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6 febbraio 2017 1 06 /02 /febbraio /2017 21:42

                                                                                                                                      Euribor: sta ad indicare il tasso di interesse che le banche praticano tra di loro in caso si prestiti reciproci.

Rapporto deficit/PIL  il deficit indica il saldo negativo tra le entrate e le spese del bilancio nazionale, mentre il PIL definisce la ricchezza prodotta nell’anno. In base al trattato di Maastricht, il rapporto tra le due grandezze non può superare il 3%, ma gli stati partecipanti si sono impegnati ad azzerarlo progressivamente, affinché il saldo  attivo  possa intaccare il debito pubblico. Il rapporto con il PIL è l’altro parametro sul quale si misura il benessere di una economia, poiché un buon incremento della ricchezza prodotta riduce il disvalore del deficit.

Debito pubblico: E’ la somma dei vari deficit accumulatisi negli anni. Attualmente quello Italiano ammonta a 2.200 miliardi di euro pari a circa il 112% del PIL. Esso cioè supera la ricchezza prodotta in un anno all’economia italiana, ed è il più pesante tra quelli dei paesi partecipanti all’euro.

Avanzo primario:  è il saldo attivo di un esercizio finanziario al netto del “servizio del debito”, cioè del pagamento degli interessi sui titoli emessi per finanziare il debito pubblico.Proprietari sono le banche, gli enti finanziari. I controllori sono legati dai controllati  e si fanno

 Agenzie di rating Enti privati  gestiti da enti finanziari, che formalmente sono come il modello delle autority, ma sostanzialmente  si fanno pagare lautamente per l’attribuzione delle A agli enti che emettono le obbligazioni e che si rivolgono a loro per avere questa attribuzione. Hanno il compito quindi di certificare il grado  di solvibilità di uno stato, di un comune, di una banca o di un’azienda che si rivolgono a loro quando questi emettono obbligazioni (o titoli simili). Gli investitori dovrebbero essere in grado di valutare il rischio di investimento.  A dettare legge in materia di rating sono le tre agenzie più famose, che da sole detengono il 95% della quota di mercato mondiale dei giudizi (i quali vengono pagati profumatamente dalle società e dagli stati che emettono titoli obbligazionari). Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch non sono però istituzioni neutrali: alla loro guida si trovano uomini e realtà che – come vedremo in dettaglio nei prossimi capitoli – hanno particolari interessi e che sono particolarmente sensibili all’andamento di mercato e alle relative quotazioni di titoli azionari e obbligazionari.     Anticipando brevemente, Standard & Poor’s è la sussidiaria della multinazionale editoriale McGraw-Hill, che ha sede a New York e che pubblica, tra le innumerevoli testate, anche «Business Week». Negli ultimi anni ha fatturato mediamente in ogni corso fiscale oltre 6 miliardi di dollari, con utili superiori agli 800 milioni di dollari. Nel suo board, Standard & Poor’s ha vantato personaggi del calibro di Sir Winfried Bishoff (presidente di Citigroup Europa), Douglas N. Daft (presidente della Coca Cola) e Sidney Taurel (presidente della farmaceutica Eli Lilly).

Moody’s – che detiene il 39% del mercato del rating mentre Standard & Poor’s ne controlla il 40% e Fitch il 15% – è di fatto una realtà posta sotto il controllo di uno dei più grandi speculatori di tutti i tempi: Warren Buffet. Nelle sue mani è incastonato almeno il 40% delle quote societarie dell’agenzia. Il 20% è controllato direttamente, mentre un altro 20% è nelle mani del suo fondo di investimento Hataway Pacific. Così, mentre con una mano il Signor Buffet elabora analisi e giudizi, con l’altra investe. Strana situazione.

La terza agenzia è Fitch, che ha sede a New York ma che è una sussidiaria della società di servizi finanziari Fimalac, la cui sede legale è invece a Parigi. Nel 2005 la società statunitense Hearst Corporation, attiva nel settore delle telecomunicazioni, ha rilevato il 20% del pacchetto azionario della società, a cui è poi seguita un’ulteriore parziale acquisizione. In tal modo Fitch risulta anch’essa una realtà dove il controllo è saldamente detenuto da mani che hanno precisi interessi in settori vitali dell’economia, quali le comunicazioni, la sicurezza, le attività produttive e, soprattutto, quelle finanziarie.

Chi controlla i controllori? C’è qualcuno che si è mai preso la briga di mettere setto la lente di ingrandimento le attività delle agenzie di rating? La risposta è negativa, almeno per quanto riguarda i meccanismi interni della fase istruttoria e di quella reportistica. Sulla parte interna non esiste di fatto alcuna possibilità di verifica: la Trimurti custodisce gelosamente i propri alambicchi e i propri utensili e nei suoi laboratori di ricerca non può entrare nessuna autorità esterna e nessun visitatore può varcare la soglia d’ingresso.

Ma c’è qualcuno che ha provato a verificare «sul campo» l’esattezza e l’efficacia delle famose pagelle. In Italia questa supervisione è stata compiuta a più riprese dall’Adusbef, una tra le più accreditate associazioni di consumatori, specializzate sui temi dell’economia e della finanza. Una prima stima è stata pubblicata nel 2006 e da allora, con cadenza annuale, il ventaglio delle osservazioni è stato progressivamente ampliato. Alla fine del 2010 il monitoraggio dell’Adusbef aveva superato abbondantemente i mille report. Nel corso degli anni, cioè, sono stati presi in considerazione oltre mille giudizi, che per gli operatori dei mercati finanziari si possono tradurre in consigli per gli acquisti o per le vendite. Secondo le considerazioni dell’Adusbef «i rapporti delle agenzie di rating sono risultati sbagliati al 91% e la loro efficacia risulta pari al 9%». Chi avesse utilizzato il testa croce per una previsione avrebbe avuto una probabilità del 50% di realizzazione.

“I signori del rating”. In rete l’ebook che racconta “le agenzie più temute della finanza”  Redazione Il Fatto Quotidiano | 15 febbraio 2012  Esce domani in edizione ebook  bollati boringhieri  I Signori del Rating, Conflitti di interesse e relazioni pericolose delle tre agenzie più temute dalla finanza globale, di Paolo Gila e Mario Miscali

Bolla: immagine  usata per descrivere i fenomeni di crescita artificiosa ed eccessiva del valore attribuito a un bene (la speculazione). La sopravvalutazione del bene (la casa, l’azione, il petrolio) produce un aumento smodato della domanda, e quindi del prezzo, sino a che lo scarto tra il valore reale ed il valore convenzionale che si è affermato sul mercato produce l’esplosione e il prezzo scende di colpo. I giornali, i mezzi di comunicazione, i telegiornali  annunciano con voce compunta ”bruciati” in borsa centinaia di milioni di euro. La realtà viene mistificata, alcuni giorni dopo parlano di “rimbalzo tecnico”. In realtà c’è stato un trasferimento di ricchezza verso qualcuno. Qualcuno ha comprato a 700 ciò che ha venduto a 1000 e con il rimbalzo tecnico ha venduto a 900 ciò che ha comprato a 700. Dov’ è finita la ricchezza? C’è stato quindi un travaso, con mezzi truffaldini, di risorse da investitori e risparmiatori a soggetti che operano nel mondo della finanza: intermediari, brokers, advisors, informatori finanziari, dirigenti e managers, consulenti a vario titolo, responsabili di agenzie di assicurazioni, ecc…ecc… Nulla si è distrutto, parecchio  si è sprecato, molto si è trasferito. La domanda che viene dopo: chi é il creditore?  Il creditore è il futuro, le giovani generazioni, i nostri figli. Futuro che abbiamo risucchiato.    

Della vicenda della crisi dobbiamo essere consapevoli che non si è trattato solo di errori, di eccessi, di sprovvedutezza,  di incompetenza, di furbi o ladri: è andato in crisi un modello di organizzazione sociale. E’ difficile cogliere le implicazioni culturali politiche di una tale affermazione persino da chi ne è convinto, figurarsi per chi ne è ostile. Si tratta del fallimento di un paradigma, di un modo di pensare comune di una certa epoca che era e che viene condiviso da molte persone. Galbraith afferma: la storia dell’economia o meglio la storia tout-court è più importante delle teorie economiche, essendo la sua conoscenza preliminare alla valutazione critica di queste ultime. La storia dell’economia non può ridursi alla storia delle dottrine economiche essa deve intrecciare l’analisi di tali dottrine con le situazioni storiche, sociali e culturali che le hanno prodotte — talora per giustificarle, tal’altra per riformarle o cambiarle. E’ la dialettica tra realtà sociale e dottrine economiche il cuore della storia dell’economia .

Senza dimenticare che l’anno scorso il giorno dell’impronta ecologica (il giorno dell’anno nel quale le economie hanno esaurito le risorse non riproducibili nella loro ciclo di produzione della ricchezza – nel blog "siamo uomini non struzzi")  è stato il 22 agosto e ogni anno che passa, tale termine si accorcia di quasi un mese: vogliamo lasciare nelle pesti le generazione dei nostri figli  e quelle future ?

 Possiamo dire che nella storia economica c’è sempre stato questo elemento altalenante: la finanza, lasciata libera dalla politica, che determina l’economia prima della crisi del ‘29; con la crisi del ’29 si è venuta a determinare  il comando della politica sulla finanza e quindi l’indirizzo in politica economica che è continuata fino agli anni del cambiamento di Regan e della Tacher e adesso con lo scoppiare della nuova crisi determinata dal predominio della finanza, in situazioni storiche economiche diverse, si pone oggi la questione del primato della politica e dell’indirizzo dell’autorità pubblica nell’economia e nella società. Vedi in particolare il libro di Krugman “ La coscienza di un liberal”.  Si riporta un paragrafo del suo libro dove risulta una cosa per noi difficile da concepire:

Negli anni Venti le tasse rappresentavano un fattore insignificante per i ricchi. L’aliquota massima dell’imposta sul reddito era appena il 24% e, poiché l’imposta di successione anche per le proprietà di enormi dimensioni era soltanto del 20%, le ricche dinastie non avevano difficoltà  a conservare i loro patrimoni. Con l’introduzione del New Deal, con Roosvelt, invece i ricchi cominciarono  a versare imposte non solo estremamente più alte di quelle degli anni ’20, ma alte anche secondo i parametri odierni. L’aliquota massima dell’imposta sul reddito salì al 63% durante la prima amministrazione Roosvelt e, al 79% durante la seconda. Nella metà degli anni ’50, quando gli USA dovettero sostenere le spese della guerra fredda, sotto Eisenhauer aveva raggiunto il 91% . L’imposta federale sul reddito delle società aumentò a meno del 14% nel 29 a oltre il 45% nel 1954. Nello stesso tempo l’aliquota massima dell’imposta di successione salì dal 20%, al 45% , poi al 60, 70 e da ultimo al 77%. Almeno in parte ne conseguì una minore concentrazione della ricchezza: nel 1929 lo 0,1% più ricco degli americani possedeva oltre il 20% della ricchezza, mentre negli anni 50 questa percentuale passò al 10%. Il new Deal, portò via la maggior parte  del reddito attraverso il prelievo fiscale.

Risposta al quesito posto all'inizio del post della situazione economico sociale.

Nessuno dei tre, ma Roosvelt: il primo pronunciato al Medison Square garden alla vigilia delle elezioni del 1936. Il successivo  nel suo secondo discorso inaugurale.

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