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11 marzo 2017 6 11 /03 /marzo /2017 16:06

Dibattito intorno al Pil - E' ora del misuratore di benessere

La felicità, il benessere e il PIL Il 20 marzo 2013, è stata celebrata la prima giornata mondiale della felicità, definita e decisa dall' ONU.

Nello stesso mese è stato presentato il " Rapporto BES 2013, benessere equo sostenibile ". Si è, in qualche modo, avviata un'importante discussione, su come misurare, in modo più adeguato ai reali valori di un paese e al suo stato di salute.

Questo serve per mettere in discussione e sotto accusa il ruolo e la funzione del PIL (Prodotti Interno Lordo). Su di esso si misura, da tempo e in modo artificiale e inadeguato, la situazione di un paese, e con essa, sia condiziona il presente e il futuro di milioni di persone. Il primo a metterlo in discussione è stato Roberto Kennedy (nel mese di marzo 1968), allora ministro della Giustizia e successivamente in corsa alla Presidenza degli USA. Allora disse, per primo, che il PIL era uno strumento inidoneo/iniquo a descrivere il valore di una nazione. Per questo non si poteva decidere sui destini delle persone solo sui dati economici. Il tema dopo molti anni è riapparso nella discussione europea.

Ha cominciato il Presidente francese Sarkozy, che nel 2008, insedia una commissione di studio presieduta dal premio nobel per l'economista Joseph Styiglitz. Però per l'importanza e la globalizzazione delle economie, questo è un tema che andava affrontato in una dimensione mondiale. Oggi questa è diventata un'esigenza prioritaria per evitare un ulteriore decollo e tracollo delle economie sotto scacco e ricatto dalle agenzie di rating. Per questo l'Unione Europea lo ripropone, a livello di continente nel 2009, con il documento: "GDP and Beyond". Questa decisione è , in qualche modo, sollecitata dall' OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). In Italia lo si affida e affronta con un gruppo di lavoro congiunto tra ISTAT e CNEL, che producono proprio il primo Rapporto, presentato nel mese di marzo 2013. Nella discussione, attorno e nel contenuto, della revisione del PIL, si inserisce un elemento nuovo di alto contenuto sociale valore: il concetto di felicità. Tema questo, al quale l'ONU, dedica una giornata mondiale ( il 20 marzo di ogni anno) ci sarà la giornata della felicità.

La prima è stata il 20 marzo 2013. Il segretario dell'ONU, Ban Ki-moon, ha dichiarato che la giornata mondiale della felicità è "un'occasione per riflettere sul bisogno di un nuovo paradigma economico, capace di riconoscere l'interdipendenza delle tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: quali benessere sociale, economico ed ambientale.

Riconoscere il benessere e la felicità quali aspirazioni universali delle persona umana sono obiettivi fondamentali delle politiche pubbliche di sviluppo, dei paesi.

Di "felicità" però si parla anche nella nuova "teoria della descrescita", il cui fondatore ed ispiratore, Sergio Latousche, teorizza uno sviluppo più frugale e essenziale ai bisogni reali delle persone. Significativo il titolo del suo ultimo libro: "per un'abbondanza frugale", dove tra le altre cose sostiene: " per avere abbondanza occorre riscoprire la frugalità. Ovvero va adottato un modo di vivere che dia meno importanza al consumo di merci, dedicando tempo ed energie alla convivialità,alla cultura, a forme economiche diverse quali l'economia solidale e la circolazione di beni sotto forma di doni o scambi. In questo modo di accorgeremo che saremmo ricchi".

Questa teoria è contestata, ad esempio dal prof. Stefano Zamagni, economista e studioso del non profit e già Presidente dell'Agenzia Nazionale del non profit (oggi abolita) che in un suo documento dal titolo:" La descrescita non una soluzione", sostiene infatti che " come antidoto al modello consumistico illimitato la soluzione non è la descrescita, ma l'economia civile perché solo questa è finalizzata al bene comune ... quindi occorre pensare ed operare per modificare l' idea attuale di crescita illimitata, con una capace di accettare i limiti delle risorse ambientali, energetiche e lavorare per eliminare le diseguaglianze sociali". Sulla diseguaglianze sociali, e la loro nefasta incidenza, sugli sviluppi economici e sociali dei paesi e quindi delle persone, si intrattiene da tempo anche il prof. Joseph Stiglitz, premio nobel titolo del libro: “Il prezzo della diseguaglianza". Crisi e dintorni –

Alla ricerca del Pil perduto di Salvatore Cannavò

La mossa del governo di rinviare la pubblicazione del Documento di economia e finanza, in attesa dei dati sul Pil da parte dell’Istat, dà la misura della disperazione in cui versano le economie europee. La recessione avanza senza ostacoli, le politiche di austerità hanno finora solo aggravato la situazione, la mole del debito pubblico aumenta, non solo in Italia, in maniera incontrollabile. E tutto questo dovrebbe essere arginato da un po’ di consumi in droga e prostituzione capaci di incrementare il Prodotto interno lordo dell’1 o magari del 2%? Poca roba.

Un dibattito così impostato, e basato su una corsa sgraziata a cercare coperture finanziarie in ogni anfratto della spesa pubblica – una volta le pensioni, un’altra gli statali e così via – non riuscirà mai ad affrontare la vera malattia che ormai pervade soprattutto Usa e Unione europea: la stagnazione economica endemica.

In realtà, nessun paese tornerà a prima della crisi, e in particolare l’Italia. Il mondo nel 2060 La funerea previsione non deriva da circoli pessimisti votati al complotto internazionale, ma dalle stime di tutte le organizzazioni internazionali. La più autorevole è forse quella dell’Ocse del luglio scorso: Le grandi sfide dei prossimi 50 anni, redatta dal Dipartimento degli Affari economici, n. 24. Lo studio non ammette illusioni: “La crescita mondiale – si legge nell’introduzione – marcherà il passo passando dal 3,6% tra il 2010 e il 2020 al 2,4% tra il 2050 e il 2060”. Ci aspettano decenni di stagnazione, quindi, se non di vera recessione, trattandosi di una stima media a livello mondiale. Il rallentamento sarà provocato “dall’invecchiamento della popolazione” ma anche da un fatto nuovo: “La decelerazione progressiva delle economie emergenti”. Cina, India, Brasile, Paesi arabi, insomma, non traineranno più l’economia mondiale come hanno fatto nell’ultimo quinquennio – in particolare dopo il crac finanziario del 2008 – anche se “il centro di gravità dell’economia mondiale continuerà a spostarsi verso i paesi attualmente non membri dell’Ocse”.

 

A questo proposito è sufficiente ricordare il discorso di Robert Kennedy all’università del Kansas nel 1968, chiaro e preciso:

http://www.benessereinternolordo.net/joomla/index.php?temid=1&id=8&option=com_content&task=view (video)

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jpnes, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.

 

Oltre il Pil: il Rapporto della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi

La più completa requisitoria contro il Pil ora è disponibile, ed è facile prevedere che resterà una pietra miliare. Nelle 300 pagine del rapporto sono presenti tutti gli argomenti sui limiti del Pil e sulle strategie da adottare per superarlo di Maurizio Franzini articolo tratto da Nelmerito.com

Titolo originale: Il Pil, il benessere e le politiche: il rapporto della commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi Sarkozy l’aveva commissionata nel febbraio del 2008, Stiglitz, Sen e Fitoussi, con i loro 22 prestigiosi collaboratori, l’hanno consegnata un paio di settimane fa: la più completa (e a più alto tasso di Premi Nobel: se ne contano ben 5 tra gli studiosi coinvolti) requisitoria contro il Pil ora è disponibile, ed è facile prevedere che resterà una pietra miliare in questo campo. Nelle 300 pagine di questo Rapporto sono presenti, arricchiti da acute osservazioni, tutti gli argomenti sui limiti del Pil e sulle strategie da adottare per "superarlo", che da molti anni alimentano un interessante dibattito. Nel Rapporto vengono ricordati i casi - spesso ben noti, come quello delle spese per riparare danni ambientali - in cui il Pil cresce e il benessere sociale, per quanto ampiamente inteso, di certo non aumenta. Inoltre, viene sottolineato che se si fosse prestata attenzione a altri indicatori, in particolare a quelli di sostenibilità finanziaria, la crisi in corso avrebbe potuto essere, quanto meno, meglio governata; vengono presentate 12 raccomandazioni che dovrebbero condurre non tanto alla definizione di un indicatore sintetico alternativo al Pil quanto alla messa a punto di statistiche in grado di cogliere il benessere sociale nelle sue molte dimensioni.

Queste 12 raccomandazioni riguardano il benessere materiale e quello non materiale. Rispetto al primo si sottolinea la necessità di porre attenzione al reddito e al consumo, piuttosto che alla produzione, di considerare anche indici di ricchezza e di prendere a riferimento il nucleo familiare. Si ricorda l’influenza sul benessere della qualità dei beni e si pone particolare enfasi sulle disuguaglianze e sulla necessità di non limitarsi a considerare le grandezze medie, alle quali sono comunque da preferire quelle mediane

. Si ricorda che il benessere dipende anche da attività che non danno luogo a scambi di mercato, come le prestazioni dirette tra soggetti e si raccomanda di misurare i servizi offerti dallo Stato in base non ai loro costi, come avviene con il Pil, ma al loro impatto sul benessere dei singoli. Riguardo alla dimensione non materiale del benessere si ricorda l’importanza del tempo libero (che, se incluso nell’indice di benessere, potrebbe annullare il vantaggio degli Stati Uniti su molti paesi europei in termini di Pil pro capite) e la necessità di misurare le relazioni sociali, la "voce" politica e la sicurezza o vulnerabilità dei singoli.

Si afferma anche che vanno considerare misure oggettive e soggettive e che sono necessari indici di sostenibilità del benessere nel tempo, ambito nel quale dominano i noti problemi connessi all’ambiente. Queste argomentazioni possono chiarire, si spera definitivamente, alcuni punti.

Il primo è che il benessere e il Pil sono cose distinte. Questa è tutt’altro che una novità: nel 1934, il padre del Pil, Simon Kuznets, presentando la sua "creatura" al Congresso Usa ebbe a dichiarare: "Il benessere di una nazione…non può essere facilmente desunto da un indice del reddito nazionale". Ciò basta a porre l’onere della prova a carico di chi volesse sostenere il contrario. In realtà, la tesi di una diretta coincidenza tra Pil e benessere è assai meno diffusa di quella, ben più raffinata, che considera il Pil una condizione necessaria per favorire indirettamente il progresso di dimensioni rilevante del benessere: la riduzione delle disuguaglianze piuttosto che la qualità dell’ambiente o la diffusione del senso civico.

Il Rapporto, non soltanto con gli argomenti proposti ma anche con l’invito a predisporre statistiche su tutte le principali dimensioni del benessere, pone le condizioni perché affermazioni di questo tipo (così come quelle opposte che, se le interpreto bene, vedono nel Pil una causa sistematica di peggioramento del benessere e per questo invocano la decrescita) non possano essere più formulate in assenza di prove convincenti.

Il Rapporto, chiarisce anche che "andare oltre il Pil" non significa costruire un indicatore sintetico alternativo. Contrariamente a quanto è apparso su diversi organi di stampa, nel Rapporto non vi è alcuna precisa proposta al riguardo. Le Raccomandazioni, di cui si è detto, chiariscono che la misurazione del benessere non è un problema esclusivamente tecnico, per la semplice ragione che la concezione stessa del benessere chiama in causa le preferenze e i valori di fondo di una società e degli individui che la compongono. Anche per questo i politici hanno, in questo ambito, ampia libertà di scelta.

Nasce così una domanda semplice ma cruciale: dalle critiche rivolte al Pil, e dalle proposte di superamento che ne derivano, possiamo attenderci una politica che in qualche ragionevole e forte senso, sia "migliore"? O dovremo accontentarci delle pur utili classifiche di paesi e regioni in base a indicatori più o meno complessi e ragionevoli di benessere, proposti da ricercatori e centri studi? A quest’ultimo riguardo, sono disponibili diverse proposte sulle statistiche da considerare insieme o in alternativa al Pil, spesso integrate in un unico indice (una breve cronologia si trova a: http://www.oecd.org/dataoecd/24/56/41288178.pdf)

. Per l’Italia, si può ricordare l’indice Quars, relativo alle nostre regioni, elaborato da "Sbilanciamoci". Il Pil ha avuto indubbi meriti nel permettere, per lungo tempo, una gestione dell’economia che ne limitasse le oscillazioni e ne favorisse l’espansione, con benefici effetti per il benessere. Per questo, 20 o 30 anni fa, economisti, anche molto sensibili a concezioni non strettamente economiche del benessere, affermavano che "l’invenzione" del Pil era stato uno dei grandi contributi del secolo scorso alla conoscenza economica. Esso rappresentava, per i governi, una bussola della quale si era compresa l’importanza durante la Grande Depressione. <a href='http://adv.rassegna.it/www/delivery/ck.php?n=a2bc7627&cb=INSERT_RANDOM_NUMBER_HERE' target='_blank'><img src='http://adv.rassegna.it/www/delivery/avw.php?zoneid=31&cb=INSERT_RANDOM_NUMBER_HERE&n=a2bc7627' border='0' alt='' /></a>

Da quando il Pil è stato "inventato" e utilizzato, le condizioni economiche e sociali di un gran numero di paesi hanno conosciuto fasi diverse che tali risultano anche in base a indicatori non strettamente economici. Si pensi, per fare solo un esempio, all’intero Occidente nei 30 anni successivi al conflitto bellico e alle vicende, assai differenziate geograficamente, degli ultimi 15 anni. Il Pil era sempre lì, ma le cose sono andate molto diversamente nel tempo e per paesi diversi. Questa variabilità contrasta con l’idea molto diffusa secondo cui "oggi" le condizioni sono cambiate e questo cambiamento ha decretato l’esaurimento della funzione storica del Pil. Forse non di questo si tratta ma della mutevole attenzione che, pur sempre in vigenza del Pil, si è deciso di dare ad altre dimensioni – o, forse, ad altre concezioni - del benessere sociale. D’altro canto, la soggezione al Pil ben difficilmente potrebbe essere giustificata dalla tesi della coincidenza tra il Pil stesso e il benessere. Si è già ricordato quanto ha affermato Kuznets e mille altre simili affermazioni potrebbero essere aggiunte. Appare, perciò, molto improbabile che nell’assumere le proprie decisioni i policy makers che si sono affidati quasi esclusivamente al Pil lo abbiano fatto pensando che questo equivalesse a promuovere il benessere sociale.

Più facile immaginare che le loro scelte fossero il frutto non di un equivoco sul "contenuto" di benessere del Pil ma di un consapevole processo di valutazione. Dunque, il meno che si possa dire è che il grado di soggezione al Pil è stato un atto volontario: i governi hanno libertà di scegliere le variabili dalle quali farsi guidare e i pesi da attribuire a ciascuna di esse.

Possono anche, se lo vogliono, interrogarsi sul rapporto che tutto questo ha con il benessere sociale, ma non sembrano obbligati a farlo. Possiamo, allora, sperare che emendando, riformando o addirittura eliminando il Pil scompaia la possibilità di fare un cattivo uso di questa libertà? E possiamo immaginare di costruire un indice che "catturi" nel migliore modo possibile il benessere sociale e venga imposto come obiettivo unico da massimizzare ai governi?

Le risposte a queste domande sembrano piuttosto scontate e appare evidente che la questione ricade a pieno titolo nel terreno della democrazia. Essa non può essere risolta che apprestando processi decisionali di comprovata solidità sotto questo profilo. Ad esempio, la competizione elettorale potrebbe svolgersi proprio sui pesi da attribuire alle diverse dimensioni del benessere e dovrebbe essere integrata da meccanismi istituzionali che assicurino il rispetto degli impegni assunti.

Tutto ciò appare piuttosto complesso e di tale complessità nel Rapporto vi è consapevolezza. Lo dimostra non soltanto la scelta di offrire raccomandazioni ma l’esplicita dichiarazione che obiettivo principale del Rapporto è accrescere la disponibilità di dati e di statistiche di qualità su dimensioni rilevanti del benessere sociale (e sulla sua sostenibilità) allo scopo di permettere ai politici di prendere scelte più meditate (ovviamente se lo vorranno), ai media di informare meglio i propri lettori (anche questo se lo vorranno) e a questi ultimi di fare pesare le proprie informazioni maggiormente nella scelta politica (sempre, se lo vorranno). Sfortunatamente (o forse no?) il "superamento" del Pil, se così vogliamo chiamarlo, non genera automaticamente politiche "migliori". Però può offrire loro una nuova, grande opportunità.

 

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