Non bisogna temere i cambi di rotta e adattarsi. Ma adattarsi non significa rassegnarsi, adattarsi significa avere la duttilità necessaria per capire che i tempi sono cambiati, che i tempi cambiano sempre
ROBERTO SAVIANO - La Repubblica
Orientarsi nel disordine" è il titolo dell'edizione di quest'anno di Repubblica delle Idee. Un titolo che dice molto, per prima cosa che al disordine, al caos, bisogna abituarsi perché non si può ricomporre un puzzle che non esiste. Ma come fare a vivere nel disordine senza sentirsi persi?
La soluzione è trovare una bussola, non temere i cambi di rotta e adattarsi. Ma adattarsi non significa rassegnarsi, adattarsi significa avere la duttilità necessaria per capire che i tempi sono cambiati, che i tempi cambiano sempre. Questa sera a Bologna (sarò in Piazza Maggiore alle 21.30) mi piacerebbe indicare un percorso, un percorso che è mio, ma che non è personale, perché non riguarda solo me; un percorso che dal particolare può arrivare a spiegare ciò che accade in Paesi che troppo spesso, e a torto, consideriamo lontani.
Partirò dalla ferocia degli innocenti, dalla ferocia di chi, affiliandosi alle organizzazioni criminali, condanna il sud Italia a rimanere luogo di guerra, di guerra eterna. La loro innocenza è una provocazione, ma invece la guerra è reale e soprattutto, se dura da tanto, porta con sé l'assuefazione di chi potrebbe cambiarne le sorti: stampa, politica e opinione pubblica. Dire che a Napoli, nelle scorse settimane, in 11 giorni ci sono stati 8 morti equivale ad avere questa risposta: "Bene, si ammazzino pure tra loro". E in effetti questa volta è stato così, nel senso che tra di loro pare si siano ammazzati. Vicino al clan Moccia era Salvatore Caputo, ucciso ad Afragola il 25 maggio scorso. Poi a Giugliano sono morti Vincenzo ed Emanuele Staterini, uccisi in una tabaccheria, erano ritenuti vicini al clan Tolomelli Vastarella. Vicini al clan Lo Russo erano invece entrambi i Carlo Nappello, zio e nipote, omonimi, uccisi a Miano il 27 maggio. Il 29 maggio muore Carmine Picale, 29 anni, ucciso in un pub della Riviera di Chiaia. E di nuovo ad Afragola, il 3 giugno, muore Remigio Sciarra ritenuto vicino al clan Cennamo, raggiunto da tre colpi mentre era in auto con moglie, figlio e amichetto del figlio. L'ultimo a morire è Alberto Benvenuto Musto, il 5 giugno a Torre Annunziata.
Negli stessi giorni ci sono state 3 "stese" alla Sanità e su tutto questo nemmeno una parola, una riflessione, se non accuse che la politica locale rimbalza su quella nazionale e viceversa. Su tutto questo non avrete letto nulla se vivete lontano da Napoli, e se invece vivete a Napoli o in provincia avrete derubricato questi omicidi nella cartella "normale amministrazione". Avrete magari ascoltato al Tgr la notizia con un misto di fastidio e noia perché siete stanchi di vedere la vostra terra descritta come luogo di morti e sparatorie, di camorra e criminalità. E allora la soluzione è sperare che come ogni fenomeno umano anche la camorra prima o poi si estingua. Ma la camorra, fino a che ci sarà possibilità di guadagno, non si estinguerà. Fino a che ciascuno non prenderà parte a questa guerra, la camorra resterà un esercito senza divisa, quindi impossibile da individuare, contro cui non esistono possibilità di vittoria.
Ma cosa c'entrano i morti di Napoli con la possibilità di orientarsi nel caos? C'entrano. C'entrano perché distogliere lo sguardo significa precludersi ogni possibilità di comprensione. Se la Guardia di Finanza sequestra beni al clan Mallardo di Giugliano e tra questi ci sono lo Stelle Hotel di Napoli, l'hotel Sole di Verona, la società Crusado di Marcianise, la gelateria Gelcom di Taranto, ville a Ischia, in Abruzzo, altri beni immobili e decine di conti correnti, significa che la camorra giuglianese non è un problema solo della provincia di Napoli, ma evidentemente, da Verona a Taranto, è un problema di tutto il Paese.
E allora se le parole che il segretario generale del Censis ha detto su Napoli ("Territorio dove il senso civico e la cultura della legalità risultano particolarmente deficitari") indignano, è evidente che la risposta non può essere farsi scudo delle persone perbene che sono la stragrande maggioranza ma che vivono in una terra che non appartiene a loro e dove le regole le dettano altri.
Quando si parla di Sud si parla del grande assente dal dibattito politico. Di una terra che è scomparsa, che sembra non essere più Italia, ma che allo stesso tempo non è nient'altro. In nessun programma di partito leggiamo cosa ne sarà del Sud: chi è lontano fisicamente considera il Sud eterna zavorra; chi al Sud amministra sa che dalla comunicazione devono scomparire le parole mafia, camorra, 'ndrangheta, sacra corona unita, società foggiana perché sono vortici, buchi neri da cui non si risale. Chi parla di criminalità è accusato di lordare la propria terra, mentre il bollettino di guerra si infoltisce e i guadagni del narcotraffico continuano a essere la voce in attivo dell'economia italiana (non solo meridionale). Non parlarne significa aver perso tutti: la politica le elezioni e i cittadini ogni speranza di democrazia. Non parlarne significa far crescere i clan e dove crescono i clan muore tutto il resto. E muore il mercato del lavoro. In una terra in cui le logiche e le regole sono soggette al potere dei clan, investire diventa non solo difficile, ma impresa a perdere. In una terra dove mancano le infrastrutture, le vie di comunicazione, dove il trasporto pubblico sconta la mancanza di risorse, chi mai oserebbe investire? I clan, e solo loro.
Eppure non sembra un problema: il Sud è uno di quegli argomenti da evitare, perché non consente di "comunicare bene" e da problema atavico è diventato il necessario rimosso. Un posto bello per la vacanza, pittoresco, mentre il dietro le quinte di questa rappresentazione è la disperazione di chi continua a emigrare, a scappare.
Sono anni che mi occupo di criminalità organizzata e da anni provo a dare centralità a questo tema non perché, come dice il boss mafioso Giuseppe Graviano intercettato in carcere, si vuole condizionare e mantenere l'allerta quando l'allerta non esiste (8 morti in 11 giorni dovrebbero invece provocare allerta), non perché, come dice il boss al 41-bis, "fa comodo questa situazione", ma perché dare centralità alle dinamiche criminali è l'unico modo che il Sud ha per uscire dalla voragine.
È l'unico modo che ha per selezionare la propria classe dirigente che non basta sia "perbene", ma deve essere soprattutto competente. Fare campagna elettorale al Sud o amministrare il Sud senza nominare le mafie per paura di lordarsi, accusare chi ne parla di farlo per tornaconto personale, significa aver consegnato il Sud ai clan usando le stesse parole dei boss. Giuseppe Graviano parla di me e del mio "modo insolente di rappresentare quello che è la mafia e, Napoli. Lui (io, ndr) non vivendo più lì, non può sapere com'è adesso la situazione, lo apprende tramite la carta stampata e la televisione".
Che differenza c'è tra il politico che mi accusa di diffamare la mia terra e Graviano? Che il politico non è un mafioso mentre Graviano lo è e che il politico non conosce la criminalità organizzata mentre Graviano la conosce, eccome se la conosce. Eppure la loro comunicazione è identica, ciò vuol dire che il politico senza saperlo sta facendo il gioco dei clan: interrompere il racconto, indicare come colpevole chi parla di criminalità e non la criminalità stessa.
Queste speculazioni da eterna campagna elettorale, da continua ricerca di uno scampolo di visibilità, trovano una cassa di risonanza notevole nei social network, dove è molto facile dare in pasto alla rabbia, amplificata dall'anonimato, falsi problemi e falsi nemici. È nel disordine che la politica cialtrona sguazza, generando una realtà virtuale dove ognuno ha un po' di ragione, poiché tutti hanno torto.
Ecco, per orientarci nel disordine dobbiamo fare tutti la nostra parte. Chi scrive, chi legge e chi ci amministra. Una politica autoreferenziale, chiusa a ogni dibattito, una politica che ragiona per fazioni e individuando nemici è una politica che abitua l'elettorato a essere autoreferenziale, chiuso a ogni dibattito e a ragionare per contrapposizioni. Perché la politica orienta, sempre, anche se non è visione ma involuzione. Faccio un esempio. In Italia la piaga più drammatica è la disoccupazione (quasi il 40% dei giovani attivi tra i 15 e i 24 anni è disoccupato), quindi sarebbe scontato provare empatia per chiunque lotti per il proprio posto di lavoro. E invece non sempre è così.
Qualche giorno fa sui social ho parlato di due ragazzi turchi, Nuriye Gülmen (docente universitaria) e Semih Özakça (maestro di scuola elementare) in carcere ad Ankara per aver manifestato per il reintegro dei 150mila dipendenti pubblici licenziati arbitrariamente da Erdogan come ritorsione per il fallito golpe. Nuriye e Semih, licenziati e arrestati senza motivo e in violazione dei più basilari diritti di cui ciascun individuo dovrebbe godere, sono in sciopero della fame in carcere da quasi 100 giorni e le loro condizioni di salute sono gravi. Questo ho raccontato e sapete quale è stato il primo commento? "Non è successo in Italia, non mi riguarda".
In un'intervista a Radio Radicale la moglie di Semih Özakça, Esra, anche lei insegnante, anche lei licenziata dopo il golpe e anche lei in sciopero della fame, dice: "Non abbiamo fame di cibo, ma di giustizia, di legalità e di giustizia. È di questo che i nostri corpi si devono nutrire. Manifestiamo per tutte le vittime dello stato di emergenza. E la nostra vittoria sarà la vittoria di tutti". E allora io mi sono chiesto, leggendo i tanti commenti
sui social: ma noi che non riusciamo a empatizzare con chi lotta e muore per un diritto che manca anche in Italia, noi che ormai come la nostra politica peggiore pensiamo che solo ciò che ci riguarda qui e ora abbia importanza, noi di cosa abbiamo fame?