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6 gennaio 2017 5 06 /01 /gennaio /2017 22:04

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Zandomeneghi e Parigi
A Roma, al Chiostro del Bramante, una mostra celebra Federico Zandomeneghi, il veneziano macchiaiolo che divenne impressionista e conquistò Degas, Renoir e Toulouse-Lautrec

Roma - Gli italiani riscoprono gli italiani. Nell'euforia modaiola di mostre che giocano, nel bene e nel male, con l'amabilità dei grandi maestri impressionisti, si rincorrono incredibilmente da un paio d'anni a questa parte omaggi sempre più acuti e brillanti agli italiens de Paris. Boldini, De Nittis, Zandomeneghi, la triade di pittori che, dopo aver metabolizzato la lezione macchiaiola, negli anni Settanta dell'Ottocento lasciarono la patria per intraprendere l'avventura parigina, sposando il credo impressionista. Con esiti diversi, certo. Plauso immediato per il pugliese Giuseppe De Nittis e il ferrarese Giovanni Boldini, a scoppio ritardato per il veneziano Federico Zandomeneghi. Causa, forse, quel caratteraccio burbero e introverso, restio alla trasfigurante mondanità bohemièn che guardava a distanza e filtrava attraverso la sua tela. Eppure Zandò, come lo chiamavano gli amici di Montmartre, o il "vénitien", come si divertiva ad apostrofarlo Degas quando cominciò a vederlo frequentare la sua cerchia, fu il più impressionista dei tre.

A differenza di De Nittis, che non interruppe mai i rapporti con l'Italia, Zandomeneghi restò invece esclusivamente legato all'ambiente parigino, e non a caso partecipò dal 1879 a tutte le mostre impressioniste, tanto che dei tre "italiani di Parigi" è quello che ebbe legami più duraturi e profondi con l'ambiente impressionista e post-impressionista. Proprio lui sembra l'oggetto di una lenta e graduale rivalutazione con ben tre mostre nel giro di pochi mesi. Prima, Milano, alla Fondazione Mazzotta, poi Castiglioncello, in provincia di Livorno, a Castello Pasquini, ed ora Roma, dove il Chiostro del Bramante accoglie fino al 5 marzo una retrospettiva antologica che vuole ancora di più presentare l'artista italiano come una voce singolare della nouvelle peinture, sia pure temperata dai richiami alle proprie radici nella scuola veneta e toscana. E quindi indagare quella sua trasfigurazione artistica attraverso la quotidianità dell'ambiente parigino, di quel "ventre di Parigi" in cui s'è lasciato divorare dal 1874 ininterrottamente fino alla morte nel 1917.


Il percorso espositivo, curato da Renato Miracco e Tulliola Sparagli, punta su un centinaio di opere, tra dipinti e pastelli, accompagnati da una trentina di disegni. Accanto, con un gioco di rimandi, opere di artisti francesi, come i dipinti di Monet, Renoir, Sisley, Pissarro, i pastelli di Degas, grafiche di Toulouse-Lautrec, per focalizzare una ideale trama di riferimenti e suggestioni tra Zandomeneghi e i suoi amici impressionisti. La mostra, infatti, non avanza per criteri cronologici, ma si costruisce per temi che riprendono i soggetti preferiti dall'artista e dai suoi amici impressionisti. E così, ecco che sfila il mondo di Zandò, con le strade di Parigi, i caffè e i teatri, le intimità femminili da toilettes, le signore in conversazione, i bambini che giocano, scorci di nature morte prese in prestito da interni borghesi.

Prologo doveroso, la "macchia". Parigi, dunque, ma senza scordare Firenze. Dopo Venezia, dove nacque nel 1841, figlio e nipote di accademici, e dove frequentò dal '57 al '60 l'Accademia di Belle Arti tra il genio colorista di Tiziano e quello algido di Canova, la scelta di partire per Firenze, certo motivata da questioni politiche - come altri artisti della sua generazione, partecipa a una spedizione garibaldina - che però gli rivelano le esperienze pittoriche nuove della macchiaioli. Il chiaroscuro marcato e netto della scuola fiorentina, sono evidenti in opere come Preparativi (1873, Istituto Matteucci Viareggio). Ed eccola esplodere la sua Parigi, forte di colorismo luministico alla veneziana e tonale alla macchiaiola, forte di spirito risorgimentale e di rinnovamento, forte dell'idea di una realtà da cogliere in presa diretta e di una sincerità spassionata. Non è la Parigi elegante, mondana e internazionale celebrata da De Nittis e Boldini, ma quella racchiusa nel quartiere bohèmien per eccellenza, Montmartre, dove l'artista viveva a fianco di Toulouse-Lautrec e della artista e modella Suzanne Valadon. La raccontano dipinti come Il Moulin de la Galette (Fondazione Enrico Piceni, Milano), capace di evidenziare il cambiamento di stile in atto di Zandò, o almeno la tensione a farlo: l'ambizione all'ampio formato, la volontà di ritrarre una "tranche de vie" rappresentativa dei costumi come un vero "quadro di storia" contemporaneo, come aveva già fatto Renoir.

Ma, soprattutto, richiama all'attenzione l'influenza del grande Edgar Degas, personalità chiave che catalizza la svolta stilistica di Zandomeneghi. E ancora, Place d'Anvers (Galleria Ricci Oddi Piacenza) o ancora Casetta a Montmartre (Galleria Nazionale d'Arte Moderna Roma) che non ricreano solo il suo palcoscenico quotidiano ma testimoniano anche il graduale avvicinamento alla poetica impressionista della pittura en-plein-air. Proprio di Degas è l'uso speculativo e sistematico del pastello, un impasto cromatico asciutto, un disegno continuo e sintetico, lo sguardo disincantato verso il costume sociale della città moderna, senza giudizio né indulgenza narrativa, affidando il racconto di contenuti scabrosi alla sottile ambiguità dei valori formali. Brilla, poi, il trionfo della femminilità con la parata spettacolare delle descrizioni delle toilettes, degli elaborati cappelli, dei gesti tipici della moda, come l'indossare i guanti, o muovere il ventaglio. Dettagli di intramontabile seduzione e civetteria che occupano in Zandò un posto di rilievo nella sua produzione. Lo testimoniano le sue opere più celebri, "Serata di gala" (collezione privata) o "Il thé" (Collezione Sacerdoti, Milano). D'altronde, per molti anni Zandomeneghi fu attivo come disegnatore di figurini per le riviste di moda parigine, impiego che era il suo sostentamento.

Spicca, poi, l'amore per il disegno, e il pastello, che si esprime essenzialmente nelle scene di nudo, per lo più ambientate in interno, che colgono giovani donne nei gesti quotidiani del risveglio e della toeletta. Valori che lo avvicinano idealmente a Degar e a Renoir. Una vicinanza lampante che viene espressa da una creazione esemplare come "La tinozza" (collezione Sacerdoti Milano) che rimanda spudoratamente anche a Toulouse-Lautrec, per il modus corsivo e graffiante con cui è delineata la figura accovacciata. Fino al trionfo vitalistico dei fiori, accanto all'accento povero delle nature morte con pesci, due poli entro cui Zandò costruì le sue nature morte degli ultimi anni, in una tendenza stilistica che rincorreva i virtuosismi cromatici di Renoir, il cui gusto cromatico l'artista veneziano ammirava incondizionatamente. "Che lusso, che aristocrazia, che sfarzo di gemme semine nelle tele! Com'è delicato, com'è femminile, insomma com'è artista" scrisse nel 1883 all'amico e critico Diego Martelli. L'arte di Zandò appare raffinata ed elegante, le audaci volgarità cedono il posto alle pose aggraziate e composte, i soggetti si equilibrano all'insegna della femminilità sobria e vezzosa e dell'adolescenza pura e incontaminata, i colori si infuocano e le intimità si rilassano avvolte da sentimenti più lirici che carnali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Zandomeneghi  a Milano

Tenera era la notte nella Parigi di fine Ottocento. La Parigi di Pigalle e della bohème, che si riuniva sotto la veranda della Nouvelle Athènes, caffè alla moda, crocevia di artisti impressionisti, da Manet a Degas, impegnati a scegliere i propri modelli fra i tavolini e i separé. La Parigi di Zola e di Huysmans era un arcipelago di donne in abiti di mussola e uomini dalla tuba nera, una folla che fluiva (o "rotolava" come avrebbe detto, più tardi, Sartre) nei boulevard.

Un chiacchierio si sollevava dai palchi dell'Opera Garnier o dagli spalti dell'ippodromo al Bois de Boulogne.

Questa Parigi mondana, ma allo stesso tempo intima, sospesa, cristallizzata dietro le quinte di un tabarin, fa da sfondo alla pittura di Federico Zandomeneghi (1841-1917), ai suoi salotti borghesi dove giovani donne imparavano a suonare il pianoforte, mentre altre si spazzolavano le lunghe chiome rosse. Tutte immagini che nutrono l'itinerario sentimentale della mostra L'impressionismo di Zandomeneghi allestita al Palazzo Zabarella di Padova (fino al 29 gennaio, catalogo Marsilio). Curata da Francesca Dini e Fernando Mazzocca, ideata come un omaggio al maestro per i cento anni dalla scomparsa, spinge il visitatore a immergersi nel passato mitico della "ville lumière" con una riflessione velata di nostalgia. Per quel piccolo mondo antico, luminoso e languido. Ma anche per un artista che il destino ha un po' ferito, abbandonandolo ai margini di Montmartre, nel suo studio umido di rue Tourlaque, in cui ha dipinto per anni i retroscena di una società effimera, ma senza cavalcare l'onda del ritratto blasonato o della femmina fatale che si scioglieva sui divani del collega Giovanni Boldini, il pittore delle star, delle dive divine, il cantore della Belle Époque.

Zandomeneghi aveva preferito il volto innocente delle fanciulle sconosciute, figlie e amanti nascoste nell'ombra di un giornata quotidiana, adolescenti dalle pelli eburnee alla toilette, cuoche e fioraie schizzate di getto, col pastello grasso e il segno sorgivo.

Il percorso, che parte dal retaggio della sua famiglia, una bottega di scultori neoclassici, di scuola canoviana, attivi nella Venezia di primo Ottocento, dipana per tappe la sua storia complicata. Figlio d'arte, rinnegò la scultura preferendo il colore, con un certo rammarico di papà Pietro che sognava di lasciare a lui le redini di un laboratorio baciato dalla fortuna mediatica di Canova. Ma Federico, animato anche da passioni patriottiche, abbandonò la laguna per seguire Garibaldi nella spedizione dei Mille in Sicilia, arruolandosi poi, nel 1886, per la terza guerra d'indipendenza conclusa con la liberazione di Venezia. L'amore per la pittura lo coltivò spostandosi inquieto fra l'Accademia di Brera a Milano e la Firenze dei macchiaioli, misurandosi coi dettami del nascente naturalismo, mescolato alle suggestioni romantiche di Hayez. Ancora troppo frastornato dai viaggi e dalle novità, non riusciva a crearsi uno stile personale. Finché, nel 1874, tutto cambiò all'improvviso.

Il salto di stile e di coscienza, in mostra, è quasi fulmineo. La decisione di partire per Parigi lo catapultò nel cuore della modernità, giusto in coincidenza con la prima e leggendaria mostra degli impressionisti, presentata nello studio del fotografo Nadar, in boulevard des Capucines. Fu un colpo al cuore. Davanti a lui si ergeva il futuro dell'arte. E i suoi nocchieri si chiamavano Monet, Berthe Morisot, Sisley, Renoir, Degas e Pissarro, di cui diventò subito amico, e persino Giuseppe de Nittis, il maestro di Barletta che aveva già conquistato Londra prima di approdare in Francia, molto più abile del compatriota veneziano nel cocco- lare una middle class desiderosa di conferme e di ritratti galanti, status symbol di una classe emergente.

Zandò, come lo battezzarono i compagni parigini, "il vénitien" come lo chiamava affettuosamente Degas, cercò di farsi strada piegando il linguaggio dell'impressione a un realismo sociale di matrice italiana. Più aderente ai moti della natura, più attento ai tormenti dell'umanità.

Un commentatore del tempo, difendendo il suo ritratto di uno spazzino dalle critiche di un pubblico perbenista, scrisse: «è una pagina melanconica di quella storia misteriosa che si chiama miseria». Pur non affondando mai nel racconto amaro di una esistenza meschina, Zandomeneghi fece delle sue donne lo specchio di una femminilità tenera ma emancipata, lontana dalle dark lady voraci di Boldini, ma anche dai nudi nel sole di Renoir. Donne fragili che leggono il giornale, invece di agitare il ventaglio. Che seducono senza trucchi e senza guêpière. Donne di fiori, forse troppo modeste per un mercato che voleva essere ammaliato, che respirava esotismo ed erotismo, tentazione e sfinimento, sentimenti forti all'alba del Novecento. Nulla di buono per Zandò che se ne rese conto, ma non volle per questo lasciare Parigi. Per lui, quella città magica restava un magnete, una necessità, una droga, una condanna. Schiaffeggiato dai giornali («è la miseria intellettuale e sentimentale di quel preteso realismo che volendo ricondurre la vita nell'arte la confinava nelle scene delle toelette»), si ritirò nel silenzio. A Venezia, lo attesero a lungo per una mostra che ne festeggiasse il ritorno; ultimo atto di una rivincita mai ottenuta. Fu trovato morto ai piedi del suo letto; i suoi quadri messi all'asta, il suo nome restituito alle pagine della storia dell'arte solo a metà del secolo breve.

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