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17 gennaio 2014 5 17 /01 /gennaio /2014 15:15

 

 

Occorre che qualcuno ricordi , in mezzo a tutte le celebrazioni dell'uomo di pace,  che all'inizio drammatico della sua carriera Mandela é un uomo che ha preso le armi per difendere la dignità e la libertà del suo popolo.

 

IL GIGANTE NATO IN CELLA

NON riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c' è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica. MA LA sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell' Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d' argilla e quindi volesse "eliminarlo" prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura. Mandela superò le aspettative. Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all' inizio degli Anni ' 50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria,e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant' anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l' adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco. Il Sudafrica era un Paese dove c' erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l' ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l' Anc creò l' Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi.

IL SIMBOLO DI PERDONO. Qualcuno temeva che il colosso avesse i piedi di argilla e che la gente ne rimanesse delusa. Non c’era ragione di aver paura. Diventò un simbolo indiscusso di perdono.

Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia. Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All' epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island. Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliazione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell' Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l' apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un' autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare.

GLI ANNI DI CARCERE Quei 27 anni in carcere furono cruciali. Quando entrò era un giovane arrabbiato. Il dolore gli regalò empatia verso gli avversari, gli diede la forza di chi patisce in nome di altri Nessuno poteva contestare le sue credenziali.

Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l' autorità e la forza d' attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama. Eravamo tutti incantati l' 11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell' uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato chei nemici potevano diventare amicie abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di perdono e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l' ultimo presidente dell' apartheid poteva essere il vicepresidente e un "terrorista" il capo dello Stato. Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d' onore alla cerimonia d' inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l' ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell' ideologia dell' apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l' emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all' Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»? Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po' di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa. Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopoi suoi 27 anni di prigioniaè arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo. Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l' autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidie ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio. Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po' migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria. (Copyright Mail and Guardian Traduzione di Fabio Galimberti) Desmon Tuto – La Repubblica

Non seguiva la tolleranza ma il mutuo riconoscimento, vedeva le persone solo come esseri umani

Fra gli orfani di Mandela.Costruiremo il Sudafrica che aveva sognato per noi. Non c’è più dolore del lutto, non più lacrime. Ora la gente vuole essere unita nel suo nome, dimostrare che il sogno può continuare e non saranno le divisioni a vincere

  Il monumento: In definitiva, quello che voleva era che il vero monumento fossimo noi, la gente del suo paese, Ora spetta a noi provarci.                                                                      IL futuro: certo soffriamo ancora. Ma la nostra vita oggi è migliore grazie lui. E i miei nipoti, che sono qui con me, hanno davanti un futuro. Tutto grazie a lui

Inimitabile: nessuno sapeva guardare lontano come lui, è questo che ne ha fatto un leader inimitabile: averlo è stato un privilegio. Grazie Madiba I biscotti: era il mio vicino: una volta attraversò la strada, suonò alla porta e si mise parlare con mia moglie di ricette e del modo migliore di infornare i biscotti.

PIETRO VERONESE JOHANNESBURG - La Repubblica. Sono il Sudafrica che aveva sognato, queste migliaia di persone assiepate sulla Quarta avenue di Houghton, davanti al muro di cinta della sua casa: nerie indiani, bianchi, ricchi suoi vicini di quartiere e anziane nonne contadine venute apposta dalla campagna coni nipotini. Un miscuglio di colori, religioni, culture, origini vicinissime e lontane - europee, asiatiche, mediorientali - che fanno del Sudafrica l' immagine di quello che sta diventando il mondo intero e inducono a sperare che, se continuerà a funzionare qui, potrà davvero funzionare ovunque altrove. Un altro muro sta sorgendo davanti a quello in muratura, un muro di fiori, biglietti, messaggi di commiato, candeline, ritratti di "Tata Mandela", papà Mandela, disegnati da artisti, scolaresche, incerte mani di bambini. «Grazie Madiba», «Riposa in pace», « Hamba Kahle. Addio, compagno», «Per sempre nei nostri cuori». Il silenzio dell' agonia è finito e adesso anche qui, davanti all' edificio che racchiuderà ancora per qualche ora il corpo senza vita di Nelson Mandela, c' è brusio, canti, un clima quasi di gioia di ritrovarsi insieme. Non c' è infatti atmosfera di lutto, non più le lacrime che si erano viste nelle prime ore dopo che il presidente Zuma aveva dato la notizia della morte, e ancora il giorno dopo. In stridente contrasto con i toni che s' impongono all' ufficialità governativa, nella strada i volti rivelano piuttosto la contentezza di essere qui, vicini a Madiba, uniti nel suo nome, a «rendere omaggio» come dice una biondissima mamma stringendosi i figli in età prescolare. Qualcuno lecca un gelato, tutti sfoderano il cellulare per fare un foto, un gruppo intona Shosholoza, il canto dei minatori migranti reso universalmente noto dal film Invictus. Le persone si assiepano, si stringono, si abbracciano, si tengono per mano. È come se fossero venuti a dirgli che il suo Sudafrica vive e gli sopravviverà, che la sua eredità spirituale verrà raccolta dalle generazioni e il seme della tolleranza, della convivenza, della riconciliazione continuerà a fruttificare. E anche a rassicurare se stessi che così sarà e loro non si lasceranno avvincere dai seminatori di zizzania né travolgere dalle divisioni intestine. Ancora una volta è stato Desmond Tutu, l' anziano arcivescovo grandissimo amico del leader scomparso, con una di quelle frasi meravigliose di cui egli solo ha il segreto, a riassumere lo spirito del momento: «In definitiva, voleva che il monumento alla sua memoria fossimo noi sudafricani». Gli uomini e le donne stipati all' angolo tra la Quarta strada e la Dodicesima avenue ci stanno già provando. «Soffriamo», dice l' anziana contadina venuta dall' Orange Free State, «ma la nostra vita oggi è migliore grazie a lui e i miei nipoti, qui, hanno davanti un futuro». «Nessuno sapeva guardare lontano come lui, è questo che ne ha fatto un leader inimitabile», afferma un distinto signore indiano. Oltre l' incrocio, fermo sul cancello della sua lussuosa residenza, il dottor Mohamed, medico al vicino ospedale, racconta volentieri di quando Mandela, allora presidente, attraversò la strada e suonò il campanello, chiedendo di entrare a fargli visita «e si mise a parlare con mia moglie di ricette e del modo migliore di infornare i biscotti». «Averlo potuto incontrare per me è stata una benedizione», conclude il dottore. Ai bordi della via venditrici ambulanti hanno sistemato sull' erba una mercanzia studiata per la circostanza, ritratti, spille da fissare sul bavero della giacca, stoffe stampate con l' effigie di Madiba, il tutto nei colori nero verde e oro dell' African National Congress, il partito che fu di Mandela e governa il Paese da vent' anni. Gli affari vanno molto bene, dice una di loro. L' Anc rivendica legittimamente l' appartenenza di Madiba ai suoi ranghi ed è, insieme al governo e alla famiglia, uno dei tre grandi organizzatori delle cerimonie funebri. Al tempo stesso tuttavia traspare l' intento di usare politicamente il mito di Mandela per dare lustro a un' organizzazione che l' esercizio del potere ha pesantemente compromesso. E mentre le reti della tv di Stato trasmettono quasi in permanenza biopics sulla vita del "Padre della nazione", dibattiti sul suo lascito politico e spezzoni di suoi discorsi, il governo prepara la settimana di celebrazioni e lutto nazionale che si concluderà domenica 15 con la sepoltura di Mandela a Qunu, il villaggio della sua infanzia. L' impressione che ha dato ieri il ministro alla Presidenza Collins Chabane parlando con i giornalisti è che le cose stiano ancora molto indietro. Martedì ci sarà la commemorazione ufficiale allo FNB Stadium di Soweto, alla presenza dei capi di Stato e di governo venuti da tutto il mondo, tra i quali il presidente del consiglio italiano Enrico Letta. Poi tre giorni di camera ardente agli Union Buildings di Pretoria, fino a venerdì. Sabato il trasferimento aereo della salma nell' Eastern Cape e l' indomani i funerali. Questo il programma: ma sui dettagli ci sono ben poche informazioni. Non si conoscono ancora gli orari, le modalità previste per contenere una folla che si preannuncia oceanica, le dimensioni dell' apparato di sicurezza che dovrà gestire l' affluenza di dignitari e notabili dai quattro punti cardinali, a cominciare dal presidente americano Barack Obama. Si sa tuttavia che le Forze armate sono tutte mobilitate, sospese vacanze, licenze, turni di riposo, compreso il richiamo di molti riservisti. Ed è trapelato che al corpo diplomatico, la ministra degli Esteri ha vivamente sconsigliato la presenza dei capi di Stato ai funerali. Impedire di partecipare a delle esequie è una cosa inconcepibile, avrebbe detto, ma a Qunu saremo in grado di garantire ben poco, per cui sarà molto meglio che i vostri leader presenzino alla commemorazione di martedì, rendano omaggio alla salma l' indomani e poi partano. E in effetti la gestione della presenza di migliaia di invitati e giornalisti in un borgo rurale del profondo Sudafrica si presenta come un incubo per la logistica e la sicurezza. Il Paese si appresta comunque a dare un grande spettacolo della propria partecipazione e unità. Nei tre giorni della camera ardente la salma verrà trasportata ogni mattina in corteo da una base militare presso Pretoria al palazzo della Presidenza e riportata indietro alla sera. La popolazione è invitata ad assieparsi ai lati della strada e così sicuramente accadrà. L' affluenza al grande stadio di Soweto martedì fa seriamente temere il rischio di un sovraffollamento assai difficile da gestire. Le autorità si vantano delle passate esperienze, manifestazioni colossali, vertici internazionali, eventi come i Mondiali di calcio, tutti andati a buon fine. Ma quello che sta per accadere non ha precedenti. Sarà, in tutti i sensi, una settimana di passione. Domani intanto giornata di raccoglimento e di preghiera in tutte le chiese del Sudafrica.

Bono: La povertà è colpa dell' uomo lui mi ha insegnato a combatterla

Superare la povertà non è un compito della beneficienza ma un atto di giustizia, Come l’apartheid, come la schiavitù, la povertà non è naturale, è creata dall’uomo e può essere superata dall’azione di esseri umani Silvia Bizio - La Repubblica NEW YORK - La coincidenza è quasi irreale: la morte di Nelson Mandela avviene proprio durante il lancio del film Mandela di Justin Chadwick.

Bono e U2 hanno scritto la colonna sonora del film, Ordinary Love canzone ispirata, ci racconta Bono a New York, alla storia d' amore fra Mandela e sua moglie Winnie. «Voglio dire subito la cosa più ovvia - esordisce - e cioè che siamo a disagio nel parlare di una canzone e di un film quando la ragione per cui sono nate quella canzone e quel film ci ha appena abbandonato». Accanto a lui, gli altri membri degli U2: «Però dobbiamo parlarne: vogliamo che un' altra generazione capisca chi è stato Nelson Mandela», conclude.      Come è iniziato il vostro rapporto?                                                                            «Eravamo adolescenti quando abbiamo fatto il nostro primo concerto anti-Apartheid a Dublino. C' è un ovvio legame fra noi e Mandela: noi irlandesi siamo particolarmente sensibili all' oppressione, la lotta rivoluzionaria fa parte del nostro Dna».                        Come avete pensato alla canzone per il film?                                                                    «Le prime idee che avevamo avuto erano di tipo politico: ma in realtà quello che ci ha colpito è stata la storia d' amore fra Nelson e Winnie. Il rapporto fra Mandela e la sua famiglia è stato centrale nelle decisioni che ha preso nella lotta contro l' Apartheid: così abbiamo voluto fare una canzone umana».                                                                       Avete avuto modo di parlare con Mandela del film?                                                          «No. L' ultima volta che l' ho visto è stato 18 mesi fa, siamo andati a trovarlo con i miei due figli e abbiamo passato dei momenti meravigliosi insieme. La profondità della sua mente e le sue idee erano nascoste dietro il suo senso dell' umorismo, ti prendeva sempre alla sprovvista. Tutto il mondo voleva vederlo e lui diceva: perchè venite a incontrare un vecchio rivoluzionario come me?».                                                                                                 Quale lezioni ha imparato da lui sul lavoro umanitario?                                                    «Non amo la parola beneficenza ma è importante usarla in questo caso. Una delle lezioni che ho imparato viene da un discorso nel 2005: disse che superare la povertà non è un compito della beneficenza ma un atto di giustizia. Come l' Apartheid, come la schiavitù, la povertà non è naturale, è creata dall' uomo e può essere superata dalle azioni di esseri umani».                                                                                                                           Ricorda la sua prima apparizione pubblica con Mandela?                                                    «È stato a un concerto a Barcellona: eravamo in uno stadio enorme, c' era posto per 20mila persone e l' evento aveva il ridicolo titolo Frock and rock, una combinazione di moda e musica per una raccolta fondi in favore della Fondazione Mandela. Alla fine però non si capiva se Mandela sarebbe venuto o meno, così tutte le altre band si erano ritirate: eravamo rimasti solo noia suonare. Il risultato è stato che non c' era nemmeno molto pubblico, forse 3000 persone: quando abbiamo capito che sarebbe venuto davvero eravamo terrorizzati che ci rimanesse male. Allora abbiamo aspettato un' ora, ma poi dovevamo davvero cominciare: qualcuno ha avuto l' idea di spegnere tutte le luci nello stadio per non far vedere che era mezzo vuoto, e io e Naomi siamo saliti sul palco con lui, sperando che non si accorgesse del vuoto. Lui ha guardato fisso davanti a sé e ha detto: "La cosa peggiore è avere aspettative alte, perchè sarai sempre deluso". Ero imbarazzatissimo, ma lui ha proseguito: "Sono venuto qui con alte aspettative e avete superato ogni mia aspettativa! Siete venuti in 3000 a vedermi, non merito tanta attenzione!". L' ho guardato e ho capito che non stava scherzando, era serio. È stata una lezione su come vedere il mondo».                                                                                                          La generazione dei nati liberi                              Basta parlare di Apartheid non abbiamo più paura dei bianchi I ragazzi che non hanno vissuto sotto l’apartheid sono oggi circa il 40% della popolazione del Sud Africa JOHANNESBURG - Seduta nel salotto della sua casa, alla periferia est di Johannesburg, a 45 minuti dalla città, Nokuthula Magubane, 18 anni, parla con affetto dell' afrikaans. Un atteggiamento che alle generazioni di sudafricani che l' hanno preceduta appare quasi inconcepibile. «L' afrikaans è una lingua bellissima e pacata», afferma. Durante l' apartheid l' adozione ufficiale dell' afrikaans nelle scuole fu una delle scintille che innestarono le rivolte studentesche di Soweto del 1976.: centinaia di ragazzi, molti più giovani di Magubane, furono uccisi. Moltissimi altri preferirono abbandonare gli studi anziché essere istruiti in quella che consideravano la lingua dell' oppressore. «In fin dei conti però- afferma oggi Magubane - è solo una lingua».

Chi è arrivato dopo la fine della segregazione non riesce nemmeno a capire fino in fondo.

Sentimenti analoghi sono comuni tra i membri della generazione di Magubane, noti come "nati liberi" perché venuti al mondo dopo la fine dell' Apartheid o subito prima, e troppo giovani per ricordarlo. Naturalmente questi ragazzi conoscono Nelson Mandela ma per loro è quasi impossibile immaginare come ci si potesse sentire nel vederlo emergere dalla prigionia nel 1990 e diventare presidente quattro anni più tardi. I nati liberi sono una percentuale enorme della popolazione: il 40%, stando ai dati ufficiali. I loro numerosi detrattori, più anziani di loro, li considerano apatici, apolitici e inconsapevoli della lotta che ha garantito loro un' esistenza migliore. Dal canto loro, questi ragazzi, detti anche "generazione Mandela", insistono nel dire che la loro determinazione a guardare al futuro e non al passato è il più grande tributo che si possa offrire all' ex presidente. «È vero: siamo stati oppressi dai bianchi. È vero: - dice Magubane - permetteteci però di perdonarci gli uni gli altri, andare oltre e contribuire pienamente al Sudafrica che vogliamo realizzare». Secondo Akhumzi Jezile, un produttore televisivo di 24 anni, i "nati liberi" sono considerati apatici perché non reagiscono con la stessa emozione, né partecipano con la stessa assiduità della generazione di Soweto alle marce della Giornata della gioventù e a ricorrenze analoghe. «Non si tratta di non capire l' Apartheid: il fatto è che noi ci troviamo di fronte delle sfide diverse», spiega. «Credo che la sensazione che i "nati liberi" siano ignoranti sia dovuta al fatto che le persone delle generazioni precedenti vedono che non reagiscono come loro. È normale: non c' eravamo. Ma lottiamo per ciò che ci sta a cuore». Come esempio, Jezile cita le campagne di sensibilizzazione volute dai giovani per combattere le piaghe della tossicodipendenza, della criminalità e dell' Hiv. «Le generazioni che ci hanno preceduto lottavano per obiettivi diversi», afferma. «Non possiamo parlare sempre e solo di Apartheid». Molti degli atteggiamenti dei "nati liberi" differiscono radicalmente da quelli degli anziani perché le loro esperienze sono drasticamente diverse. Stando al Barometro della Riconciliazione, che sonda ogni anno l' opinione pubblica, i giovani socializzano più facilmente con persone di altre razze, tendono a non avere molta fiducia nei leader politici e a non attribuire all' Apartheid la colpa della diseguaglianza economica e sociale del Sudafrica.

“Ci considerano apatici, invece siamo pronti a lottare per ciò che ci sta a cuore”

A dispetto dei moniti di Zwelinzima Vavi, segretario generale della potente Confederazione dei sindacati sudafricani, il quale sostiene che i giovani sono «una bomba pronta ad esplodere» - a causa dei tassi di disoccupazione e di povertà - i "nati liberi" rimangono, secondo il Barometro e altri sondaggi, decisamente ottimisti. Persino i giovani delle township più povere dimostrano un grande entusiasmo, anche se per molti di loro, da un punto di vista materiale, la vita non è molto cambiata dalla fine dell' Apartheid, mentre la disoccupazione è addirittura peggiorata. Così, mentre i più anziani lamentano il fatto che i "nati liberi" non tengono conto del passato, alcuni giovani accusano i loro genitori di volerli "imprigionare". «Quelli che presero parte alle lotte ci ricordano costantemente ciò che è accaduto. Ci fanno il lavaggio del cervello e instillano continuamente in noi la paura per quello che l' uomo bianco ha fatto, per tutto il dolore che è stato causato, per tutta la sofferenza che è stata inflitta alla loro generazione», ha scritto AkoLee, un blogger che 1994, quando Mandela fu eletto presidente, aveva sei anni. E così le incomprensioni fra generazioni rimangono. HHP, un noto cantante di hip-hop, le ha riassunte bene in una canzone intitolata Harambe: «Non sono un tipo politico, non so neanche immaginarmi come possa essere avere dieci poliziotti e i cani alla porta. Non conosco l' odore del gas, non posso neanche immaginare la sensazione di un proiettile di gomma nella schiera. Ma lo so che è grazie a voi che non parlo afrikaans oggi, che ho una possibilità: che mi sono emancipato» ( la Repubblica New York Times Traduzione di Marzia Porta)

I BAMBINI E LA SUA MAGIA

QUESTO è uno dei momenti più tristi della mia vita, come se giovedì scorso avessi saputo della morte di mio padre. Per tanti anni, e in tanti luoghi diversi, Madiba è stato un «compagnon de route» al quale potevo rivolgermi per farmi illuminare ad ogni svolta del mio cammino. Ogni volta che avevo un momento di crisi personaleo di angoscia, potevo ritirarmi per un attimo in me stesso, chiudere gli occhi e provare a pensare: Che cosa avrebbe detto, o pensato, o fatto Madiba adesso? E questo mi portava a vedere le cose in un modo nuovo, a sentire di essere in contatto con un profondo pozzo di saggezza e di capacità di capire, e mi metteva di nuovo in grado di andare avanti e di affrontare il mondo e le sue complessità. Per questo ricordarlo è, soprattutto, ricordare la sua capacità, profonda e sempre sorridente, di capire il mondo e gli esseri umani, con un senso di perdono e di compassione. Per questo i bambini sono rimasti sempre centrali nella sua visione del mondo: una sensibilità che è cresciuta nei tanti anni di prigione in cui rimase totalmente isolato dalla gioia, dalla magia e dalla saggezza dei bambini piccoli. Sapeva che una risata forniva la chiave ai più complessi rompicapi e problemi del mondo. C' è una storia sulla sua comprensione rispetto al nostro posto nella vita, un episodio di quando andò per il suo ultimo viaggio d' addio nei paesi del Nord, alcuni anni fa. Le sue giornate erano lunghe, cominciavano alle 4 o alle 5 del mattino e proseguivano finché non si faceva notte. C' erano non meno di tre o quattro segretarie che viaggiavano con lui, per star dietro al suo ritmo e alla sua incredibile gamma di interessi e di curiosità. Qualcuno che gli fu vicino in quel viaggio mi raccontò che, alla fine di una giornata, convocò le sue segretarie, e chiese loro: «E ora ditemi, per favore: che errori ho fatto durante la giornata? Dove ho sbagliato?». Dopo di che, ascoltava con interesse qualsiasi cosa avessero da dirgli. Dire che le trattava come delle bambine sarebbe un grande complimento: perché ogni volta che, durante i suoi viaggi, gli presentavano un bambino, lui si sedeva per terra e gli prendeva la manina in una delle sue mani grandi e generose e diceva a quel piccolo: «Per me è stato un grande onore conoscerti». E non era una frase falsa o un complimento, ma esprimeva esattamente ciò che quell' incontro aveva significato per lui. Ora la sua voce e la sua dolce risata tacciono. Ma chiunque le abbia sentite le ricorderà fin nelle più piccole inflessioni per tutti i giorni della sua vita. Perché Nelson Rolihlahla Mandela ci ha toccati tutti con la magia della sua presenza umana e il calore del fuoco e della fede che bruciavano in lui come una candela che non può essere spenta dal tempo o dalla distanza né dal gelido vento dei poli. (traduzione di Luis E. Moriones) Andrè Brink – La Repubblica

Obama al Memorial per Mandela:

"Ci ha insegnato il potere delle azioni, ma anche delle idee" Il testo integrale del discorso tenuto dal presidente Usa alla cerimonia commemorativa per l'eroe antiapartheid sudafricano(lapresse)

A Graça Machel e alla famiglia Mandela; al presidente Zuma e ai membri del governo; ai capi di Stato e di governo, passati e presenti; agli illustri ospiti voglio dire che è un grandissimo onore trovarmi qui con voi oggi a onorare una vita diversa da qualsiasi altra. Al popolo sudafricano - di ogni razza ed estrazione sociale - il mondo intero dice grazie per aver condiviso Nelson Mandela con noi tutti. La sua lotta è stata la vostra lotta. Il suo trionfo è stato il vostro trionfo. La vostra dignità e la vostra speranza si sono espresse al meglio nella sua vita, e la vostra libertà e la vostra democrazia sono l'apprezzata eredità che egli ha lasciato. È difficile fare l'elogio di qualsiasi uomo, racchiudere nelle parole non soltanto i fatti e le date che ne hanno segnato la vita, ma la verità fondamentale e intima di quella persona, le sue gioie profonde e i suoi dolori; i momenti di pace e le qualità che ne hanno illuminato l'anima. Quanto maggiormente è difficile farlo nel caso di un gigante della storia, che ha messo una nazione intera in marcia verso la giustizia e così facendo ha messo in marcia miliardi di persone in tutto il mondo! Nato durante la Prima guerra mondiale, molto lontano dai corridoi del potere, dopo un'infanzia trascorsa a fare il pastore di bestiame e a imparare dagli anziani della sua tribù Thembu, Madiba sarebbe emerso come l'ultimo grande liberatore del XX secolo. Come Gandhi, egli avrebbe guidato un movimento di resistenza, un movimento che agli esordi aveva ben poche prospettive di successo. Come King, egli avrebbe dato voce forte e potente alle richieste degli oppressi e alla necessità morale di giustizia razziale. Avrebbe affrontato una prigionia disumana, iniziata all'epoca di Kennedy e Krusciov e conclusasi nel periodo finale della Guerra Fredda. Uscendo dalla prigione, senza la forza delle armi, al pari di Lincoln avrebbe unificato il paese proprio mentre esso rischiava di lacerarsi. Come i padri fondatori dell'America, egli avrebbe dato vita a un ordine costituzionale per difendere la libertà a vantaggio delle generazioni successive, assumendosi un impegno nei confronti della democrazia e della legalità ratificato in seguito non soltanto dalla sua elezione, ma dalla sua volontà di abbandonare il suo mandato. Tenuto conto della sua incredibile vita e dell'adorazione che si è guadagnato così meritatamente, si sarebbe tentati di ricordare Nelson Mandela come un'icona, sorridente e serena, distaccata dalle occupazioni ordinarie di uomini comuni. Ma Madiba stesso si è sempre opposto strenuamente a questo ritratto senza vita. Al contrario, egli ha sempre insistito per condividere con noi i suoi dubbi e i suoi timori; i suoi errori di valutazione insieme alle sue vittorie. "Non sono un santo" diceva, "a meno che non si pensi che un santo è un peccatore che continua a mettersi alla prova". È proprio perché egli riusciva ad ammettere di non essere perfetto - e perché sapeva essere così pieno di buon'umore, addirittura di furbizia, malgrado il pesante fardello che trasportava - che noi lo abbiamo amato. Non era un busto di marmo. Era un uomo fatto di carne e di sangue, un figlio e un marito, un padre e un amico. Ecco perché abbiamo appreso così tante cose da lui. Ecco perché possiamo apprenderne ancora molte altre da lui. Perché niente di ciò che egli è riuscito a raggiungere era scontato. Nell'arco della sua vita abbiamo visto un uomo guadagnarsi un posto nella storia lottando, con avvedutezza, persistenza e fede. Egli ci dice che cosa è possibile non soltanto nelle pagine di polverosi libri di storia, ma anche nelle nostre stesse vite. Mandela ci ha dimostrato tutto il potere dell'azione, dell'assumersi dei rischi nell'interesse degli ideali. Forse Madiba aveva ragione quando diceva di aver ereditato da suo padre un fiero spirito di ribellione e un tenace senso di giustizia. Di sicuro, egli ha condiviso con milioni di neri e di sudafricani di colore tutta la rabbia scaturita da migliaia di offese, migliaia di umiliazioni, migliaia di momenti da non ricordare, e il desiderio di lottare contro il sistema che imprigionava il mio popolo. Ma al pari di altri giganti facenti parte da subito dell'Anc - Sisulu e Tambo - Madiba ha saputo tenere a freno e domare la sua rabbia. Ha incanalato il suo desiderio di combattere in un'organizzazione, in piattaforme e strategie operative, così che gli uomini e le donne potessero prendere le difese della loro stessa dignità. Oltre a ciò egli ha accettato le conseguenze delle proprie azioni, sapendo che tenere testa agli interessi dei potenti e alle ingiustizie comporta un prezzo da pagare. "Io ho combattuto contro il dominio dei bianchi e ho combattuto contro il dominio dei neri", disse durante il suo processo del 1964. "Ho accarezzato e nutrito l'ideale di una società libera e democratica, nella quale tutti possano vivere in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di vivere e che spero di raggiungere. Ma se ce ne sarà bisogno, questo è un ideale per il quale sono disposto a dare la mia vita". Mandela ci ha insegnato il potere dell'azione, ma anche delle idee; l'importanza della ragione e delle giuste argomentazioni; la necessità di studiare non soltanto coloro con i quali vai d'accordo, ma anche coloro con i quali non vai d'accordo. Mandela ha capito che le idee non possono essere imprigionate tra le mura di un carcere, né messe a tacere dalla pallottola di un cecchino. Egli ha trasformato il suo processo nella denuncia dell'apartheid grazie alla sua eloquenza e alla sua passione, ma anche grazie ai suoi studi e alla sua formazione di avvocato. Ha trascorso i decenni passati in prigione a rendere più affilati i suoi ragionamenti, ma anche a diffondere la sua sete di sapere agli altri del movimento. E ha appreso la lingua e le usanze dei suoi oppressori, così da poter riuscire meglio un giorno a comunicare loro in che modo la loro libertà dipendesse dalla sua. Mandela ha dimostrato che l'azione e le idee non bastano. A prescindere da quanto siano giuste, devono essere incise all'interno di leggi e istituzioni. Era un uomo pratico, che metteva alla prova i suoi principi rispetto alla dura apparenza delle circostanze e della storia. Era intransigente per ciò che concerne i principi di fondo, ed è per questo che ha potuto respingere seccamente le offerte di libertà condizionata, ricordando al regime dell'apartheid che i prigionieri non possono stipulare contratti. Ma come ha dimostrato in scrupolosi negoziati per trasferire il potere e redigere nuove leggi, non aveva paura di scendere a compromessi per il bene di un obiettivo superiore. E poiché non è stato soltanto un leader di un movimento, ma un abile politico, questa democrazia multirazziale si meritava la Costituzione che è stata messa a punto; fedele alla sua visione delle leggi che proteggono i diritti delle minoranze come pure quelli della maggioranza, e la preziosa libertà di ogni sudafricano. Infine, Mandela ha compreso lo spirito umano e come esso sia legato a quello di tutti. C'è una parola in Sudafrica, Ubuntu, che descrive e condensa questo suo immenso dono: egli ha saputo vedere che siamo tutti legati gli uni agli altri in modi invisibili e che sfuggono allo sguardo; che esiste unione nel genere umano; che possiamo conseguire il nostro pieno successo condividendolo con gli altri e prendendoci cura di chi abbiamo attorno. Non possiamo sapere quanto di ciò fosse già innato in lui, o quanto si sia plasmato e forgiato nella sua buia cella solitaria. Ma ne ricordiamo i gesti, piccoli e grandi, come presentare i suoi carcerieri come ospiti d'onore alla sua cerimonia di insediamento come presidente; scendere in campo indossando l'uniforme degli Springbok; aver trasformato una tragedia della sua famiglia nell'invito a lottare contro l'Hiv/Aids. Questi suoi gesti piccoli e grandi hanno svelato tutta la sua profonda empatia e comprensione. Egli non soltanto ha incarnato l'Ubuntu, il senso di umanità. Ha insegnato a milioni di persone a trovare dentro di sé quella stessa verità. C'è stato bisogno di un uomo come Madiba per liberare non soltanto il carcerato, ma anche il carceriere; per dimostrare che ci si deve fidare degli altri così che gli altri si fidino di te; per insegnare che riconciliarsi non significa ignorare un passato crudele, ma che riconciliarsi è un mezzo per opporre a quel crudele passato l'inclusione, la generosità e la verità. Ha cambiato le leggi, ma anche i cuori. Per il popolo sudafricano, per coloro che egli ha ispirato in tutto il pianeta, il trapasso di Madiba è giustamente motivo di lutto, e occasione per celebrarne la vita eroica, ma io credo che la sua morte debba anche invogliare ciascuno di noi a un'autoriflessione. Con onestà, e indipendentemente dalla nostra posizione o dalle circostanze della nostra vita, dobbiamo chiederci: quanto bene ho applicato queste lezioni nella mia stessa vita? Questa è una domanda che io rivolgo a me stesso, come uomo e come presidente. Sappiamo che come il Sudafrica anche gli Stati Uniti hanno dovuto superare secoli di oppressione razziale. Come è stato vero qui, ci sono voluti i sacrifici di un numero incalcolabile di persone, note e ignote, per vedere l'alba di un giorno nuovo. Michelle e io abbiamo beneficiato di quella lotta. Ma in America e in Sudafrica, e in molti paesi di tutto il pianeta, non possiamo permettere che il progresso oscuri il fatto che il nostro compito non può dirsi concluso. Le lotte che puntano alla vittoria dell'eguaglianza e al suffragio universale possono non essere caratterizzate da quella stessa drammaticità e limpidezza morale di quelle combattute in precedenza, ma non per questo sono meno importanti. Perché ancora oggi in tutto il mondo vediamo bambini patire la fame e soffrire per le malattie, vediamo scuole fatiscenti e scarse prospettive per il futuro. Ancora oggi in tutto il mondo uomini e donne sono messi in prigione per le loro idee politiche e sono perseguitati per il loro aspetto fisico, per la loro pratica devozionale, per la persona che amano. Anche noi dobbiamo agire per il bene della giustizia. Anche noi dobbiamo agire perché la pace prevalga. Troppi di noi sono pronti ad abbracciare con gioia l'eredità di Madiba della riconciliazione razziale ma oppongono una strenua resistenza a riforme anche modeste che potrebbero porre fine alla povertà cronica e alle crescenti ineguaglianze. Ci sono troppi leader che si dichiarano solidali con la lotta di Madiba per la libertà, ma che non tollerano il dissenso dei loro stessi popoli. E ci sono troppi di noi che ancora restano in disparte, comodamente compiacenti o cinici quando dovrebbero far ascoltare la loro voce. Non esistono facili soluzioni per i problemi con i quali siamo alle prese oggi: come promuovere l'eguaglianza e la giustizia, come affermare la libertà e i diritti umani; come porre fine ai conflitti e alle guerre settarie. Ma neppure per quel bambino di Qunu c'erano facili risposte. Nelson Mandela ci rammenta che ogni cosa può sembrare impossibile finché non la si realizza. Il Sudafrica ci dimostra che questa è la verità. Il Sudafrica ci mostra che possiamo cambiare. Noi possiamo scegliere di vivere in un mondo non definito dalle nostre differenze, ma dalle nostre comuni speranze. Possiamo scegliere un mondo definito non dal conflitto, ma dalla pace, dalla giustizia, dalle pari opportunità. Non vedremo mai altri Nelson Mandela. Ma permettetemi di dire ai giovani africani e ai giovani di tutto il mondo che voi potete fare vostre le lotte e le conquiste della sua vita. Oltre trenta anni fa, quando ero ancora uno studente, appresi chi era Madiba e quali fossero i conflitti della sua terra. Conoscerlo scosse qualcosa dentro di me, nel profondo. Mi risvegliò e mi mise in grado di far fronte alle mie responsabilità nei confronti degli altri e di me stesso, e mi avviò lungo la strada che mi avrebbe portato dove mi trovo oggi. Se da un lato so che non riuscirò a eguagliare l'esempio di Madiba, dall'altro so che egli vuole che io voglia migliorare. Egli fa appello a ciò che di meglio c'è dentro di noi. Quando questo grande liberatore sarà sepolto per riposare in pace; quando saremo ritornati nelle nostre città e nei nostri villaggi e avremo ripreso le nostre routine quotidiane, proviamo a cercare dentro di noi, nel profondo di noi stessi, la sua grande forza, la sua grandezza d'animo. E quando la notte si farà scura, quando l'ingiustizia renderà pesante i nostri cuori, o quando i nostri piani ben delineati ci sembreranno irraggiungibili, pensiamo a Madiba, pensiamo alle parole che nelle quattro mura della sua cella gli arrecarono tanto conforto: "Non importa quanto stretto sia il passaggio, quanto piena di castighi la vita: io sono il padrone del mio destino; io sono il capitano della mia anima". Che grande anima è stata. Ci mancherà moltissimo. Che Dio benedica Nelson Mandela e il popolo sudafricano. (Traduzione di Anna Bissanti)

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