Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
19 agosto 2016 5 19 /08 /agosto /2016 12:23

L'addio felice di Phelps "Ora so godermi la vita"

( a. ret.) – La Repubblica

Stavolta se ne va davvero, ultima Olimpiade, ultima grande bellezza. Il re del nuoto Michael Phelps lascia Rio e il nuoto con 23 ori, cinque in più rispetto a Londra quando annunciò l'addio salvo poi tornare indietro 18 mesi dopo, nel suo elemento. «Ho dei conti in sospeso» annunciò nel suo comeback nel cloro a 31 anni, ai suoi quarti Giochi come portabandiera dell'America dopo due stagioni di rincorse e cadute, un arresto perché guidava da ubriaco, la riabilitazione per disintossicarsi dall'alcol, la rinascita dopo il figlio Boomer avuto a maggio dalla sua compagna Nicole, ex Miss California, e infine questa enorme felicità: «Sono stati gli anni più belli della mia vita. Ho imparato a godermi le cose ».

Vincere invece l'ha sempre saputo fare e in Brasile ha dimostrato di non averlo dimenticato. L'ultimo oro nell'ultimo giorno con la staffetta 4x100 mista con record olimpico, lui con la squadra americana a sfilare a bordo vasca con un cartello, «Thank you Rio», e giù gli applausi per l'immenso uomo pesce, mai più nessuno come lui forse ci sarà. «Dopo Londra avevo promesso che non sarei tornato e invece l'ho fatto. Stavolta la mia decisione è definitiva, non competerò più a questi livelli » scrive Mister Nuoto su Facebook, forse dirlo a voce è troppo forte e duro. Per lui che sul podio si commuove e diventa umano, per il mondo che un'altra volta rimane orfano.

Se ne va da gigante. 28 medaglie a cinque Cerchi, 5 ori in Brasile (200 farfalla, 200 misti, 4x100 sl, 4x200 sl, 4x100 misti) e solo una d'argento, quella nei 100 farfalla, sfilata da un ragazzo di Singapore (Schooling, 21 anni) che quando era bambino gli aveva chiesto l'autografo. «La mia carriera si è conclusa come io ho sempre desiderato. Ho vissuto un sogno divenuto realtà». Iperrealtà. «Arrivando in piscina stavo per piangere, ho pensato che sarebbe stata la mia ultima volta, l'ultimo riscaldamento, l'ultima volta che avrei messo il costume, l'ultima che avrei rappresentato il mio paese. Ancora non ho realizzato di avere un record di medaglie, succederà tra un po'. Tutto è cominciato col piccolo sogno di un ragazzo che voleva cambiare il nuoto e fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto. Ci sono riuscito. Lo sognavo da sempre. Inizio un nuovo capitolo della mia vita. Mi fermo, ma non lascio il mondo del nuoto. E' l'inizio di qualcosa di nuovo». Qualcosa senza Phelps.

La mia vita in piscina il nuoto mi ha dato tutto ma ora le levatacce le farò per mio figlio

Il campione si racconta: a Rio ho vissuto la sensazione della fine ma senza sofferenza. È stato bello passare il tempo con la squadra e i più giovani.

La sensazione di essere alla fine di qualcosa, questo ho provato a Rio. Lo sapevo, mi stavo rendendo conto che era davvero l'ultima volta. Gli ultimi appuntamenti, gli ultimi riscaldamenti, le ultime gare, per sempre. Questa idea mi girava costantemente per la testa, ripassavo mentalmente gran parte del mio passato, della mia vita di nuotatore negli ultimi ventiquattro anni, e tutto questo mi ha emozionato. Era una cosa che non avevo a Londra, è la dimostrazione che è vero stavolta, anche se molti non ci credono, anche se molti pensano che tornerò. È finita. Basta. Vincere altri cinque ori e un argento alle Olimpiadi, non c'è modo migliore di concludere una carriera.

Ho sempre lavorato in vita mia pensando di potermi migliorare. Prima di Rio ho pensato che sarebbe stato davvero fantastico battere un record del mondo o stabilire un miglior personale. Un miglior personale l'ho stabilito, ma non ho battuto un record del mondo: ho fatto il mio parziale più rapido nella staffetta 4x100. Ma nel complesso ho avuto da Rio esattamente quello che volevo. Una delle cose che volevo riprendermi, di sicuro, era la vittoria nei 200 farfalla. Volevo ritirarmi con quell'oro. È una distanza che ho corso cinque volte ai Giochi e volevo concludere con quella vittoria. Ma, oltre alla vittoria nei 200, la cosa che mi ha emozionato maggiormente in questa Olimpiade è stato passare il tempo con la squadra. C'erano una trentina di novellini ed è stato bello conoscerli e potergli dare una mano. È stato bello essere eletto per la prima volta capitano, portare la bandiera. Penso che le cose non sarebbero potute letteralmente andare meglio in tutta questa Olimpiade.

Certo, ho perso nei 100 farfalla e quando ho toccato sapevo di essere dietro. Ho pensato: «Allora finisce qui? La perfezione finirà oppure sarò di nuovo fortunato? ». In passato ero stato molto fortunato nei 100 ed ero riuscito sempre a toccare per primo. Questa volta è toccata a Joe Schooling, un grande talento. Ho alzato lo sguardo sul tabellone e ho visto il «2» accanto al mio nome. E ho pensato: «Va bene, lo accetto. Sono contento così. 51"1 è un tempo più veloce di quello che avevo fatto a Londra, sono contento ». Poi ho visto Chad le Clos, ho guardato in su e ho visto che eravamo pari. Poi ho visto László Cseh, ho guardato in su di nuovo ed eravamo tutti alla pari. Io e László ci sfidiamo, credo, da dodici anni, e con Chad negli ultimi quattro anni sono state belle battaglie. È stata davvero una bella sensazione essere lassù con quei due nella mia ultima gara individuale, a dividerci sul podio una medaglia d'argento.

La foto con Schooling poi mi ha trasmesso un pensiero di cui comincio solo ora a rendermi conto davvero: inizio a vedere che alcune delle cose che ho fatto in questo sport lo hanno trasformato enormemente, che sono riuscito a trasmettere ai giovani nuotatori l'entusiasmo per andare a caccia dell'oro e non avere paura. E sognare in grande. Parlo di Katie Ledecky, di Ryan Murphy, anche lui mi ha fatto vedere una foto. E Joe Schooling: mi ricordo quel giorno, stavamo girando su un golf car per vedere le scimmie. Vedere quella foto e condividere quel momento con lui è stato bello: sono molto curioso di vedere cosa farà in futuro, spero che realizzerà dei bei tempi.

Quanto al mio futuro, di certo non penso che mi mancheranno gli allenamenti. Non penso che mi mancheranno le levatacce. Ma sono determinato a mantenermi in forma: dopo Londra avevo preso intorno ai 15 chili, stavolta mi controllerò. Il nuoto è stata la mia vita per ventiquattro anni, sarà strano non farlo più. Ma con il bambino che io e Nicole abbiamo accolto nel mondo quest'anno, le levatacce continueremo a farle. Queste sì, mi piaceranno. Mio figlio è la cosa più bella che potessi sognare. Oggi stavamo andando in giro in macchina e lui rideva, faceva risatine, rumorini strani. Vedere le espressioni sulla sua faccia, osservare quanto è cambiato sono cose fantastiche. Ha tre mesi e mezzo e fino a due giorni fa erano tre settimane e mezza che non lo vedevo. È cresciuto tantissimo, cresce in modo incredibilmente veloce. Sarà bellissimo continuare a guardarlo mentre cresce fino a diventare un piccolo uomo. Ed è vero, lui ha un account Instagram, lo gestisco io naturalmente, ed è incredibile il successo che ha avuto, ha guadagnato quasi 500mila follower in sei settimane.

Diventare padre ha cambiato profondamente il mio modo di pensare. Ci sono molte cose che ho fatto nella squadra che erano molto paterne, per così dire. Quando eravamo sul podio per la premiazione della 4x100 sl ho detto ai due ragazzi più giovani: «Va bene se cantate e va bene se piangete». Poi ho guardato uno di loro ed era emozionatissimo, allora l'ho abbracciato e l'ho stretto forte. Ora però non vedo l'ora di andare a casa e saltare in piscina con il mio ometto. Lo farò nuotare, mi divertirò con lui.

( traduzione di Fabio Galimberti)

LA PATERNITÀ

Ha cambiato profondamente il mio modo di pensare. Molte cose fatte con la squadra erano paterne

IL FUTURO

Non tornerò indietro ma mi terrò in forma Dopo Londra avevo preso quasi 15 chili, questa volta non succederà

AMBASCIATORE OMEGA

Phelps ha vinto 23 ori nelle 5 Olimpiadi da lui disputate. Ai Giochi di Rio l'ambasciatore di Omega ne ha conquistati cinque, più un argento.

Condividi post
Repost0
18 giugno 2016 6 18 /06 /giugno /2016 15:28

 

Gentile Michele Serra è finito un altro inverno senza geloni alle mani o ai piedi. E sì che a sentire inostri genitori era un evento normale per loro. Ecco una cosa che la mia e la sua generazione non hanno conosciuto; così come dittatura, guerre bombardamenti, deportazioni, fame, occupazione, tubercolosi, miseria, oppressione, freddo, analfabetismo, poliomielite, cimici e pulci, rappresaglie, difterite, sfruttamento, discriminazioni, scarsa igiene, lavori spossanti, polmonite, ae altre malattie mortali, assoluta precarietà ecc.

   Tutte traversie rincarate, naturalmente, se eri donna, operaio e comunque lavoratore non qualificato, carcerato, malato di mente, contadino, bambino, omosessuale,  dissidente, handicappato, ecc. E mi limito a quanto hanno passato i ostri genitori, figuriamoci nonni e bisnonni. Da qualche suo scritto, mi pare che lei sia conspevole di tutto ciò. Ma vedo che tanti nostri coetanei  e ormai anche i loro figli non fanno che lamentarsi del nostro  tempo e del nostro paese:  una lagna continua ,implacabile,  inconsolabile (anche soprattutto da parte di chi ha uno stipendio fisso e una casa in collina), che forse è è il vero  e unico fattore in comune tra chi si professa di destra e chi  di sinistra. Tutta gente nata  vissuta in un’epoca (dalla metà degli anni 50) e luogo l’Europa occidentale inclusa l’Italia) che rappresentano un unicum nella storia dell’umanità: mai prima  e in nessuna parte del mondo un così gran numero di uomini e donne hanno beneficiato di tanto cibo, benessere,  libertà, pace, ricchezza, abitazioni, tutele, diritti, comodità, assistenza,  salute, possibilità di viaggiare, informazioni, tempo libero, conoscenza, esenzione dalle fatiche più abbruttenti ecc. Esi che solo un’occhiata  a quanto è successo ai nostri vicini l’altro ieri (la Bosnia) o oggi stesso (la Siria)  dovrebbe indurci a smetterla di comportarci come tanti fighetti viziati . Ma niente, lo sguardo è miope e la memoria corta.

     Sono un giulivo babbeo? Babbeo forse, giulivo garantisco di no. Un cinico cieco e sordo  davanti alle sofferenze di tanti  nostri  concittadini e  classifiche spesso disonorevoli per il nostro paese? Spero di no, la mia prospettiva è uno sguardo di insieme, relativo a storia e geografia . E quindi caro Serra, la prossima volta  che sentirò un amico o meglio ancora un’amica  lamentarsi di tutto, non le chiederò certo se ha mai avuto un marito o un figlio deportato, morto in guerra o di fame e di freddo o per un’infezione, non sono così stronzo, ma una cosa glielo domanderò: se ha mai lavato delle lenzuola sporche a mano.

      Giampaolo Costantini (Parma)

 

Caro Costantini pubblico , senza levare nemmeno una virgola, la sua lunga lettera per intero, perché penso sia una lettura importante. La condivido in ogni sfumatura. Trovo  molto felice – in particolare – la domanda sulle lenzuola lavate a mano. Riassume bene, nella sua apparente banalità l’abisso che separa  la fatica dei nostri predecessori rispetto ai nostri comfort quotidiani.  Lagna e malumore dei contemporanei(sto parlando, ovviamente di questa parte del mondo, quella che chiamiamo occidente) in confronto della epica durezza  della vita degli avi, dalla penuria e dell’ingiustizia dalla quale siamo da poco sortiti, hanno effettivamente molto ingiustificato e persino di qualcosa di immorale.  Canta Eugenio Finardi :” con la pancia troppo piena la gente diventa scema” verso molto drastico  e per questo munito di una sua sonante potenza retorica.

   Fighetti viziati  lei scrive. Al punto da affrontare ogni disagio, come fosse una sciagura, un’offesa al nostro diritto di stare sempre bene, senza che persone o cose ci arrechino disturbo. E’ annosa e penso ormai stucchevole, la mia polemica giornalistica contro l’isterismo mediatico sul meteo, laddove due gradi sotto lo zero

 diventano gelo siberiano e l’afa estiva una insopportabile piaga biblica. Più in generale disapprovo la tendenza a drammatizzare ciò che spesso drammatico non è: se gridiamo allo scandalo e alla lesa umanità (la nostra) perché un ospedale funziona mediocremente, quali parole dovrebbe gridare chi annega per un barcone rovesciato o che diventa cenere in una città bombardata? Si moriva a milioni di influenza (la spagnola) ai tempi dei nostri nonni. Non ebbero il lusso di poter pensare  che la colpa fosse della malasanità. E dunque smettiamola di maledire il nostro culo al caldo. Però caro Costantini , facciamoci anche una domanda: perché l’umore è così basso? Perché  nonostante la vita sia , nella media , più sicura e più agiata, molti parlano di sé come  di gente che se la passa male, che dalla vita ha subito una raffica di torti?

Mi viene di dire d’acchito, che il malumore è una sindrome da benessere. Che stare bene, rispetto a chi ci ha preceduto sulla terra, e avere una prospettiva  di vita più lunga riempie la pancia ma non cura l’anima. Parafrasando Finardi: con la pancia troppo piena la gente diventa triste. Forse si annoia. Non ha più obiettivi e urgenze, né l’adrenalina ( le palle direbbe un allenatore di calcio….che serve per affrontare le disgrazie vere , le avventure formidabili, la lotta all’ultimo respiro. Non per caso si dice che dopo  un terremoto intere comunità riscoprono risorse ed energie che non sospettavano di avere. E in mancanza  di terremoto ovvero di vera morte e vero dolore, vera perdita, vera disperazione, dobbiamo rassegnarci di essere fighetti viziati e lagnosissimi ? 

Bisognerebbe sentire cosa dicono psicologie psicanalisti. Non credo che le malattie dell’anima – per esempio la depressione –fossero tra i nostri avi meno frequenti, anzi. Solo che non erano diagnosticate o addirittura non c’era tempo, non c’era modo di dare retta quello che la psiche pretendeva di dire. C’era da sgobbare nei campi, partire per la guerra partorire o svezzare una decina di figli. C’era da obbedire al prete o al padrone. C’era da riempire il piatto vuoto. Mancava il tempo per il sé. Manca va il tempo per potere dire io e dirlo a vanvera ogni tre minuti, come facciamo oggidì. Sopravvivere era una attività che impegnava quasi per intero il vivere. Ora, che invece, : di vivere abbiamo il tempo ora che abbiamo il lusso di pensare privilegio di pochissimi, fino a poche generazioni fa e di guardarci allo specchio, ecco che ci scopriamo incazzati. Le facce allegre che vedo in giro sul tram, nei negozi per le strade non lo dico per fare un dispetto a Salvini; lo dico perché è pura verità sono quasi sempre facce di immigrati. Peri quali il bilocale in periferia  é una conquista meravigliosa. Per i quali essere qui  ed essere vivi è una ragione di festa. Nel 1986, ai mondiali del messico, intervistai Giresse, fortissimo centrocampista di una nazionale, quella francese che era fatta quasi solo (già trent’anni fa) di figli di immigrati, Spagnoli, portoghesi, polacchi, italiani, africani “ Noi francesi non abbiamo più fame.  Non abbiamo più voglia di faticare e di sudare. Facciamo sport per diletto, non riscatto sociale. Giochiamo a tennis, sciamo sulle Alpi. Senza gli immigrati la Francia non avrebbe neppure una nazionale di calcio…” Se ne dovrebbe dedurre  questo che il bisogno stimola  e tiene vivi, la fine del bisogno deprime. E’ il desiderio che muove  il mondo .  Ne abbiamo appagati troppi di desideri? Non ne abbiamo più ? Coltiviamo quelli sbagliati? Ognuno, immagino, avrà la sua risposta. Sono stato lungo, a scapito di altre lettere. Ma mi pareva che l’argomento meritasse qualche indugio.

 

Come eravamo felici e come siamo infelici

Gentile Michele Serra ho letto la lettera del signor Costantini sugli italiani che si lagnano e la sua risposta sul venerdì del 30 aprile. Condivido totalmente. Appartengo a una generazione fortunata( è anche il titolo  di un bel libro di Serena Zolù) quella nata nel dopoguerra  in un mondo aperto alla speranza di un progresso luminoso. Ricordo infanzia e giovinezza (sono nato nel 1947) come un periodo sereno, anche  se c’erano ancora case con le stufe a legna, il bagno si faceva nella tinozza e le vacanze erano solo quelle delle colonie estive. Non tutto erano rose e fiori ma non c’era il clima rancoroso e lamentoso che vedo ora.

    Quando sento intorno a me questo clima negativo ripenso, per relativizzare, ai tanti giovani ai quali è toccato in sorte di andare in guerra  nel 1915, alle loro vite strappate, alle ferite fisiche e mentali di chi è sopravvisuto: questa memoria mi serve da medicina nei confronti  del rancore e delle lamentazioni

Renato Fianco (Verona)

 

Caro Michele,

   solo chi sta male o è stato male, capisce il malessere degli altri. Inostri genitori hanno conosciuto la dittatura, la guerra  e i geloni i pidocchi, ma poi la loro vita è stata in discesa.  Nei decenni successivi  hanno auto libertà, pace, lavoro, tutele diritti, benessere e comodità che non avevano mai conosciuto prima. Noi e i nostri figli viviamo un presente inverso: nati e cresciuti nel benessere ora viviamo una crisi di cui non vediamo il termine. Come tanti italiani ho due figli laureati e disoccupati, costretti a emigrare per cercare un lavoro. Stiamo perdendo tutele e diritti acquisiti in anni di lotte sindacali. Ma questo lo sa solo chi lo vive.

Antonio (manisfamily@tiscali.it)

   La lettera di Costantini sul malumore degli italiani e la mia risposta hanno provocato una valanga di lettere. Ho scelto quelle di Renato Fianco  e di Antonio in rappresentanza dei due “eserciti” :Quello largamente maggioritario, di chi si schiera con Costantini contro la lagna degli italiani, e quello di chi ha per nulla apprezzato lettera e risposta, e richiama alle condizioni di difficoltà economica e sociale come causa più che legittima del malumore. Mi limito a una puntualizzazione e a una osservazione.

La puntualizzazione. Quella lettera non prendevano di mira  la rabbia e l’insoddisfazione di chi sta male. Parlavamo del malumore, piuttosto paradossale , di chi sta bene (quelli con lo stipendio e la casa in collina) o comunque meglio dei genitori e dei nonni.

L’osservazione. Quasi tutti i lettori che approvano il punto di vista di Costantini sono italiano maturi o anziani. Mano a mano che si scende di età, le ragioni del malumore aumentano. Noi italiani stagionati abbiamo vissuto un progresso, abbiamo respirato un futuro. Gli italiano più giovani, anche quando le condizioni di vita siano comode, non stanno vivendo un progresso o non stanno respirando futuro. Credo la parola, sia pure in pillole, almeno ad alcuni dei tanti lettori che hanno scritto”

Michele Serra

Sono nata nel 1931 e quando magari in un supermercato stracolmo di ogni ben di dio, sento qualcuno lamentarsi, mi rivedo bambina sfollata, con i bombardamenti, i tedeschi in casa , poco da mangiare, ma soprattutto rivedo mia madre in cortile al freddo d’inverno del ’44 fu tremendo, china su un mastello mentre lava a mano montagne di panni sporchi con il detersivo ricavato dalla cenere del camino. Non c’era altro.

Francesca Pozzi Ferrara

Sono nata nel 1948 , mio padre tornò dal campo di prigionia in sud Africa  nel gennaio del 47. Mia madre e mio fratello erano stati in campo di concentramento in Etiopia e poi  e poi avevano vissuto la guerra in Lombardia.

Ho l’impressione che oggi nessuno ricorda più niente e non conosca la storia neanche la propria e la più recente. Nel 1918  l’influenza spagnola  aveva seminato grandi lutti nella famiglia di mio padre, in Emilia. La morte di mia nonna e altri parenti aveva anche portato al disastro economico. Umberto Eco mi raccontava che anche la sua famiglia era stata duramente colpita e per questo riteneva che gli antibiotici fossero la più bella scoperta del XX secolo.

Emilia Pederzoli

Mi ricordo gli inverni della mia infanzia (sono nata nel1946) con la stufa soltanto in cucina, le lenzuola gelate e le estati senza frigorifero, con il pacchetto del burro sotto il filo dell’acqua de rubinetto lasciato aperto, Adesso si continua a parlare di ambiente e risparmio energetico , ma nessuno è disposto a rinunciare a qualche grado di calore. Sono tutti abituati alle cose già pronte, però sempre fatte dagli altri: ci deve pensare lo stato: Tutti vogliono tutto senza fatica e senza essere disposti  a concedere niente: e i più esigenti sono quelli che non rispettano le regole.

Maria Preda

Condividi post
Repost0
23 febbraio 2016 2 23 /02 /febbraio /2016 09:41

Pietro Bartolo:  “Io, medico della speranza nell’isola che accoglie tutti”

Pietro Bartolo dall’ambulatorio nel cuore del Mediterraneo all’Orso d’oro di Berlino La mia gente dà Tutto senza chiedere nulla.

I SOCCORSI:“Quanti stranieri ho curato? Dicono 250 mila in 25 anni, ma io non tengo il conto: sono uomini, non numeri”

IL CINEMA: nell’isola non ne abbiamo: ora Rosi dovrà allestire  almenouno schermo gigante.

ALESSANDRA ZINITI -  la Repubblica

PALERMO «Lo dedico alla mia isola, alla mia gente, ma anche a tutti quelli che non ce l’hanno fatta». Appena sbarcato a Milano da Berlino, l’Orso d’oro portato fieramente sotto braccio, l’emozione di sentire Meryl Streep dire che Fuocoammare merita l’Oscar, la voce di Pietro Bartolo si incrina, mentre il pensiero va alle decine di migliaia di migranti in condizioni drammatiche e ai tantissimi corpi senza vita passati dal suo ambulatorio a Lampedusa. Il medico da trent’anni motore instancabile dei soccorsi ai migranti, adesso non vede l’ora di smettere i panni dell’attore e tornare a indossare il camice. «So che stanotte sono arrivati in duecento, avrei voluto essere con loro invece che qui. Questo mondo non mi appartiene di certo, ma è stata un’avventura travolgente e sono felice di aver accettato questa scommessa. Lampedusa, il suo ruolo in tutti questi anni di migrazione epocale, riguarda tutta l’Europa. C’è chi alza muri, chi tira su fili spinati, ma non saranno né muri né fili spinati a fermare questa gente. L‘unico modo di fermarla è aiutarla nel suo Paese, e fino a quando non si riuscirà a farlo, il dovere di ognuno di noi è di assisterla, accoglierla. Come ha fatto sempre il popolo di Lampedusa. È questo che racconta il film di Rosi. E spero che anche questo serva da stimolo a persone, istituzioni, che possono fare e non hanno finora fatto».

Può servire anche un film?

«Sì. In Germania ho trovato quello che non mi sarei mai aspettato. Non facciamo altro che leggere di frontiere chiuse, di respingimenti, ma io qui ho trovato grande sensibilità e grande affetto. Ho visto centinaia di persone commuoversi, con le lacrime agli occhi, sono stato travolto da un interesse e da un’emozione che non mi sarei mai aspettato. E allora credo, spero, che questo possa servire. Io il mio obiettivo l’ho già raggiunto, riuscire ad avviare un’opera di sensibilizzazione, svegliare le coscienze».

Da un ambulatorio di frontiera alle passerelle del festival di Berlino. Come ha fatto Rosi a convincerla a cambiare ruolo?

«Il nostro è stato un incontro casuale. Rosi era a Lampedusa per cominciare a girare il film quando ha avuto bisogno di me per alcuni suoi acciacchi. È venuto in ambulatorio e abbiamo cominciato a parlare. Tre ore e più, mi chiedeva di tutto sulla storia di Lampedusa. Poi gli ho fatto vedere delle immagini che hanno segnato la mia vita, che porto sempre con me in una chiavetta usb e da allora è cominciato tutto».

Già, le immagini di tante tragedie che l’hanno vista sempre in prima linea. Come quella di Kebral.

«Non dimenticherò mai il volto di quella ragazza eritrea. Era la mattina del 3 ottobre 2013, sul molo i pescherecci scaricavano uno dietro l’altro decine di corpi di uomini e donne morti nel terribile naufragio davanti alle coste dell’isola. Quella ragazza era lì, allineata tra i cadaveri. Sembrava morta, ma quando l’ho toccata e le ho sentito il polso ho avvertito un flebile segno di vita. È stata una corsa contro il tempo, l’ho presa in braccio, l’abbiamo portata in ambulatorio. Era viva, l’abbiamo salvata. È stata una delle gioie più grandi della mia vita».

Quanti migranti sono passati dalle sue mani?

«Non ho mai tenuto la contabilità perché per me sono tutte persone e non numeri, ma mi dicono più di 250 mila in 25 anni. Dal primo sbarco di tre tunisini su una barchetta ai settemila che nel 2011, in una sola settimana, nell’anno della Primavera araba, invasero Lampedusa. Erano molti di più della popolazione dell’isola. I lampedusani aprirono le loro case, diedero loro vestiti, cibo, letti, affetto. In quell’occasione Lampedusa mostrò a tutto il mondo il suo cuore grande. Ed è per questo che porterò loro dopodomani questo Orso d’Oro. So che mi aspettano tutti con grande emozione, non vedono l’ora. E d’altronde se lo sono meritato. È un popolo che ha dato sempre tutto con grande abnegazione senza mai lamentarsi, senza mai chiedere e ottenere niente in cambio ».

È un popolo che si merita il premio Nobel?

«Certamente, sarebbe un grande riconoscimento per tutti noi».

Il telefono di Pietro Bartolo squilla continuamente. Lo chiama il sindaco Giusy Nicolini, emozionata e felicissima, lo chiama sua moglie, medico rimasta a Lampedusa con i tre figli, lo chiama il parroco dell’isola, don Mimmo, che ha dedicato la sua omelia domenicale alla vittoria di Fuocoammare. E tutti pensano già all’organizzazione della grande festa nell’isola, con un primo grosso problema da risolvere. «A Lampedusa non abbiamo un cinema — dice Bartolo — Adesso Gianfranco Rosi dovrà fare in modo che arrivi uno schermo gigante, e una troupe per proiettarlo in piazza e dare questa possibilità alla gente».

 

Condividi post
Repost0
23 febbraio 2016 2 23 /02 /febbraio /2016 08:41

Gianfranco Rosi: "Date il Nobel ai pescatori di Lampedusa e Lesbo"

GIANFRANCO ROSI – LA REPUBBLICA

Il regista dopo l’Orso d’oro per il film sui rifugiati: "Fate vincere la speranza"

IL PREMIO Nobel agli abitanti di Lampedusa e Lesbo sarebbe una scelta giusta e un gesto simbolico importante. Consegnarlo non a un individuo ma a un popolo. I lampedusani in questi vent'anni hanno accolto persone che sono arrivate, migranti, senza mai fermarsi. Ho vissuto lì un anno e non ho mai sentito da nessuno parole di astio e paura nei confronti degli sbarchi. Le uniche volte in cui li vedo reagire con rabbia è quando ci sono troppe notizie negative associate all'isola: "disastro a Lampedusa", "i pesci che mangiano i cadaveri", "arrivano i terroristi". Quelle sono le cose verso le quali hanno, giustamente, un rifiuto totale. Vorrebbero che tutto si svolgesse senza lasciare traccia mediatica, portando avanti il loro aiuto quotidiano. Ce ne sono tanti che lavorano al Centro d'accoglienza, oggi che gli sbarchi sono procedura istituzionale: la raccolta in mare aperto, l'arrivo al porto e al Centro per l'identificazione.
 

Sa fino a poco tempo fa, quando arrivavano i barconi carichi sulla spiaggia, i migranti erano soccorsi, rifocillati, ospitati. Una volta in centinaia si buttarono in mare per salvare altrettanti naufraghi. C'è uno dei racconti del dottor Pietro Bartolo che mi è entrato nel cuore, anche se non sono riuscito a metterlo nel film. Quando su una nave carica c'era una donna incinta che non era riuscita a partorire, stretta tra la folla. Bartolo attrezzò una piccola sala operatoria e fece nascere la bimba. Non aveva detto nulla a nessuno ma quando uscì dall'ambulatorio, sfinito, trovò ad aspettarlo 50 lampedusane con pannolini e vestitini. Quella bimba oggi si chiama Gift, dono, e abita con la mamma a Palermo. Questo stato d'animo appartiene non solo a Lampedusa ma alla Sicilia e i siciliani.
 


Negli ultimi tempi sono arrivate migliaia di persone e non ho sentito nessuno a Palermo o Catania parlare di barriere. Quelle barriere fisiche e mentali che alcuni stati d'Europa innalzano, vergognosamente, oggi. L'accoglienza è la prima cosa che ho imparato dai lampedusani. La loro generosità mi ha stupito, ma il dottor Bartolo, che è stata la mia guida, mi ha spiegato che loro sono un popolo di pescatori e per questo accolgono tutto quel che viene dal mare. Dobbiamo assorbire anche noi l'anima dei pescatori. Ho dedicato la vittoria alla Berlinale di Fuocoammare a Lampedusa e ai suoi abitanti. Ho consegnato l'Orso d'oro a Bartolo, che oggi partirà per portarlo lì, tra gli abitanti. Arriverà prima sull'isola che a casa mia. Perché quel popolo oggi è la mia famiglia.

Condividi post
Repost0
21 febbraio 2016 7 21 /02 /febbraio /2016 17:28

L’AMACA del 19/02/2016  - Michele Serra . La Repubblica

ORMAI vegliardo, al termine di una vita luminosa e fervida (è uno dei maestri dell’astrattismo italiano), Eugenio Carmi ha scelto di morire in Svizzera, nel giorno del suo novantaseiesimo compleanno, dopo avere spiegato ai quattro figli che preferiva essere lui, non il suo cancro, a decidere quando e come congedarsi. Ma il giorno prima dell’addio, senza interventi esterni, Carmi è morto motu proprio, beffando le proprie stesse disposizioni. Conoscendolo, ho potuto sorridere del suo finale stoico e al tempo stesso spiritoso. Mi è tornato in mente il capo indiano del “Piccolo Grande Uomo”, che presagendo la fine si fa portare dal nipote (Dustin Hoffman) in cima a una montagna per lasciarsi morire.

All’opposto di Carmi, inopinatamente il vecchio si alza dal suo giaciglio di commiato e sentenzia: oggi non è un buon giorno per morire, riportatemi a casa. In entrambe le storie, quella vera e quella finta, la morte non è orrore e scompiglio, ma un silenzioso mistero da affrontare senza schiamazzi. Chissà perché questo voler morire, che è anche un saper morire, viene giudicato dagli zelanti un atto di arroganza. Quando è invece l’umiltà — la coscienza della fine — a circondare quei morenti così composti, così a noi fraterni. Ti abbraccio, caro Carmi, e con te tutti coloro che si affacciano alla morte con una così sbalorditiva semplicità.

Così mio padre Eugenio Carmi ha scelto di morire a 96 anni perché non poteva più dipingere"

La figlia Francesca spiega la decisione dell’artista scomparso due giorni fa. Il pittore si trovava in Svizzera per sottoporsi all’eutanasia. "Lo ricorderemo a Milano con una festa e con la musica come voleva lui"


GENOVA - Voleva decidere lui quando andarsene dal mondo. Perciò aveva scelto la morte assistita, Eugenio Carmi, esponente tra i più noti dell'astrattismo italiano, con una passione dichiarata per la scienza. Per lui la morte è arrivata due giorni fa, da sola. Eugenio Carmi aveva 96 anni, li avrebbe compiuti ieri, il giorno scelto per la "dolce morte".

Per questo, quindici giorni fa, chiude lo studio di Milano, la città dove ancora è aperta una sua mostra al Museo del Novecento, saluta gli amici, avverte i figli che il momento è arrivato. Loro quattro, Francesca, Antonia, Stefano e Valentina, avuti da Kiky, sua moglie, sapevano già. Il padre, tempo fa, aveva mandato a loro e alla sorella Lisetta, un'altra grande artista ma nella fotografia, una lettera. Per spiegare che la sua vita era troppo bella per ridurla a un susseguirsi faticoso di giorni.

Perciò, al momento giusto, avrebbe guidato la mano del destino. Non c'è riuscito. In Svizzera, nella clinica dove si era sistemato, in una stanza semplice, confortevole, scarna di oggetti e di mobili, la morte ha scelto da sola quando prenderselo. È successo martedì, un giorno prima del suo addio programmato, perché, conferma la figlia maggiore Francesca: "Lo divertiva l'idea di aprire e chiudere il ciclo del suo tempo nello stesso giorno".

Eugenio Carmi viene al mondo il 17 febbraio del 1920 a Genova, la città dove cresce, che abbandona quando si rifugia in Svizzera per le leggi razziali. Si laurea in chimica, nel dopoguerra è la pittura che lo attira, che lo coinvolge, che gli cambia la vita. A Genova, all'Italsider grande fabbrica siderurgica, si forma il Carmi maestro dell'animazione culturale, poi arrivano i suoi lavori, l'amicizia con Umberto Eco, la scelta di aprire a Genova, a Boccadasse la "Galleria del Deposito" la prima che, per una sua intuizione, mette sul mercato i multipli d'autore. Coinvolge i nomi dell'avanguardia come Lucio Fontana, per un'idea di "arte democratica" che lo affascinava. A cui resterà fedele. Fino all'ultima decisione: la morte dolce, che non ha avuto per un pugno di ore.

Francesca Carmi, sapevate di questa scelta?
"Sì, lo aveva scritto in una lettera molti anni fa: "se non posso più dipingere e fare la mia vita non ha senso andare avanti"".

Come definirebbe la vita di suo padre?
"È stata intensa, bella, con momenti bui, certo, come la fuga nel 1938 per le leggi razziali, poi è arrivata mamma, una donna fantastica, che sapeva come stargli a fianco".

Due settimane fa suo padre vi ha avvertito di quello che stava per fare?
"Ha detto che il momento era arrivato, noi siamo andati a trovarlo in Svizzera, io ero con lui quando se n'è andato via. Avevamo chiacchierato fino a un'ora prima, io lui e Valentina, mia sorella, l'altra, Antonia è tornata dagli Stati Uniti dove abita e poi Stefano".

Il lungo addio di suo padre quando è incominciato?
"So solo che a un certo punto ha chiuso con il mondo. Era fatto così. Ha voluto salutare i suoi amici, ha affidato lo studio a Sara, la sua assistente. In questi ultimi giorni leggeva, discuteva, ma il mondo che era stato il suo lo ha tagliato via. Solo quello, la scienza lo interessava sempre, si era entusiasmato per le onde gravitazionali".

Che malattia aveva?
"Un linfoma, servivano lunghe sedute di chemio, per un po' è andato avanti, poi ha detto basta".

Lei condivide quella scelta?
"Io avrei fatto come mio padre. Voleva andarsene il giorno del compleanno, per iniziare e chiudere il suo ciclo nello stesso giorno, come un cerchio. Ma credo sia stato comunque lui ad affrettare i tempi: da venerdì sera non si nutriva più. Eppure amava molto il cibo, anche lì in Svizzera mangiava regolarmente, poi quell'ordine: "Non portatemi più niente"".

Un ricordo?
"Ero piccolina, iscritta all'asilo a Genova. Un giorno sono tornata a casa terrorizzata, mi avevano detto che se commettevo peccato mi sarebbe venuta una macchia nera nell'anima. Io non sapevo, non capivo cosa fosse l'anima o il peccato. Era la metà degli anni Cinquanta. Mio padre era seduto a tavola, non ha detto una parola, si è alzato, mi ha preso per mano, mi ha riportato all'asilo e ha urlato: "Non la vedrete mai più, mia figlia"".

Un genitore  comunque ingombrante?

"Non è stato un padre facile, aveva la sua arte. Per fortuna c'era mamma che curava i figli, la galleria del Deposito. Noi siamo cresciuti così, tra amici e mio padre che ci raccontava le fiabe del Lupo Geremia, che inventava di volta in volta".

E adesso?
"Prepariamo la festa che ci ha chiesto, con la musica di Yellow Submarine. Sarà a Milano ai primi di marzo".
 

Condividi post
Repost0
15 febbraio 2016 1 15 /02 /febbraio /2016 13:34

La famiglia c'é quando si amano i bambini

Carissimo  Serra,

         esistono le famiglie omosessuali? Io penso di no. Spiego. Prendo in prestito dalla genetica fenotipo e genotipo (semplificando come si appare  e come si é). E’ chiaro che una famiglia composta da due uomini o due donne appaia costituita da soggetti dello stesso sesso, ma i primi ad accorgersi   della presenza di caratteristiche maschili e  femminili (razionalità, pragmatismo, sensibilità emotiva, capacità di empatia, forza fisica, ecc.) sono proprio i bambini che vivono in queste famiglie.

    E’ stato accertato che non sono e non si sentono diversi. Questo vuol dire che riconoscono sempre la presenza di “mamma” e “papà” anche se le caratteristiche femminili e maschili non sono polarizzate su individui (fenotipicamente) bene ìdentificabili, come succede nelle coppie eterosessuali, ma  sono distribuite in modo random su due soggetti della coppia (siano essi due uomini o due donne).Consiglierei ai vari paladini della famiglia “tradizionale” di avere maggior rispetto  per le capacità e il buonsenso dei bambini.

   Auguro a loro (i bambini!!!) di avere degli adulti che li amino e li aiutino a crescere che a loro non capitino quelle violenze anche estreme statisticamente presenti nelle famiglie eterosessuali: la saluta un nonno settantenne, prevalentemente maschio, con tre splendide nipotine.

LA risposta di Serra

Riconosco che il tema delle adozioni (confinante ma non coincidente con quello dell’utero in affitto) è quello più discutibile. Da molti viene impugnato pretestuosamente per minare l’intera materia delle unioni civili. Altri ne parlano con intelligente perplessità  come il lettore Alberto Stancari  che mi scrive per dire che non possiamo ”pianificare   tutto quello che ci pare e piace  solo perché la tecnica ce lo consente: il concetto di limite mi è caro. In me prevale la convinzione che la vita sia plurale e imperfetta; che si venga al mondo, e ci si cresca in mezzo, nelle circostanze più varie e disparate, e sia non solo legittimo, ma anche logico che le leggi umane ne prendano atto, cercando di allargare tutele e diritti a quante più famiglie possibili. Non è vero – e sto parlando di persone e di vite vere – che esista un solo modo di essere “famiglia”. Né che allevare figli sia un’attività codificata. C’è chi è cresciuto con nonni e zie più presenti e determinanti dei genitori biologici; chi con padre e madre diverso da quello “legale”. Chi in orfanatrofio e dunque senza alcun genitore: Chi infine con genitori assenti, ancorché ambosesso; e avendiìo decisive figure  di riferimento esterne alla famiglia.

    Tendo dunque a dare ragione a “nonno Paolo”: per essere cresciuti da due persone dello stesso sesso non è di per sé un problema, così come certificato, almeno fi qui, dagli studi disponibili. Il solo vero problema per i bambini, è la mancanza di amore e protezione. E’ immaginabile che la vera difficoltà, per bambini cresciuti da genitori dello stesso sesso, sia piuttosto il pregiudizio che si manifesta a scuola, in mezzo a compagni e professori non sempre all’altezza. Ma resistere al pregiudizio è una delle esperienze che tutti o quasi dobbiamo fare per diventare adulti: e cedere al pregiudizio una delle peggiori rese che possono capitare.

Carissimo Serra,

         esistono le famiglie omosessuali? Io penso di no. Spiego. Prendo in prestito dalla genetica fenotipo e genotipo (semplificando come si appare  e come si é). E’ chiaro che una famiglia composta da due uomini o due donne appaia costituita da soggetti dello stesso sesso, ma i primi ad accorgersi   della presenza di caratteristiche maschili e  femminili (razionalità, pragmatismo, sensibilità emotiva, capacità di empatia, forza fisica, ecc.) sono proprio i bambini che vivono in queste famiglie.

    E’ stato accertato che non sono e non si sentono diversi. Questo vuol dire che riconoscono sempre la presenza di “mamma” e “papà” anche se le caratteristiche femminili e maschili non sono polarizzate su individui (fenotipicamente) bene ìdentificabili, come succede nelle coppie eterosessuali, ma  sono distribuite in modo random su due soggetti della coppia (siano essi due uomini o due donne).Consiglierei ai vari paladini della famiglia “tradizionale” di avere maggior rispetto  per le capacità e il buonsenso dei bambini.

   Auguro a loro (i bambini!!!) di avere degli adulti che li amino e li aiutino a crescere che a loro non capitino quelle violenze anche estreme statisticamente presenti nelle famiglie eterosessuali: la saluta un nonno settantenne, prevalentemente maschio, con tre splendide nipotine.

Condividi post
Repost0
14 febbraio 2016 7 14 /02 /febbraio /2016 10:48

E' meglio regolamentare nei vari aspetti  questo fenomeno che nella realtà esiste,Vedi titolo in prima pagina della"Stampa" o si preferisce farlo e non dirlo con buona pace della realtà e dell'etica (ndr.)

 Ogni anno 100 bimbi italiani nascono dall’utero in affitto. .

 

“Io e Adriano finalmente padri, grazie ai soldi per l’utero in affitto”

Una coppia gay racconta la sua storia. Ma il fenomeno riguarda soprattutto gli etero. Un affare da 3 miliardi l’anno: secondo alcune stime, due italiani ogni settimana nascono così

 

In famiglia. A destra Michele Falcone con il suo compagno Adriano Visinoni. Con loro, i due gemelli avuti dalla madre surrogata, la messicana Laura Hernandez 

 

 

 

 

Andrea MALAGUTI

ROMA

Di che cosa parliamo quando diciamo, sbrigativamente, «utero in affitto»? Di quale giro d’affari, di quali sofferenze, di quale modello genitoriale? E, soprattutto, è ancora possibile immaginare di fermare un processo globale che non solo è pienamente in atto, ma che, sommandosi alla procreazione medicalmente assistita, riguarda già milioni di persone, compresi - secondo stime attendibili - circa cento bambini italiani ogni anno con la sola gestazione per altri? 

 

GESTAZIONE PER ALTRI  

«Spero che tutto si risolva. E che Dio offra la capacità di amare a queste persone piene di dubbi». Si affida all’Onnipotente la cattolica madre surrogata messicana Laura Hernandez e lo fa in un sms inviato all’avvocato Michele Falcone, fidanzato da 17 anni con l’organizzatore di eventi Adriano Visinoni.  

LEGGI. ANCHE Il no dell’Ucraina: “Niente trattamenti per omosessuali”  

Falcone e Visinoni convivono a Vimercate, in Brianza, e da quindici mesi sono diventati papà, anche se ufficialmente solo Michele può rivendicare il ruolo. In paese la loro famiglia è stata accolta bene, ma Laura è preoccupata perché il dibattito italiano sulla «gestazione per altri», o «utero in affitto» - come lo definisce chi trova la pratica spregevole - ha attraversato l’oceano. E lei si è spaventata. Che cosa succederà ai piccoli? Ve li porteranno via? Perché questo cardinal Bagnasco dice che «i bambini non sono un diritto»? «Noi siamo una famiglia e le famiglie si amano e si appoggiano», scrive Laura, che, stando all’analisi sgradevolmente sbrigativa del ministro Lorenzin sarebbe un’«ultraprostituta». È stata lei, infatti, a portare in grembo per nove mesi i gemelli di Michele e Adriano. Nei messaggi di questi giorni usa frasi brevi e secche e cerca un equilibrio, anche narrativo, perché sa che l’eccesso di melodramma può essere di cattivo gusto quanto la mancanza di compassione. «Chi dice che mi avete sfruttato è fuori strada. Il mio è stato solo un gesto d’amore». Davvero? 

 

Per capire come si è arrivati a questo gesto d’amore è necessario allargare il quadro e chiedersi che cosa significhi spingere una donna - o due - a diventare madre per conto terzi. Una domanda che riceve risposte diverse a seconda dell’angolo del pianeta in cui viene posta e che alimenta un giro d’affari stimato ufficiosamente in tre miliardi di dollari l’anno, sostenuto all’80% da coppie etero e solo al 20% da coppie omo, anche se a dar retta al dibattito nostrano le percentuali sembrerebbero rovesciate.  

 

STORIA DI MICHELE  

Seduto in un bar nel centro di Milano, l’avvocato Falcone ordina un tè, mostra orgogliosamente la foto dei gemelli sul cellulare e racconta la sua storia perché ha capito da un pezzo che impegnarsi significa smettere di barare. «Da qualche anno sentivo questo bisogno di paternità. Ne ho parlato a lungo con Adriano e alla fine abbiamo scelto la gestazione per altri, perché per noi coppie gay l’adozione è preclusa. Siamo benestanti, dunque ci siamo mossi». Una ricerca cominciata su internet lo ha portato a mettersi in contatto con un istituto statunitense che opera in Messico. Lui ha messo lo sperma, soluzione che lo garantisce da qualunque contestazione legale, e una ragazza sudafricana, bianca, ha donato gli ovociti. «Ho scelto lei perché ha 28 anni e due figli. E aveva già fatto due volte un’operazione analoga. Mi ha colpito perché sul suo profilo spiegava quanto conti per lei la famiglia. Siamo ancora in contatto su Facebook. Ma soprattutto sono rimasto in contatto con Laura». Laura allora.  

 

Trentadue anni, laureata in economia e commercio, due figli, un marito, un lavoro fisso. «I nostri bambini sono cresciuti nel suo utero. È stata un’esperienza bellissima. E la sua è stata una scelta consapevole. Un gesto d’amore, appunto. Non ho dubbi che i nostri figli da grandi andranno a trovarla in Messico». Arriva Adriano. È brizzolato, sottile, piuttosto elegante. Si siede. Guarda Michele. Danno l’impressione di amarsi bene.  

 

I figli di Laura li considerate fratelli dei vostri gemelli? «No», dicono entrambi. Poi Michele aggiunge. «Vorrei solo che Adriano esistesse anche per la legge italiana come padre». Vi è mai venuto il dubbio di avere sfruttato le madri dei vostri piccoli? «Ci siamo fatti molte domande. Ma a questa la risposta è sempre stata: no. Ai gemelli in ogni caso racconteremo tutto». Il problema è che non esiste un «tutto» unico da raccontare.  

I NUOVI GENITORI  

Il dibattito sulla liceità del ricorso alla gestazione per altri è ancora acerbo, soprattutto da noi, e costringe i biologi ad affrontare con difficoltà temi filosofici, i teologi a occuparsi maldestramente di scienza e la politica a rimbalzare da una posizione all’altra a secondo delle convenienze elettorali. Peccato che sia il mondo globalizzato, e in continua evoluzione, a imporre la propria agenda.  

 

Nel suo ufficio di Bologna, il professor Carlo Flamigni, già ordinario di ostetricia e ginecologia e membro del comitato nazionale per la bioetica, nota che «nel 2015 la prima bambina nata da una fecondazione medicalmente assistita ha compiuto 37 anni. Quella che allora era considerata un’avventura eticamente discutibile dalle scienze biologiche oggi è un’esperienza che riguarda cinque milioni di esseri umani nel mondo».  

 

Ogni anno, attraverso un milione e mezzo di trattamenti in laboratorio nascono 350 mila bambini e il paese che ha il maggior numero di centri specializzati è l’Italia (oltre 200 contro i 107 della Francia). «Siamo dunque di fronte a un nuovo paradigma, relativo non solo alla fertilità ma anche alla genitorialità», dice Flamigni.  

 

Un nuovo paradigma che la gestazione per altri sta visibilmente allargando, introducendo una serie di controindicazioni e problemi (pratici ed etici) che solo una scelta legislativa condivisa, per lo meno a livello europeo, sarebbe in grado di contenere. «L’idea che la maternità o la paternità siano un istinto e non un sentimento è a mio avviso sbagliata. Basti pensare che in Gran Bretagna i brefotrofi nacquero nel Settecento perché il governo si stufò di trovare bambini morti per strada e che comunque all’interno di quelle strutture la possibilità di sopravvivere era pari al 10%. I genitori non avevano grande interesse per i figli evidentemente». Cambia la morale comune. Cambiano gli strumenti scientifici. Ed è facile immaginare che nel giro di qualche decennio i rapporti sessuali avranno una funzione sostanzialmente ricreativa e non più riproduttiva. Nel frattempo le decine di migliaia di persone che decidono di ricorrere alla surrogacy sono costrette a muoversi in una vera e propria giungla.  

 

 

IL MERCATO DEI CORPI  

«Una percentuale significativa di turisti della fertilità viaggia perché determinate forme di lavoro riproduttivo non sono accessibili nel paese d’origine», sostengono Melinda Cooper e Catherine Waldby, docenti australiane che per prime, in uno straordinario libro intitolato Clinical Labor, hanno valutato quanto e come la bioeconomia si sia sviluppata puntando soprattutto sul corpo delle donne, producendo questo giro d’affari miliardario al quale Michele Falcone e Adriano Visinoni hanno contribuito con quarantamila dollari. Centomila in meno di quelli che avrebbero speso se Laura Hernandez fosse stata nordamericana. Negli Stati Uniti infatti, dove la logica commerciale non solo è esplicita ma anche incentivata, il ricorso alla gestazione per altri costa mediamente 140 mila dollari. Ma può raggiungere livelli molto più elevati se la donna che mette a disposizione gli ovociti è particolarmente avvenente e laureata. A quel punto è lei a fare il prezzo, consapevole di far parte di un processo di selezione che punta a raffinare la razza. È tutto chiaro. Palese. Regolato dalla legge.  

 

Antonio Brandi, presidente dell’associazione ProVita ritiene inaccettabile la pratica della gestazione per altri, considerandola una forma pericolosa di sfruttamento del corpo delle donne e gira l’Italia non solo per dire no alle coppie gay - introducendo un discutibile nesso tra utero in affitto e coppie omo - ma anche per mostrare il documentario vincitore del primo premio al Film Festival della California. Il documentario si intitola «Eggspolitation» e racconta le vicende di una serie di ragazze americane che vendendo ovociti hanno messo a repentaglio la vita a causa di emorragie, ictus e infarti. «E’ così che le grandi aziende fanno affari milionari sulla pelle, il sangue e la vita delle donne e dei bambini». Il documentario dice il vero. Ma non dice la verità. Che è più larga e complessa di così. Nei Paesi avanzati i livelli di sicurezza per le donatrici sono sempre più elevati. E i controlli ai quali devono sottoporsi sono costanti e sofisticati. È un problema di marketing, più che di salute. Una donna che sta male non è una buona pubblicità.  

 

Tema un po’ meno sentito nei paesi dell’Est, dove le ragazze che mettono a disposizione il proprio utero lo fanno spinte da uno stato di necessità. «Dopo la caduta del muro le donne sono state espulse dal mercato del lavoro. E per garantirsi un’esistenza dignitosa hanno dovuto affidarsi al corpo», dice Flamigni. Tre le strade per metterlo a reddito: fare le badanti, prostituirsi, affittare uova e utero. Le giovani ucraine sono particolarmente richieste perché bianche, belle, forti e con gli occhi chiari. Perfette dunque per le facoltose coppie del Nord Europa. E anche per quelle italiane. «Secondo i nostri dati ogni mese in Ucraina nascono almeno tre o quattro bambini italiani», dice l’avvocato Franco Antonio Zenna, che lavora a Barcellona per un gruppo (Subrogalia) che si occupa di fornire tutela legale a chi decida di tentare questa strada. «Sia chiaro che noi non facciamo intermediazione. Diamo però assistenza alle coppie che ce la chiedono. In Spagna arrivano ogni anno circa 700 bambini grazie alla gestazione per altri». E in Italia? «Dati ufficiali non ce ne sono, non mi meraviglierei se i numeri fossero analoghi». In realtà i numeri sono molto più bassi. Le stime parlano di cento bambini circa.  

 

LA SOLIDARIETA’  

Esistono comunque due tipologie di maternità surrogata. Quella a pagamento e quella per solidarietà, che si basa generalmente su un legame affettivo o sociale tra la gestante e la persona o la coppia di genitori a cui verrà consegnato il bambino alla nascita. È lo schema che viene utilizzato in Gran Bretagna e in Canada dove alle madri surrogate viene riconosciuto un rimborso spese legato alla perdita temporanea del lavoro e alle necessità legate alla maternità. È la terza via che cerca di trovare la mediazione tra la commercializzazione spudorata statunitense e la messa a reddito dell’utero per necessità che avviene nell’Europa dell’Est. Il mercato esiste. È quotidiano. È possibile e giusto fermarlo o è normale e inevitabile regolarlo? «A me sembra che esista “la presunzione in favore della libertà”, come sosteneva J. S. Mill», dice il dottor Flamigni, ma è proprio su questa valutazione che il Paese si è spaccato , incapace di rispondere a due domande di ordine generale. La prima: se - come sostiene Bagnasco - «i figli non sono un diritto», che cosa raccontiamo ai cinque milioni di persone nate secondo modalità «non tradizionali»? La seconda, meno diretta, ma forse più significativa: siamo in grado di mutare le opinioni ereditate dall’etica tradizionale considerando che la vita nascerà con sempre maggiore frequenza da meccanismi che nulla hanno a che vedere con l’unione fisica tra un uomo e una donna?  

 

IL CASO Per le adozioni particolari la legge c’è daL 1983: si applica 500 volte l’anno  

 

LO STRALCIO é discriminazione sessuale

L’ex presidente del tribunale dei minori di Roma: "L'utero in affitto non può essere reato universale, non è la pena di morte. Diversi paesi l'hanno regolamentato"

Sì, si può essere contrari all'utero in affitto e a favore della stepchild adoption, come la senatrice Anna Finocchiaro "perché sono due cose abissalmente diverse". Mentre eliminare l'adozione del figlio del compagno dalla legge Cirinnà "significa di fatto violare la Costituzione. A meno che, paradossalmente, non si voglia inserire nella Carta la discriminazione sessuale".

Melita Cavallo è stata fino al dicembre scorso presidente del tribunale dei minori di Roma, con le sue sentenze favorevoli alla stepchild per le coppie omosessuali ha destato clamore e cambiato la giurisprudenza. Sull'utero in affitto, da giudice, di una cosa è certa: non può diventare un reato universale, "non è mica la pena di morte".

Partiamo dalla stepchidl adoption, è già possibile in Italia?
"Sì, è prevista per le coppie sposate dalla legge del 1983. Si tratta dell'adozione del figlio del coniuge. E diverse sentenze, già confermate in appello, l'hanno estesa a coppie di fatto. Ma deve valere anche per le coppie omosessuali".

Perché nei tribunali si sta affermando questo orientamento?
"Perché negare la stepchild sulla base del genere è una discriminazione sessuale. Per lo stesso motivo stralciarla dalla legge Cirinnà significherebbe violare la Costituzione e anche la Convenzione internazionale sui diritti umani. Quella norma non fa altro che estendere alle unioni civili la possibilità di adozione di un figlio già nato, accudito ed amato dalla coppia".

Secondo la Finocchiaro non è vero che la stepchild per le unioni gay incoraggia la pratica dell'utero in affitto, perché allora dovrebbe già incentivarla per le coppie etero non fertili. Dunque si può essere a favore della stepchidl e contro l'utero in affitto.
"Sono due cose completamente diverse. Nel primo caso c'è già un bambino, che è stato cresciuto insieme da due persone. Ed è vero che le coppie sposate che chiedono l'adozione del figlio del coniuge sono moltissime, centinaia in ogni tribunale. Escludo però che siano tante quelle che hanno utilizzato una maternità surrogata. Prima di tutto perché ha un costo elevatissimo".

Il ministro Lorenzin in una intervista a Repubblica ha denunciato un contratto di utero in affitto stipulato da una coppia italiana per poco più di 5 mila euro.
"Nessuno potrebbe legittimare un simile accordo, l'espressione utero in affitto rimanda allo sfruttamento della donna, quindi è da condannare. Però non è una novità. Mi capitò un caso già 30 anni fa. Ma chiedo: se si può donare un rene, perché ci si scandalizza se una donna porta in grembo un figlio donandolo ad altri? In diversi paesi, come il Canada, la pratica è regolamentata in modo rigoroso, senza

scopi commerciali, lo Stato paga il periodo di maternità della donna, che poi mantiene un rapporto con il figlio che ha partorito". È realistico proporre la messa al bando internazionale della maternità surrogata? "Non mi sembra affatto realistico".

Condividi post
Repost0
11 febbraio 2016 4 11 /02 /febbraio /2016 10:57

Eros Ramazzotti. Un po’ prima della metà.

Un discorso tranquillo senza enfasi o forzature.

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-89411572-304e-4381-bf9d-92e8684a4733.html

Enzo Bosso a Sanremo: canzone e intervista

http://video.repubblica.it/dossier/sanremo-2016/sanremo-il-maestro-bosso--la-musica-e-come-la-vita-si-puo-fare-in-un-solo-modo-insieme/228144/227435?ref=tbl

Torinese, affetto da una malattia neurologica degenerativa, è uno dei musicisti italiani più conosciuti al mondo: "La musica si può fare solo insieme"

SANREMO - Il Festival lo ha accolto con un lunghissimo applauso: Ezio Bosso da anni è considerato uno dei compositori e musicisti più influenti della sua generazione. Pianista, compositore e direttore d'orchestra di fama internazionale (ma anche ex bassista degli Statuto per tre anni), affetto da una malattia neurologica degenerativa, Bosso ha incantato e commosso il pubblico dell'Ariston eseguendo il brano Following a bird. "Ricordatevi che la musica come la vita si può fare in un modo solo: insieme", ha detto durante l'intervista con Carlo Conti. "La musica è una fortuna e, come diceva il grande maestro Claudio Abbado, è la nostra vera terapia".

Parlando del brano eseguito durante la serata, Bosso ha spiegato: "Mi fa riflettere sul fatto di perdersi per imparare a seguire. Perdere i pregiudizi, le paure, perdere il dolore ci avvicina". "Noi uomini tendiamo a dare per scontate le cose belle - ha poi aggiunto - la vita è fatta di dodici stanze (il suo album si intitola The 12th room, ndr): nell'ultima, che non è l'ultima, perché è quella in cui si cambia, ricordiamo la prima. Quando nasciamo non la possiamo ricordare, perché non possiamo ancora ricordare, ma lì la ricordiamo, e siamo pronti a ricominciare e quindi siamo liberi".

Torinese, 44 anni, Bosso ha cominciato lo studio della musica a quattro anni con una prozia pianista. Si è formato poi a Vienna, sotto la guida di Streicher e Österreicher e Schölckner.

Sia come solista, che come direttore o in formazioni da camera si è esibito nelle più importanti stagioni concertistiche internazionali. Ha vinto importanti riconoscimenti, come il Green Room Award in Australia (unico non australiano a vincerlo) o il Syracuse NY Award in America, la sua musica viene richiesta nella danza dai più importanti coreografi come Christopher Wheeldon, Edwaard Lliang o Rafael Bonchela, nel teatro da registi come James Thierrèe e nel cinema  ha collaborato con registi di fama internazionale tra cui Gabriele Salvatores. Per il regista premio Oscar ha composto la colonna sonora per quartetto d'archi del film Io non ho paura ed ha lavorato sulle musiche di altri suoi film tra cui Quo vadis, baby? e Il ragazzo invisibile.

 

Attualmente vive a Londra, dove è stato direttore stabile e artistico dell’unica orchestra d’archi di grande numero inglese: The London Strings. Nel 2014 ha debuttato con la sua Fantasia per Violino e Orchestra alla testa di London Symphony Orchestra con Sergey Krylov al violino solista.

Nel 2015, Bosso è stato scelto dall’Università Alma Mater di Bologna per comporre e dirigere una composizione dedicata alla Magna Charta dell’Università che contiene il primo inno ufficiale di questa importante istituzione mondiale.

 

Condividi post
Repost0
2 febbraio 2016 2 02 /02 /febbraio /2016 09:08
Condividi post
Repost0
26 gennaio 2016 2 26 /01 /gennaio /2016 22:21
La sfida di Lara alla leucemia "Cerco un donatore online"
La vicenda della ragazza  si 24 anni colpita da un male raro è un Caso: poche persone al mondo possono aiutarla

IRMA D'ARIA – La Repubblica

Non ci sono limiti geografici per aiutare Lara o chi come lei è in attesa di un trapianto: chiunque può diventare un donatore anche se non vive nello stesso paese.

In Italia ci si può iscrivere al Registro dei donatori contattando l'Associazione Donatori Midollo Osseo (www.admo. it).

LARA Casalotti ha 24 anni e un patrimonio genetico particolarissimo: sua madre è sino-thailandese, suo padre italiano. Fino a qualche mese fa questo l'avrebbe resa una ragazza particolare e basta: oggi rischia di condannarla a morte.

Qualche mese fa infatti Lara ha scoperto di avere una forma acuta di leucemia: solo un trapianto potrebbe salvarla, ma il suo codice genetico non è compatibile con quello del resto dei suoi familiari. Per questo Lara e i suoi hanno scelto la rete per scovare quel 3% di possibili donatori su tutta la popolazione mondiale che potrebbero salvarle la vita.

«Abbiamo dei parenti in Thailandia e anche negli Stati Uniti e così la campagna sui social network è partita da lì ma ora si è allargata in vari altri paesi tra cui Canada, Nuova Zelanda, Australia e Italia» racconta Lara, che abbiamo raggiunto a Londra grazie ai social network.

Così è nata la campagna on line "Match4Lara", attraverso il sito Match4Lara.com, una pagina Facebook dedicata e l'hashtag #match4Lara. L'obiettivo è spingere quante più persone è possibile a iscriversi ai registri nazionali dei donatori di midollo osse in modo da trovare un donatore compatibile con Lara. La scoperta della malattia è avvenuta poco prima di Natale quando la ragazza, appassionata di diritti umani e interessata alle problematiche dei rifugiati, si trovava in Thailandia per seguire un progetto del suo professore universitario. Prima di partire aveva già avvertito un dolore alla schiena poi mentre si trovava lì i sintomi sono peggiorati ed è arrivata la diagnosi di leucemia mieloide acuta. Ora Lara si trova a Londra dove vive e sta facendo un secondo ciclo di chemioterapia presso lo University College Hospital. Ma i medici sono stati chiari: c'è tempo solo fino ad aprile.

La campagna web ha fatto registrare un boom di iscritti al registro donatori di midollo

Da quando è stata lanciata la campagna sono 6.700 le persone che si sono iscritte al registro dei donatori di midollo nel Regno Unito: una cifra molto più alta rispetto alle 1200 iscrizioni che ci sono state lo scorso anno nello stesso periodo.

Anche in Italia, l'Associazione Donatori Midollo Osseo (Admo) segnala un incremento del numero di iscrizioni al Registro nazionale soprattutto da parte di giovani.

«Ricevere messaggi da persone che non conosco o addirittura sapere che dopo aver letto la mia storia sono andati ad iscriversi al registro di donatori, tutto questo davvero mi fa tornare voglia di credere ancora nell'umanità» racconta Lara.

La solidarietà umana di tutto il pianeta. Al suo fianco gente comune e personaggi famosi

Anche alcuni personaggi famosi tra cui la scrittrice J.K. Rowling (la "mamma" di Harry Potter) e il batterista dei Pink Floyd, Nick Mason, si sono mobilitati a suo favore su Twitter.

Non ci sono limiti geografici per aiutare Lara o chi come lei è in attesa di un trapianto: chiunque può diventare un donatore anche se non vive nello stesso paese.

In Italia ci si può iscrivere al Registro dei donatori contattando l'Associazione Donatori Midollo Osseo (www.admo. it). Per donare a volte può bastare anche un semplice prelievo di sangue oppure si ricorre ad un intervento per prelevarlo dalle ossa del bacino.

La campagna web ha fatto registrare un boom di iscritti al registro donatori di midollo La solidarietà arriva da tutto il pianeta: al suo fianco gente comune e personaggi famosi

LA FAMIGLIA

Lara Casalotti è di etnia mista: suo padre è italiano, sua mamma sino-thailandese Per questo la ricerca di un donatore di midollo per lei è difficile

 

Quel Dna che rende alcuni di noi più unici degli altri

 

Quando diciamo che ciascuno di noi è unico e speciale, diciamo una verità che è scritta nel nostro patrimonio genetico, prima ancora che subentrino l'educazione, la storia personale, tutte le vicende che contribuiscono a formare quella diversità individuale che rende vario e interessante il mondo.

Nel momento in cui siamo concepiti, ciascuno di noi riceve una copia del patrimonio genetico di ognuno dei suoi genitori; i nostri genitori hanno ricevuto a loro volta i geni dei nostri 4 nonni, 8 bisnonni, 16 trisnonni. È facile capire quanto possa essere notevole la differenza tra 2 individui fin dalla loro origine, perché ciascuno è una combinazione inedita. Anche 2 fratelli hanno in comune solo la metà, in media, dei geni dei loro genitori. Quando poi la prima cellula che darà origine a un organismo inizia a riprodursi –e seguirà un numero enorme di riproduzioni cellulari prima di giungere ad un organismo adulto- possono subentrare piccoli cambiamenti, mutazioni del patrimonio genetico, che renderanno ciascuno ancor più unico e particolare, dal punto di vista della sua biologia. Solo i gemelli identici sono davvero uguali, ma anche loro non sono proprio del tutto uguali, già alla nascita.

Darwin fu il primo a parlare di "vigore degli ibridi": gli incroci tra linee di discendenza assai diverse -nel caso umano tra genitori di etnie lontane tra lorodanno una progenie di speciale robustezza. Chi conosce i figli di genitori di continenti diversi può rendersi conto con i suoi occhi di come questo ‘aumento di diversità' nei figli si manifesti spesso con caratteristiche particolarmente apprezzabili, in termini di salute, bellezza, qualità intellettuali o umane.

In un caso come quello di Lara, però, sono proprio le differenze che ci rendono unici a giocare contro di noi, quando si tratta di trovare una terapia, perché può diventare assai difficile trovare chi sia abbastanza simile a noi da donarci una parte di noi stessi così geneticamente determinata come il midollo osseo.

Lara è figlia di genitori di origini diverse e lontane: la madre è cino-thailandese, il padre italiano. Suo fratello non è compatibile dal punto di vista immunologico. Se avesse altri fratelli e sorelle, le probabilità che uno di loro fosse un donatore possibile aumenterebbero, ma non è questo il caso.

È commovente la grande ondata di solidarietà che sta spingendo migliaia di persone, soprattutto in Gran Bretagna, a registrarsi come donatori di midollo, ma non ci si può nascondere che Lara avrà bisogno di un bel colpo di fortuna per trovare il donatore adatto. Sarebbe più semplice, se le banche dati dei servizi sanitari nazionali disponessero del profilo immunologico dei loro assistiti, ma questo è di là da venire. A fronte del progresso nelle tecniche medico-chirugiche, che rendono possibili interventi delicati quali il trapianto di midollo, abbiamo ancora molta strada da percorrere nel campo della medicina sociale.

Condividi post
Repost0

Presentazione

  • : Blog di mario bolzonello
  • : VI INVITO A SCRIVERE COMMENTI, OPINIONI. CLICCA IN FONDO A DESTRA DEGLI ARTICOLI. Mi sembra utile istituire un collegamento tra vari Blog per favorire la circolazione delle idee, delle riflessioni che aiutino a capire e affrontare la realtà nei suoi molteplici aspetti (questo blogo si limitata a una riflessione sui diritti civili, sulla religione, sulla politica, sull'economia, qualcosa sulla cultura, ma non sono un tutologo). Lo scopo è ampliare la partecipazione delle persone, per una loro migliore convivenza nella vita quotidiana, un ampliamento della conoscenza, del senso civico, della democrazia , e della buona politica. Si vuole essere propositivi e si escludo atteggiamenti di semplice denuncia e rivendicazione. SEGNALATE, PER FAVORE, I BLOG CHE HANNO QUESTE CARATTERISTICHE. GRAZIE. In fondo a destra si troveranno i blog interessanti
  • Contatti

Comunicazione

Se desiderate comunicare con l'autore scrivete a : mario.bolzonellozoia@gmail.com

Cerca

ISCRIVITI alla newsletter

Se ti iscrivi sarai avvisato automaticamente quando verrà pubblicatoun nuovo articolo

Titoli Del Blog

Pagine