante ministro. Da poco ho finitodi leggere il suo libro più recente dedicato all’Ultima Cena, quella che Gesù tenne con gli Apostoli.

Mi colpisce la dedica: «Ai medici che mi hanno curato in questi ultimi anni». Anni non facili per Ricca: «La malattia è un vortice che ti risucchia. Tende ad annullarti. Credevo di non farcela e di non essere all’altezza di quella serenità che una professione di fede ti trasmette. Ricordo di aver pensato: è tutto molto grave. Come andrà a finire? Non riuscivo a capirlo. Poi il lento riemergere e il tornare alla vita normale».

Anche Gesù, in quell’Ultima Cena, penso, torna alla vita e mai come in quell’evento il corpo e lo spirito si sono intimamente mescolati. Ma al tempo stesso divisi nelle interpretazioni che il cristianesimo darà di quell’episodio.

Professore chi ha “pagato” il conto di quella Cena? «Non è stata una cena al ristorante. Però il conto lo abbiamo pagato un po’ tutti. Nel senso che quell’evento ha diviso i cristiani. Mentre il pane e il vino di Gesù avrebbero dovuto unire».

È il destino lacerato del cristianesimo di cui i valdesi fanno parte. «La loro è una storia frastagliata. Nel Cinquecento aderirono alla riforma protestante. Calvino diede loro la confessione di fede, ma continuarono le persecuzioni. Nel 1848 la comunità ottenne i diritticivili. Solo dopo il Concilio Vaticano II i valdesi furono considerati alla stregua delle altre confessioni».

Lei è valdese da quando? «Da sempre. Sono nato a Torre Pellice che è il centro del movimento valdese. La mia famiglia vi arrivò nel 1600. Si stabilì nelle valli: luoghi spesso inaccessibili, resi ospitali dal duro lavoro». Un famiglia dunque contadina. «Mio nonno, a un certo punto, emigrò a Nizza e lavorò come portiere d’albergo. Riuscì a far studiare mio padre da pastore. Mia madre, in origine cattolica, si convertì e condivise con il marito il ministero».

Cosa vuol dire essere un pastore? «Cercare davanti alla tua comunità, che spesso è fatta di poche o tante persone, di assolvere l’insegnamento e la predicazione».

Concretamente? «Aiutare con rettitudine a vivere le vite degli altri. Affrontarne, con la stessa coerenza, le gioie e i terrori, i conflitti e le speranze. Vittorio Subilia, grande teologo e mio professore, provava una certa allergia sentendo pronunciare la parola ”pastore”. La considerava eccessiva. Carica di un compito sovrumano».

È così? «È un mestiere difficilissimo, che ho esercitato per anni prima di diventare professore di teologia».

Dove lo ha svolto? «Dal 1962 al 1965 sono stato pastore in una piccola comunità, a Forano Sabino, non lontano da Rieti. A quel tempo venni incaricato di seguire i lavori del Concilio Vaticano II e scrivere un commento teologico. Poi, per circa un decennio, sono stato pastore a Torino. Erano gli anni della contestazione. La gente disertava la chiesa. Mi chiedevo spesso se stessi facendo bene il mio lavoro. Trovavo difficile l’accordo tra le mie parole e quelle dell’Evangelo ».

Stava mettendo in discussione la sua fede? «Non dubitavo della fede ma di me stesso. Del fatto di non essere così sicuro di farcela».

Da dove nasce la fede? «Non nasce dalla paura della morte né dall’incertezza del futuro. La fede è un viaggio che non si conclude nell’arco di una vita. Quando inizia la fede comincia anche l’inquietudine. La fede rende inquieti ma non dubbiosi».

Che differenza c’è? «Il dubbio è un interrogativo rivolto a Dio. L’inquietudine è dubitare di se stessi, di ciò che si sta facendo, di quale società si intenda costruire, quale eredità lasciare ai propri figli. Da questo punto di vista, Dio diventa certezza. E non si sa perché».

Dio chiama, misteriosamente, come sperimenta Abramo. «E lui non può che rispondere. Perché la chiamata di Dio è più forte di tutte le obiezioni possibili».

Ammetterà che il comportamento di Abramo può essere visto come un caso di psichiatria. «Non lo nego. In fondo, non c’è nessuna evidenza di Dio e quindi il suo agire può effettivamente essere scambiato non solo per quello di un folle, ma addirittura come qualcosa di diabolico».

La non evidenza di Dio cosa comporta? «Che la fede è un salto. Ma non nel buio. Bensì nella parola che vince perché convince».

Siate astuti come serpenti e puri come colombe, mi pare dica Gesù. Non trova che i due piani confliggano? «Astuzia nel senso di un’esortazione al credente a essere intelligente. Mentre la purezza è non pensare male dell’altro».

Può la fede essere inutile? «Non è detto che se non ci fosse la fede il mondo sarebbe peggiore. Ma neanche migliore. Gesù ha invitato i suoi discepoli a essere servitori inutili. Quindi anche la fede può essere inutile. Ma Dio non è inutile, la fede in lui, sì, può esserla».

Non capisco la differenza. «Con la mia fede, più o meno vacillante, posso non servire a nulla. È irrilevante ciò che potrei fare. Ma Dio è l’altra possibilità. È l’altro mondo per questo mondo. L’altra umanità per questa umanità. È necessario che non identifichi il mondo, e l’altro, con me stesso. Che non faccia di ciò che mi circonda la proiezione del mio Io, come fossi un piccolo Dio. Dio è utile perché è l’altro da me».

Erano le posizioni del teologo Karl Barth «Nella prima fase del suo pensiero effettivamente Barth sostenne che l’Altro è Dio e non è uomo. Poi, negli anni in cui lo conobbi, attenuò questa tesi».

Lo ha conosciuto dove? «Seguii le sue lezioni a Basilea negli anni Cinquanta. Barth, nonostante la grandezza dei suoi studi, fu un uomo profondamente umile. Dotato di un’autoironia e una coscienza del limite che mi sorpresero. Ma il suo commento alla Lettera ai romani è pura dinamite».

Parlando di grandi teologi protestanti non si può non fare anche il nome di Dietrich Bonhoeffer. «Bonhoeffer fu un luterano, mentre Barth era vicino a Calvino e Zwingli. Entrambi però antihitleriani convinti».

Ci fu una compromissione dei protestanti con il regime nazista? «La Chiesa evangelica, in buona parte, si nazificò. E fu contro l’obbedienza alle direttive del regime che, nel 1934 durante il sinodo di Barmen, nacque una Chiesa confessante che in larga parte si oppose prima ai cristiani tedeschi e successivamente alla Germania hitleriana. Fu Karl Barth a prendere posizione contro il nazismo, e questo provocò il suo allontanamento dall’università di Gottinga e il rientro in Svizzera».

E Bonhoeffer? «Cospirò contro il regime partecipando all’attentato del 20 luglio del 1944. La bomba scoppiò ma Hitler ne uscì quasi incolume. Bonhoeffer fu arrestato e impiccato l’anno dopo».

Era giusto che un teologo, un pastore, condividesse un gesto di così estrema violenza? «Bonhoeffer non ha mai rivendicato un modello di comportamento. Ha solo applicato il detto luterano: pecca fortemente ma ancora più fortemente gioisci in Cristo. Fu un grande profeta del cristianesimo di domani che interpretò come un impegno per gli altri. Il suo insegnamento fu per me di grande aiuto. Ho compreso cosa significhi la pienezza della fede in un mondo secolarizzato».

Sono parole molto belle: la parola che vince perché convince, ha detto più sopra. Ma oltre la parola cosa c’è? Con quale gesto, decisione, contenuto la riempie? «Fin dall’inizio del mio ministero è stato il lavoro per la pace a coinvolgermi. Ossia la predicazione della non violenza come impegno sociale e culturale».

Mi scusi, ma siamo ancora sul piano della parole. «Le racconto una piccola storia. Conobbi anni fa e in modo del tutto casuale un monaco buddista. Era partito in pellegrinaggio da Auschwitz e per raggiungere Hiroshima. Viaggiava solo. Lo vidi nella piazza San Pietro. Seduto in terra. Batteva il tamburo e cantava le sue litanie. Le guardie lo allontanarono. Il monaco si spostò oltre il colonnato. Ma anche lì gli venne ingiunto di andarsene. Infastidiva i fedeli, dissero le guardie».

E cosa accadde? «Mi avvicinai e gli dissi che se avesse voluto avrebbe potuto recitare le sue preghiere davanti alla nostra chiesa valdese, e che lì nessuno lo avrebbe disturbato. Poi gli chiesi dove avrebbe dormito. Mi rispose che la strada era il suo giaciglio. Lo invitai a casa. Si alzava tutte le mattine alle sei e scendeva in strada per le sue litanie. Quasi tutto il tempo digiunò. Solo alla fine riprese a mangiare e a bere. E un giorno mi annunciò la partenza. Ci inchinammo in silenzio. E officiammo insieme, nella chiesa, un culto per la pace».

Era un uomo profondamente religioso. «Era un uomo giusto. Chiesi dove era diretto. Mi rispose sul Monte Sinai. Disse che da Bari avrebbe preso un traghetto per Patrasso. Gli domandai se lì c’era qualcuno che lo aspettava. Sì, concluse, c’è Dio che mi aspetta. Per un breve momento ho avuto la benedizione di affiancare quel monaco di cui nessuno sapeva nulla e a nessuno interessava. Fu una lezione straordinaria».

È una storia bella che le invidio. Ma al tempo stesso penso che occorra una grandissima fede per credere che Dio fosse lì ad attenderlo. Quante volte è stato detto: Dio non c’era o dov’era quando accadeva qualcosa di terribile. Dov’era Dio quando Auschwitz esplose in tutta la sua efferata tragedia? «Dio non è responsabile dell’accaduto e nessuno può impedirgli di essere libero».

È vero. Ma se Dio c’è e tace, è il suo silenzio che interroghiamo e che ci opprime. «Quel silenzio a volte l’ho subito e ripenso all’esperienza di Giobbe, segnata prima dal silenzio di Dio, e dagli amici di Giobbe che, insopportabilmente, lo giustificano. Poi, quando Dio parla, non risponde alla domanda di Giobbe: perché colpisci un innocente e ti comporti come un Dio ingiusto? È la fede che viene scossa. E non c’è una spiegazione esauriente dell’infinita sofferenza del mondo».

E nonostante ciò Giobbe continua a credere. «La sua preghiera diventa protesta ma non negazione di Dio. Mi viene in mente il racconto di un ebreo che, dopo la distruzione del ghetto di Varsavia, rivolge a Dio un’ultima preghiera: “Dio, hai fatto tutto quello che potevi affinché non ti amassi più. Sono morti i miei cari, gli amici, la moglie e i figli. Tra poco morirò anch’io. Hai provato di tutto pur di farmi perdere la fede. Ma io ti amo lo stesso”».

Si può chiamare eroismo della fede? «È il sovrumano nell’umano. La speranza che non muore. Davanti alla malattia mi chiedevo: come mi comporterò? Sono stato testimone di che cosa? Ho pensato agli ultimi giorni di Bonhoeffer. Prima di essere giustiziato tenne un culto con le poche persone con cui condivise la cella del carcere. Era solo un rito commiserevole? Non credo. Era il modo più profondo di ristabilire la pace tra gli uomini fin dentro il sacrificio estremo della morte».

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8 maggio 2014 4 08 /05 /maggio /2014 14:49

Una lettura mistica della Pasqua cristiana tra Hegel e antichi riti.

Marco Vannini - La Repubblica

Al primo plenilunio dopo l'equinozio di marzo le antiche comunità pastorali e agricole festeggiavano il passaggio dalla morte dell'inverno alla vita della primavera: perciò a quella data fu posto anche il mitico passaggio — la Pasqua, appunto — degli ebrei dall'Egitto. Pasqua è in effetti la festa del commovente, davvero "miracoloso" rifiorire della vegetazione e, insieme, del risorgere delle forze vitali, generative, in tutti i viventi. Lo indicano chiaramente i suoi simboli: dalle uova ai coniglietti, simpatici animaletti ben noti soprattutto per la loro solerzia sessuale. Del resto nel Nord Europa la festa ancora mantiene il nome Easter, Oster, che viene da Ostara, dea pagana della fecondità.

Non deve perciò stupire che anche nella storia del cristianesimo questo sfondo vitale e sessuale sia stato a lungo presente. Pensiamo al cosiddetto risus paschalis, ovvero la celebrazione liturgica con rapporti carnali, imitati o reali, tra turpiloquio e lazzi osceni che sollazzavano i fedeli nelle chiese proprio nel giorno di Pasqua. Documentato fin dall'alto medioevo, il risus paschalis è proseguito, soprattutto in Germania, fino al Ventesimo secolo, e anche ai nostri giorni c'è chi lo giustifica quale sana espressione popolare di quel piacere sessuale che proprio nella "gioia" pasquale avrebbe un fondamento teologico.

In effetti la resurrezione dei/dai morti, antichissima fantasia apocalittica giudaica, non aveva altro senso che quello di riproporre la vita fisica, e non c'è dubbio che della vita fisica l'esercizio della sessualità sia manifestazione essenziale. Non a caso nell'islamismo la felicità dei risorti ha il culmine nell'infinito reiterarsi del piacere sessuale, le cui modalità il Corano descrive in dettaglio, e in Israele i sadducei, che non credevano alla resurrezione, domandano a Gesù di chi sarà moglie, dopo la resurrezione, appunto, una donna che ha avuto più mariti: la vita beata dei risorti era pensata soprattutto come vita matrimoniale, sessuale.

La risposta evangelica a questa domanda è però sconcertante: a prendere moglie o marito sono i figli di questo mondo, ma quelli che saranno degni del mondo futuro non prendono moglie o marito e neppure possono morire, perché sono come angeli, già risorti. Dio è infatti Dio non dei morti, ma dei vivi ( Lc20, 24 s.). L'idea giudaica della resurrezione dei morti nel tempo finale è spostata dal mito alla realtà, ovvero sul piano di una resurrezione che avviene in questa vita, per la quale non si può più morire, perché la morte è già avvenuta. Questa morte è la morte dell'egoità, come quella del chicco di grano, che deve morire per portare frutto: è «odiare la propria anima», «rinunciare a se stessi», e la resurrezione è il «nascere di nuovo», dall'alto, non dal ventre materno ma dallo spirito, sperimentando la nuova vita, la vita dello spirito, appunto, come si legge nel vangelo di Giovanni.

Lo comprese bene Hegel: non quella che inorridisce davanti alla morte, ma quella che sopporta la morte e in essa si mantiene è la vita dello spirito; è proprio nell'assoluta lacerazione che lo spirito trova se stesso, «magica forza che sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui, capace di volgere il negativo nell'essere ». Occorre infatti non pensare il male, comprendere tutto quanto, anche quel che c'è di più lacerante, il tradimento da parte di chi ami: allora v'è spirito, si èspirito, ovvero il finito diviene infinito, il divino non più altro, ma tu stesso. «Nella notte in cui fu tradita, la sostanza divenne soggetto», scrive il filosofo tedesco, trasferendo nell'universale, col linguaggio speculativo della sua Fenomenologia dello spirito , la vicenda particolare della Passione di Cristo.

Passione, morte e resurrezione hanno evangelicamente un significato non mitico ma reale, non fisico ma spirituale, per cui la resurrezione è quella rinascita come spirito che pone nella dimensione dell'eterno. «Prima che Abramo fosse, io sono», dice Gesù ai giudei ( Gv 8, 58), esprimendo l'esperienza fondamentale di ogni tradizione spirituale: quella di essere già qui e ora nell'essere, nell'eterno. Appena ci si distacca da ciò che è transitorio, il nostro amore si estende a tutto il mondo, si scopre davvero come idem amor et spiritus sanctus e la gioia di tutte le creature diventa la nostra stessa infinita, estatica letizia. «Di questo Tutto, nel distacco, gioisci», esortano anche le Upanishad.

È un fatto, peraltro, che la primitiva comunità cristiana si costituì sul fondamento delle attese apocalittiche, per cui le apparizioni di Cristo dopo la morte furono interpretate proprio nel senso di una resurrezione, prova e pegno della resurrezione finale. Questa però fu più una costruzione teologica che un fatto reale. La resurrezione di Cristo non ha avuto testimoni, ha un carattere segreto: da solo, prima che facesse giorno. Egli compare alle donne e agli apostoli già "risorto". È un evento spirituale, non uno spettacolo dimostrativo: Noli me tangere , dice alla Maddalena, quasi a prendere le distanze da ogni fisicità e a mostrare che non è in atto alcun ripristino della corporeità. Cristo è apparso dopo la morte solo ai suoi amici e solo da essi viene riconosciuto. Il brano con cui Giovanni chiude il suo vangelo è determinante: a Tommaso, che crede solo dopo che e perché ha veduto il risorto, Gesù dice che beati sono quelli che credono senza aver veduto. Essi infatti hanno sperimentato interiormente la resurrezione, in loro soltanto v'è conoscenza dello spirito e della sua beatitudine.

Si comprende allora quanto fuorviante sia l'idea della resurrezione di Cristo come segno definitivo della sua divinità, della verità esclusiva della fede cristiana, e, insieme, come garanzia della finale resurrezione dei morti. Questo è il prodotto di Paolo, quel "funesto cervellaccio", come lo chiamò Nietzsche, che non comprese il messaggio evangelico della morte dell'anima e della rinascita nello spirito e costruì un dysanghelion, una cattiva novella, appoggiandosi a quella apocalittica giudaica. Se non c'è la resurrezione dai morti, neanche Cristo è resuscitato, scrive infatti (1 Cor 15, 17) mostrando come l'idea della resurrezione di Cristo dipenda da quella della resurrezione dai morti, propria della mitologia apocalittica.

In parallelo, l'affermazione paolina per cui vana è la nostra fede se Cristo non è risorto, mostra un concetto di fede non come esperienza spirituale interiore, la cui verità è testimoniata dalla coscienza, ma come credenza estrinseca, la cui verità dipende dal miracolo. E ciò è quanto di più antievangelico ci sia: nel vangelo infatti la ricerca del miracolo è sempre condannata come mancanza di fede, adorazione della forza, dunque non di Dio ma del demonio. La cosa è chiara proprio dalla resurrezione: proporla come una sorta di super-miracolo per convincere gli increduli è tipico dei falsi profeti, degli impostori. Secondo un'antica e ben documentata tradizione, era infatti Simon Mago ad organizzare resurrezioni di morti "dimostrative" della propria messianicità ed uno dei segni della fine dei tempi sarà proprio la messa in scena della propria, peraltro falsa, resurrezione da parte dell'ingannatore supremo, l'Anticristo.

Nei racconti apocalittici giudaici il ritorno dal mondo dei defunti è alla vita fisica

 Resurrezione è nascere di nuovo, dall'alto non dal ventre materno ma dallo spirito

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29 dicembre 2013 7 29 /12 /dicembre /2013 09:20

La nascita di Gesù fu posta dalla Chiesa latina al solstizio di inverno perché in quella data i romani festeggiavano il sol invictus, ovvero il sole che, giunto al punto più basso del suo corso nel cielo, non scompare, ma sembra fermarsi in attesa, e riprende da allora in poi vigore. Come molte altre, questa festività cristiana prese così il posto di una pagana: Cristo, sole di giustizia, sostituì la precedente divinità astrale. In questi giorni del solstizio tutti provano comunque una sensazione di pace, che invita al raccoglimento, alla meditazione, e non v'è dubbio che la stagione astronomica e meteorologica sia per questo determinante: il tempo sembra fermarsi, la natura sembra silenziosa, in ascolto, la vegetazione in attesa di rinascita. Oltre alla natura però contribuisce potentemente a questa sensazione la cultura, ovvero il passato cristiano, la cui influenza continua a farsi sentire nella nostra società post-cristiana: anche molti secoli dopo che Buddha era morto, come ricorda Nietzsche, la sua ombra continuò ad essere presente. E non meraviglia che sia così: quel passato era infatti ricco, forte, tanto - ad esempio - da dare a un oscuro maestro elementare e a un povero parroco di villaggio l'ispirazione per quella Stille Nacht, la cui struggente melodia, colma di nostalgia, muove tutti gli animi alla pace, all'amore, indipendentemente da ogni religione. Si capisce allora come la Chiesa cerchi di far leva su questo sentimento per cercare di ravvivare la fede che una volta si riteneva fondata su reali eventi storici, ovvero sulla "storia della salvezza" che da Adamo procede verso Cristo. Oggi, però, dal momento che quella storia appare per ciò che è, una mera costruzione mitico-teologica, la fede si è ridotta a una combinazione di sentimento più fantasia: una cosa da bambini, dunque. Non a caso ai nostri giorni il Natale è festa non solo per un Bambino, ma soprattutto per bambini. La fede è infatti in questo caso una credenza, che si difende con una sorta di infantile testardaggine, ignorando la realtà, tanto storica quanto psicologica. Se invece la fede è volontà di verità, essa guarda in faccia la realtà, scoprendo che quella credenza è desiderio di consolazione e rassicurazione, frutto del desiderio di permanenza di un ego che si sente debole e incerto e che perciò cerca "salvezza" nel rimando ad altro fuori di sé, restando così sempre nell'attesa, nell'anelito. La fede allora non produce affatto credenze ma, al contrario, le toglie via tutte, smascherando come menzogna anche l'immaginazione teologica. La fede - scrive san Giovanni della Croce - «non solo non produce nozione e scienza, ma anzi accieca e priva l'anima di qualunque altra notizia e conoscenza: la fede è notte oscura per l'anima e, quanto più la ottenebra, tanto maggiore è la luce che le comunica». Fede come notte, dunque, ma una notte che mentre libera da ogni presunto sapere di verità esteriori, fa risplendere una luce interiore, sapere non di altro ma di se stessa, sapere che è un essere: questa, possiamo dire, è la vera stille nacht, heilige nacht, notte silenziosa, notte santa. La notte in cui Dio nasce nell'umanità è la notte prodotta dalla fede, ovvero il silenzio, il vuoto che l'intelligenza ha fatto nell'anima. Il Natale, riferimento a una nascita del divino nel tempo, ha dunque il senso di ri-cordare, nel suo senso etimologico di riportare all'interiorità, risvegliare nell'anima nostra ciò che le è proprio ed essenziale: il divino che è nel suo fondo più intimo. Questo è il passaggio aus historie ins wesen, dalla storia all'essenza, come dicevano i mistici tedeschi, ovvero da una verità esteriore, che non ha alcun effetto, a una verità interiore, che salva davvero. La salvezza non è infatti dal peccato di un altro, Adamo, da cui un altro, Cristo, ti deve liberare, ma da quel peccato davvero "originale" che è l'amore di sé. In te è Adamo, in te è Cristo, ovvero tanto l'amore di te stesso quanto l'amore del Bene, e la salvezza ti appare nella sua realtà, non futura ma presente, non sperata ma reale, quando il bene degli altri ti è caro quanto il tuo, assolutamente, in nulla di meno. Niente può turbare allora la pace dell'anima: non a caso i mistici ripetono la cosiddetta supposizione impossibile: se anche Dio mi destinasse all'inferno, sarei comunque "salvo". Il senso vero del Natale non va dunque cercato all'esterno ma in se stessi, non in una costruzione teologica, ma nel vuoto, nel distacco. Questo è anche il senso profondo della storia che precede e rende possibile la nascita del Figlio, come del resto ogni nascita umana, ovvero la storia della Madre: Maria fu capace di generare il divino per la sua umiltà, per la sua verginità, che non significa una condizione fisica, ma il vuoto fatto in se stessa. Il Logos nasce infatti nell'anima di ciascuno di noi quando essa è come Maria: distaccata, ovvero libera, spoglia di ogni preteso valore e preteso sapere. Il mistico poeta Angelus Silesius perciò recita: «Davvero ancor oggi è generato il Logos eterno! Dove? Qui, se in te hai dimenticato te stesso». Il mistero del Natale si svela infatti quando si comprende il significato non blasfemo, ma al contrario profondamente spirituale - anzi, esso solo cristiano, senza il quale la religione resta superstizione, la fede credenza infantile - del principio che innerva la mistica: tutto quello che la Sacra Scrittura dice di Cristo, si verifica totalmente anche in ogni uomo buono e divino. Purtroppo tale principio fu condannato come eretico da uno di quei papi avignonesi che Dante definisce "lupi rapaci", separando così divino da umano, sacro da profano, avocando alla chiesa il monopolio del sacro e con questo ribadendo la divisione ragione-fede, scienza-religione che perdura ancora oggi e che costringe i "credenti" in quella condizione di minorità da cui l'illuminismo, secondo le celebri parole kantiane, ha inteso togliere l'uomo occidentale. Accanto a un Natale storico, nel quale una sola volta, in un solo luogo e in una sola persona, il divino è nato sulla terra, c'è dunque un Natale eterno, per cui, secondo le parole di Origene, il divino si genera nell'anima non una volta soltanto, ma in ogni istante, in ogni luogo e in ogni uomo, in ogni pensiero che egli rivolge a Dio con purezza, in ogni gesto di amore che compie. Anche se non legata al solstizio d'inverno, la nascita di Gesùè comunque un evento reale, non un mito. In quanto ha a che fare con realtà profonde ed universali dell'anima umana, il mito riguarda ciò che non è mai avvenuto ma in eterno avviene, come diceva un filosofo pagano, mentre per il Natale noi dobbiamo dire: ciò che è avvenuto una volta e in eterno avviene. Attenzione però: avviene solo se avviene. Perciò lo stesso poeta mistico che abbiamo prima citato lancia al suo lettore un avvertimento davvero terribile: «Nascesse mille volte Cristo in Betlemme, se in te non nasce, sei perduto in eterno». MARCO VANNINI - La Repubblica

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23 novembre 2013 6 23 /11 /novembre /2013 11:43

la Repubblica, 16 novembre 2013 di Marco Vannini

Al centro della sua riflessione c’è un’idea: la rinuncia a se stessi. Questo e non altro è il messaggio evangelico.

Il male nasce dall’attaccamento e dal desiderio. Il peccato sta tutto nel concetto di io.

LE TAPPE

I primi anni: nasce a Parigi nel 1909 da una famiglia di ebrei laici. Dopo la laurea insegna filosofia.

La guerra di Spagna:  Sempre dalla parte degli oppressi, nel 1936 parte per la Spagna. Al ritorno la svolta mistico religiosa.

La morte: nel 1949 è a Londra con la resistenza francese. Malata di tubercolosi muore nel 1943

"Io credo in Dio, nella Trinità, nell’Incarnazione, nella Redenzione, nell’Eucarestia, negli insegnamenti dell’Evangelo”: così Simone Weil iniziava la sua professione di fede nel cosiddetto Dernier texte, scritto londinese degli ultimi mesi di vita. In Inghilterra, ove si era recata per partecipare alla Resistenza antinazista di France Combattante, morì infatti, a soli trentaquattro anni, il 24 agosto 1943. Questo settantesimo anniversario viene celebrato a Firenze il 16 novembre con un convegno sul tema “Simone Weil: la fede al limite”, che conclude così, molto significativamente, quell' “anno della fede” che è stato occasione di interessanti dibattiti. Nella città toscana la scrittrice francese trascorse giorni di grande letizia nel corso del suo viaggio in Italia del 1937, vi si sentì come a casa sua, tanto da scrivere, un po’ seriamente e un po’ scherzosamente, che doveva esservi già stata in una vita precedente.

La Weil si confrontò con il cristianesimo con tutta la radicalità richiesta dalla cultura del nostro tempo, e per questo la chiesa, che pure la ha in parte utilizzata a scopo apologetico, ha finora sostanzialmente evitato di fare i conti con lei. Ciò è tanto più evidente negli ultimi decenni, quando si è cercato di recidere le radici greche del cristianesimo, intendendo riportarlo alla sua presunta origine biblica: la scrittrice francese, che pure era di famiglia ebrea, non concede infatti nessun credito a questa tesi e difende, invece, la “fonte greca”, che per lei significa l’essenza razionale, cioè universale, del cristianesimo. Giustamente perciò Levinas poteva dire che, in quanto rifiutava il mito della elezione divina di Israele, la Weil era “pagana” - ovvero, in termini più neutrali, ellenica. Questo è anche uno degli aspetti che Sabina Moser affronta nel suo recente Il "credo" di Simone Weil (Le Lettere, Firenze 2013), ove esamina in dettaglio quel Dernier texte che è il testamento spirituale della scrittrice francese.

Il punto di partenza sta comunque nel fatto che per la Weil la fede non è quel lume (lumen fidei) che illumina qualcos’altro, che sarebbe poi la verità, ma è la luce (lux, non lumen) stessa, giacché, in quanto movimento di tutta l’intelligenza verso l’assoluto, essa non comunica saperi, peraltro illusorii, ma è essa stessa un sapere - sapere non di altro, ma conoscenza dello spirito nello spirito.

Il contenuto della fede è il suo stesso atto, che è essenzialmente distacco, negazione: fare il vuoto di ogni preteso sapere, rifiutare il consenso a ciò che assoluto non è. La fede non è una credenza: l’atto di fede come credenza è un atto di menzogna, di invenzione, frutto di quella immaginazione che ha il fine di “colmare i vuoti, dai quali potrebbe giungere la grazia”, ovvero difendere l’egoismo, l’amore di se stessi. Simone combatte perciò questo concetto di fede come immaginazione, e ugualmente la teologia come invenzione: nel vangelo, scrive, non c’è una teologia, ma una concezione della vita umana.

Gesù chiede infatti ai suoi discepoli un radicale cambiamento, una conversione, riconoscendo la malizia essenziale della propria psiche, che tutto sottomette ai propri fini (questo il vero senso del “peccato originale”!): la rinuncia a se stesso, questo, e niente altro, è l’insegnamento evangelico.

Il cristianesimo della Weil è perciò tragico, centrato sulla croce, simbolo della morte dell’egoità, tanto che – ella scrive - si potrebbe anche fare a meno della resurrezione. È un cristianesimo ben lontano da quello, ottimistico, che parla di affettuosi “disegni di Dio” verso l’uomo - una menzogna, questa, offensiva del malheur, della infelicità, della sventura, insopprimibile dalla condizione umana.

Con il suo concetto di “decreazione”, spogliamento dell’egoità, la Weil si inserisce così a pieno titolo nella grande mistica, tanto d’occidente quanto d’oriente. Non a caso riconobbe nella tradizione dell’India, nelle sue Scritture, dalla Bhagavad Gita ai testi buddhisti, lo stesso insegnamento del vangelo: quello del distacco assoluto – distacco dall’io come da Dio.

Per un verso, infatti, “è il peccato in me a dire <io>”. Tutto ciò che io faccio è cattivo, senza eccezione, compreso il bene, perché io è cattivo. Io sono tutto. Ma questo io è Dio e non è un io”. Per un altro verso, specularmente, “dobbiamo spogliare Dio della sua divinità per amarlo, perché se si va a Dio senza svuotarlo della sua divinità, si tratta allora di Yahweh o Allah” – cioè di due idoli.

Se questa duplice, ma in realtà semplice, operazione viene compiuta, tutto appare uno, tutto appare buono, con quel senso di realtà, presenza, gioia, che mostra l’eterno nel presente. Che il reale sia tutto quanto buono e bene, è un pensiero che accomuna la Weil alla grande tradizione mistico-filosofica, dal primo filosofo del lògos, Eraclito, a Eckhart a Spinoza, che scriveva essere il pensiero del male proprio solo degli iniqui, ovvero di coloro che hanno in mente se stessi e non Dio. Infatti, anche per Simone, “Il reale è per il pensiero umano la stessa cosa che il bene. Questo il senso misterioso della frase: Dio esiste”. Il pensiero del male, ovvero il non-pensiero, nasce sempre dall’attaccamento, dal desiderio, che “non è altro se non l’insufficienza nel sentimento della realtà. Dal momento in cui si sa che qualcosa è reale, non ci si può più attaccare ad esso”, ed è allora, con la fine dell’attaccamento, che finisce anche il pensiero del male e si ottiene davvero la libertà.

Simone contesta infatti la comune illusione della libertà, del libero arbitrio, giacché l’universo è tutto quanto sottomesso alla necessità, e l’uomo non fa eccezione, per cui “l’illusione dell’orgoglio, le sfide, le rivolte, tutto ciò non sono che fenomeni rigorosamente determinati quanto la rifrazione della luce”. La Bhagavad Gita recita: “Colui che pensa: Sono io che agisco, costui ha la mente fuorviata dal senso dell’ego”, e Simone conferma: “Dire <io sono libero> è una contraddizione, perché a dire <io> è proprio ciò che non è libero in me”. Ciò che è libero è infatti ciò che non è più lo <io> e il <mio> , ma Dio stesso, fondo e sostanza dell’anima.

Da qui anche la critica weiliana al concetto di persona, tanto caro a certa cultura cattolica. A chi rilevava come l’antichità non avesse nozione del rispetto dovuto alla persona, Simone fa notare con sarcasmo che ciò è vero, ma non perché non avesse acquisito ancora una nozione così basilare, ma perché “pensava con troppa chiarezza per una concezione così confusa”. E lo stesso vale per espressioni come “realizzazione della persona”, “diritti della persona”: la persona si “realizza” solo quando il prestigio sociale la gonfia; la sua realizzazione non ha a che fare col sacro, ma con la sua falsa imitazione prodotta dal collettivo. Quanto al diritto, poi, esso non ha alcun legame con l’amore, ma è legato, invece, allo “spirito di mercanteggiamento”, che governa il mondo del commercio: “Non è possibile immaginarsi san Francesco che parla di diritto”.

Come si comprende anche da queste righe, il cristianesimo weiliano è dunque per molti aspetti “inattuale”: quella di Simone fu davvero una fede “al limite”. Pensiamo comunque che verificare questo limite sia oggi un dovere cui non può sottrarsi intelligenza alcuna, religiosa o laica che sia.

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