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18 giugno 2017 7 18 /06 /giugno /2017 19:27

Non bisogna temere i cambi di rotta e adattarsi. Ma adattarsi non significa rassegnarsi, adattarsi significa avere la duttilità necessaria per capire che i tempi sono cambiati, che i tempi cambiano sempre

ROBERTO SAVIANO - La Repubblica

Orientarsi nel disordine" è il titolo dell'edizione di quest'anno di Repubblica delle Idee. Un titolo che dice molto, per prima cosa che al disordine, al caos, bisogna abituarsi perché non si può ricomporre un puzzle che non esiste. Ma come fare a vivere nel disordine senza sentirsi persi?

La soluzione è trovare una bussola, non temere i cambi di rotta e adattarsi. Ma adattarsi non significa rassegnarsi, adattarsi significa avere la duttilità necessaria per capire che i tempi sono cambiati, che i tempi cambiano sempre. Questa sera a Bologna (sarò in Piazza Maggiore alle 21.30) mi piacerebbe indicare un percorso, un percorso che è mio, ma che non è personale, perché non riguarda solo me; un percorso che dal particolare può arrivare a spiegare ciò che accade in Paesi che troppo spesso, e a torto, consideriamo lontani.

Partirò dalla ferocia degli innocenti, dalla ferocia di chi, affiliandosi alle organizzazioni criminali, condanna il sud Italia a rimanere luogo di guerra, di guerra eterna. La loro innocenza è una provocazione, ma invece la guerra è reale e soprattutto, se dura da tanto, porta con sé l'assuefazione di chi potrebbe cambiarne le sorti: stampa, politica e opinione pubblica. Dire che a Napoli, nelle scorse settimane, in 11 giorni ci sono stati 8 morti equivale ad avere questa risposta: "Bene, si ammazzino pure tra loro". E in effetti questa volta è stato così, nel senso che tra di loro pare si siano ammazzati. Vicino al clan Moccia era Salvatore Caputo, ucciso ad Afragola il 25 maggio scorso. Poi a Giugliano sono morti Vincenzo ed Emanuele Staterini, uccisi in una tabaccheria, erano ritenuti vicini al clan Tolomelli Vastarella. Vicini al clan Lo Russo erano invece entrambi i Carlo Nappello, zio e nipote, omonimi, uccisi a Miano il 27 maggio. Il 29 maggio muore Carmine Picale, 29 anni, ucciso in un pub della Riviera di Chiaia. E di nuovo ad Afragola, il 3 giugno, muore Remigio Sciarra ritenuto vicino al clan Cennamo, raggiunto da tre colpi mentre era in auto con moglie, figlio e amichetto del figlio. L'ultimo a morire è Alberto Benvenuto Musto, il 5 giugno a Torre Annunziata.

Negli stessi giorni ci sono state 3 "stese" alla Sanità e su tutto questo nemmeno una parola, una riflessione, se non accuse che la politica locale rimbalza su quella nazionale e viceversa. Su tutto questo non avrete letto nulla se vivete lontano da Napoli, e se invece vivete a Napoli o in provincia avrete derubricato questi omicidi nella cartella "normale amministrazione". Avrete magari ascoltato al Tgr la notizia con un misto di fastidio e noia perché siete stanchi di vedere la vostra terra descritta come luogo di morti e sparatorie, di camorra e criminalità. E allora la soluzione è sperare che come ogni fenomeno umano anche la camorra prima o poi si estingua. Ma la camorra, fino a che ci sarà possibilità di guadagno, non si estinguerà. Fino a che ciascuno non prenderà parte a questa guerra, la camorra resterà un esercito senza divisa, quindi impossibile da individuare, contro cui non esistono possibilità di vittoria.

Ma cosa c'entrano i morti di Napoli con la possibilità di orientarsi nel caos? C'entrano. C'entrano perché distogliere lo sguardo significa precludersi ogni possibilità di comprensione. Se la Guardia di Finanza sequestra beni al clan Mallardo di Giugliano e tra questi ci sono lo Stelle Hotel di Napoli, l'hotel Sole di Verona, la società Crusado di Marcianise, la gelateria Gelcom di Taranto, ville a Ischia, in Abruzzo, altri beni immobili e decine di conti correnti, significa che la camorra giuglianese non è un problema solo della provincia di Napoli, ma evidentemente, da Verona a Taranto, è un problema di tutto il Paese.

E allora se le parole che il segretario generale del Censis ha detto su Napoli ("Territorio dove il senso civico e la cultura della legalità risultano particolarmente deficitari") indignano, è evidente che la risposta non può essere farsi scudo delle persone perbene che sono la stragrande maggioranza ma che vivono in una terra che non appartiene a loro e dove le regole le dettano altri.

Quando si parla di Sud si parla del grande assente dal dibattito politico. Di una terra che è scomparsa, che sembra non essere più Italia, ma che allo stesso tempo non è nient'altro. In nessun programma di partito leggiamo cosa ne sarà del Sud: chi è lontano fisicamente considera il Sud eterna zavorra; chi al Sud amministra sa che dalla comunicazione devono scomparire le parole mafia, camorra, 'ndrangheta, sacra corona unita, società foggiana perché sono vortici, buchi neri da cui non si risale. Chi parla di criminalità è accusato di lordare la propria terra, mentre il bollettino di guerra si infoltisce e i guadagni del narcotraffico continuano a essere la voce in attivo dell'economia italiana (non solo meridionale). Non parlarne significa aver perso tutti: la politica le elezioni e i cittadini ogni speranza di democrazia. Non parlarne significa far crescere i clan e dove crescono i clan muore tutto il resto. E muore il mercato del lavoro. In una terra in cui le logiche e le regole sono soggette al potere dei clan, investire diventa non solo difficile, ma impresa a perdere. In una terra dove mancano le infrastrutture, le vie di comunicazione, dove il trasporto pubblico sconta la mancanza di risorse, chi mai oserebbe investire? I clan, e solo loro.

Eppure non sembra un problema: il Sud è uno di quegli argomenti da evitare, perché non consente di "comunicare bene" e da problema atavico è diventato il necessario rimosso. Un posto bello per la vacanza, pittoresco, mentre il dietro le quinte di questa rappresentazione è la disperazione di chi continua a emigrare, a scappare.

Sono anni che mi occupo di criminalità organizzata e da anni provo a dare centralità a questo tema non perché, come dice il boss mafioso Giuseppe Graviano intercettato in carcere, si vuole condizionare e mantenere l'allerta quando l'allerta non esiste (8 morti in 11 giorni dovrebbero invece provocare allerta), non perché, come dice il boss al 41-bis, "fa comodo questa situazione", ma perché dare centralità alle dinamiche criminali è l'unico modo che il Sud ha per uscire dalla voragine.

È l'unico modo che ha per selezionare la propria classe dirigente che non basta sia "perbene", ma deve essere soprattutto competente. Fare campagna elettorale al Sud o amministrare il Sud senza nominare le mafie per paura di lordarsi, accusare chi ne parla di farlo per tornaconto personale, significa aver consegnato il Sud ai clan usando le stesse parole dei boss. Giuseppe Graviano parla di me e del mio "modo insolente di rappresentare quello che è la mafia e, Napoli. Lui (io, ndr) non vivendo più lì, non può sapere com'è adesso la situazione, lo apprende tramite la carta stampata e la televisione".

Che differenza c'è tra il politico che mi accusa di diffamare la mia terra e Graviano? Che il politico non è un mafioso mentre Graviano lo è e che il politico non conosce la criminalità organizzata mentre Graviano la conosce, eccome se la conosce. Eppure la loro comunicazione è identica, ciò vuol dire che il politico senza saperlo sta facendo il gioco dei clan: interrompere il racconto, indicare come colpevole chi parla di criminalità e non la criminalità stessa.

Queste speculazioni da eterna campagna elettorale, da continua ricerca di uno scampolo di visibilità, trovano una cassa di risonanza notevole nei social network, dove è molto facile dare in pasto alla rabbia, amplificata dall'anonimato, falsi problemi e falsi nemici. È nel disordine che la politica cialtrona sguazza, generando una realtà virtuale dove ognuno ha un po' di ragione, poiché tutti hanno torto.

Ecco, per orientarci nel disordine dobbiamo fare tutti la nostra parte. Chi scrive, chi legge e chi ci amministra. Una politica autoreferenziale, chiusa a ogni dibattito, una politica che ragiona per fazioni e individuando nemici è una politica che abitua l'elettorato a essere autoreferenziale, chiuso a ogni dibattito e a ragionare per contrapposizioni. Perché la politica orienta, sempre, anche se non è visione ma involuzione. Faccio un esempio. In Italia la piaga più drammatica è la disoccupazione (quasi il 40% dei giovani attivi tra i 15 e i 24 anni è disoccupato), quindi sarebbe scontato provare empatia per chiunque lotti per il proprio posto di lavoro. E invece non sempre è così.

Qualche giorno fa sui social ho parlato di due ragazzi turchi, Nuriye Gülmen (docente universitaria) e Semih Özakça (maestro di scuola elementare) in carcere ad Ankara per aver manifestato per il reintegro dei 150mila dipendenti pubblici licenziati arbitrariamente da Erdogan come ritorsione per il fallito golpe. Nuriye e Semih, licenziati e arrestati senza motivo e in violazione dei più basilari diritti di cui ciascun individuo dovrebbe godere, sono in sciopero della fame in carcere da quasi 100 giorni e le loro condizioni di salute sono gravi. Questo ho raccontato e sapete quale è stato il primo commento? "Non è successo in Italia, non mi riguarda".

In un'intervista a Radio Radicale la moglie di Semih Özakça, Esra, anche lei insegnante, anche lei licenziata dopo il golpe e anche lei in sciopero della fame, dice: "Non abbiamo fame di cibo, ma di giustizia, di legalità e di giustizia. È di questo che i nostri corpi si devono nutrire. Manifestiamo per tutte le vittime dello stato di emergenza. E la nostra vittoria sarà la vittoria di tutti". E allora io mi sono chiesto, leggendo i tanti commenti

sui social: ma noi che non riusciamo a empatizzare con chi lotta e muore per un diritto che manca anche in Italia, noi che ormai come la nostra politica peggiore pensiamo che solo ciò che ci riguarda qui e ora abbia importanza, noi di cosa abbiamo fame?
 

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7 maggio 2017 7 07 /05 /maggio /2017 19:29

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il tema trattato da Macron è l'Europa è di importanza vitale. Se non si battono i nazionalismi e i populismi possiamo possiamo scegliere di fare i valletti, i servitori di qualche potenza  economica (ndr.)

PARIGI - DOPO venti minuti cita per la prima volta Marine Le Pen, ma non ce ne sarebbe stato nemmeno bisogno, ogni frase che pronuncia ci ricorda la posta in gioco, il bivio di fronte al quale si trovano la Francia e l'Europa. "Viviamo tempi drammatici e la sfida non è più tanto tra destra e sinistra ma tra apertura e chiusura". Ma davvero è ancora possibile parlare di progresso? Parlare di Europa? Chiedere ai cittadini di fidarsi, di guardare avanti, di aumentare l'integrazione?

Pochi ormai hanno il coraggio di farlo, spaventati dalla Brexit, da Trump, dall'ascesa dei populismi. Lo ha dimostrato bene il leader xenofobo olandese Wilders che pur non avendo vinto le elezioni ha festeggiato il suo miglior risultato: avere imposto i temi della discussione pubblica. E di fronte ad agende che parlano di paura, invasioni di migranti, che identificano l'Europa, la moneta unica e le istituzioni comuni come le radici di tutti i mali, la reazione è quella di cercare compromessi o di inseguire i radicalismi.

Emmanuel Macron invece ha scelto una strada netta, quasi un referendum. Un passo pericoloso in un Paese come la Francia che 12 anni fa bocciò la costituzione europea: "Ma se siamo solo un po' europei, se lo diciamo timidamente, abbiamo già perso".
"Marine Le Pen vuole ricreare la conflittualità tra i Paesi europei, ma io sono nato in una zona piena di cimiteri militari e per me vale sempre la frase di Mitterrand: il nazionalismo è la guerra".

Chi cita il vecchio presidente - uno dei padri dell'Europa che sul campo di battaglia di Verdun (dove nella prima guerra mondiale tedeschi e francesi si massacrarono) si fece fotografare mano nella mano con il cancelliere Helmut Kohl - non è un anziano nostalgico ma il più giovane dei candidati alla presidenza, quello che sembra destinato ad arrivare in finale con la leader del Front National.

Macron ha solo 39 anni e un curriculum che in questi tempi gli avrebbe dovuto consigliare di stare a casa, ben camuffato. Ha studiato all'Ena, la scuola di pubblica amministrazione vista come il fumo negli occhi dai populisti, parla tre lingue, ha letto tanto, ama Svevo, ha lavorato alla Banca Rothschild, è stato consigliere di Hollande e ministro dell'Economia. Ha sempre l'abito blu, modi gentili, mai una parola fuori posto, nessuna concessione al linguaggio della strada. Non parla di veleni, di paure, ma di collaborazione tra Stati, tra popoli, pronuncia parole desuete e quasi naïf come buonumore, responsabilità, solidarietà e pace.

Rifiuta la confusione tra rifugiati e migranti e chiama con il loro nome coloro che non amano l'Europa, siano essi Trump e Putin, o ungheresi e polacchi verso i quali non fa sconti: "Mi dispiace ma se non rispetti le decisioni europee devi pagare un prezzo, non c'è niente da inventare, è già tutto previsto dai trattati".

Sul tavolo giornali, pile di cartelline azzurre con gli appuntamenti della giornata, la trascrizione completa del dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza, dietro di lui un libro che sembra calzare a pennello per un candidato che non ha un partito tradizionale alle spalle, ma solo un movimento nuovo di zecca che si chiama En Marche!: "Oggetto politico non identificato". Sul muro un grande quadro, una Marianna con la scritta Liberté, Egalité, Fraternité disegnato nello stile dei manifesti di Obama.


In molti Paesi europei lei viene presentato come l'uomo che potrebbe evitare una vittoria di Marine Le Pen. È consapevole di quanta attenzione ci sia all'estero intorno alla sua candidatura?
"Prima di tutto vorrei avere un pensiero per le vittime dell'attacco a Londra. Purtroppo in Europa rimane una minaccia terrorista che dobbiamo combattere insieme, senza tregua. Sulla domanda che riguarda Le Pen, la sfida in Francia si gioca anche in altri Paesi, è un dibattito che attraversa l'Europa. Ho avuto molto presto la convinzione che la vera spaccatura non fosse più tra destra e sinistra, anche se esistono ancora delle differenze. La linea di divisione oggi è tra apertura o chiusura, pro o contro Europa, conservatori o progressisti. Mi rendo conto delle responsabilità che pesa su di me quando difendo l'apertura, l'Europa. Ma non devo ritrovarmi da solo. Nei tempi tragici che stiamo vivendo, ognuno di noi dovrebbe avvertire l'importanza di essere europeista".

Perché gli elettori francesi dovrebbero seguirla?
"È la prima volta che ci troviamo in un contesto mondiale nel quale così tanti leader stranieri auspicano l'indebolimento dell'Europa. Basta ascoltare Trump e Putin per accorgersene. Avrete forse notato che nella campagna elettorale francese diversi candidati soffrono di una fascinazione deleteria nei confronti della Russia. Non significa che non si debba parlare con Mosca ma dobbiamo capire che oggi, ancora più che in passato, abbiamo bisogno d'Europa".

Cos'è esattamente l'Europa oggi, a sessant'anni dal Trattato di Roma: un mercato, una moneta unica, uno spazio di pace?
"È un progetto inedito che ha permesso decenni di pace e prosperità come mai. Quando guardiamo l'Europa su scala mondiale ci rendiamo conto che non esiste uno spazio così piccolo con altrettante lingue e culture diverse. L'Unione europea è un formidabile vantaggio contro la conflittualità senza che ci sia quella vocazione egemonica descritta dall'intellettuale tedesco Peter Sloterdijk che parla di "trasferimento tra imperi", a partire da quello romano, poi carolingio, napoleonico, bismarckiano, hitleriano. L'Europa si era stabilizzata solo intorno a sogni egemonici. Poi, negli ultimi sessant'anni, l'Europa è diventata per la prima volta una creazione democratica plurale. È il tesoro che ci ha tramandato il Trattato di Roma".

Vediamo invece che aumentano gli egoismi nazionali.
"L'Europa si è snaturata per mancanza di leadership politica. A partire dagli anni Novanta, il Mercato unico è stato deviato nel suo utilizzo. Come diceva Jacques Delors, è nato come uno spazio di libertà ma anche di regole e solidarietà che, invece, non ci sono state. Questo squilibrio, rifiutato dai popoli, è stato spinto da alcuni stati ultra-liberisti, come la Gran Bretagna. Per ironia della Storia poi la Brexit è stato lanciata proprio in nome dello squilibrio del Mercato unico. Oggi dobbiamo rimettere ordine con un'armonizzazione fiscale e sociale".

Non è già troppo tardi?
"Si è smarrita quella che chiamo la "logica del desiderio". Da quando ci sono stati i "no" francesi e olandesi, nel 2005, nessuno ha più voluto proporre un movimento in avanti, anzi ha prevalso la logica del dubbio. Così abbiamo avuto la discussione sulla Grexit, poi sulla Brexit e non so quale altro "exit" dobbiamo aspettarci".

Forse anche perché l'asse tra Parigi e Berlino ha smesso di funzionare?
"All'indomani della crisi economica, la sfiducia è iniziata nell'eurozona nei confronti dei Paesi indebitati che non avevano fatto gli sforzi necessari pur avendo goduto della protezione del tasso d'interesse unico. La diffidenza si è poi diffusa tra Paesi dell'Est e dell'Ovest".

L'allargamento a 28 è stato un errore?
"L'Europa non ha saputo gestire l'allargamento, e si è paralizzata. Dobbiamo ammetterlo con onestà, è lampante nelle discussioni che abbiamo oggi con l'Ungheria o la Polonia. C'è stato anche un impatto negativo sull'eurozona. Alcune riforme non sono stata fatte per non contrariare britannici e polacchi. Abbiamo visto il ringraziamento: i primi se ne sono andati, gli altri non rispettano i valori dell'Unione".

François Hollande non è riuscito a "riorientare" l'Europa come aveva promesso?
"Senza la Francia e Hollande nell'estate 2012 non ci sarebbe stata neppure l'Unione bancaria e saremmo andati incontro al peggio. Ho avuto dei disaccordi con il Presidente sulla sua strategia europea ma l'Unione bancaria è stata una conquista indispensabile".

Senza l'intervento francese la Grecia sarebbe uscita dall'euro?
"Non solo la Grecia, tutto sarebbe andato in fumo. L'Unione bancaria è la porta anti-in- cendio tra i debiti pubblici e le banche, è la base dell'impegno di Mario Draghi e del suo famoso "whatever it takes", ovvero il nuovo ruolo della Bce".

Come pensa di ristabilire un clima di fiducia con la Germania?
"Se la Francia vuole ridiventare il motore dell'Europa deve intanto ammettere di non aver fatto tutte le riforme necessarie. È per questo che ho presentato delle riforme chiave su lavoro, formazione professionale, istruzione e concertazione sociale, mantenendo una linea credibile sui conti senza le ambiguità che ci sono state nel 2013".

La Francia negli ultimi anni ha trattato per sé deroghe con la Commissione, senza appoggiare una battaglia più ampia sulle regole come chiedeva l'Italia. È stato uno sbaglio?
"Penso che nell'estate 2012 la Francia abbia fatto la sua parte, mentre invece sono critico sulla posizione adottata nella primavera 2013, ovvero la rinuncia a un dibattito sugli equilibri finanziari nel timore di sollevare un polverone. C'erano gli elementi macro-economici per farlo e avremmo trovato al nostro fianco altri Paesi, come l'Italia. Oggi il contesto è cambiato. Sono convinto che se facciamo le riforme necessarie, se rispettiamo una traiettoria finanziaria che confermi il rapporto 3% deficit/Pil, allora si può lanciare un vero piano di investimenti, in Francia e in Europa. Sono favorevole a un New Deal. E sono anche l'unico candidato francese ad esprimere un discorso di verità e credibilità".

Molte critiche all'Europa si concentrano sulla concorrenza interna tra lavoratori, la minaccia sui diritti sociali, le differenze tra sistemi fiscali. Come risponde?
"In questo caso la pressione è ancora più potente perché non viene dai mercati ma dai popoli. È ciò su cui fa leva ad esempio Marine Le Pen. Dobbiamo mostrare una gran fermezza se non vogliamo che i cittadini scambino l'Europa per un meccanismo che stritola i diritti sociali. È anche la dimostrazione che troppa eterogeneità indebolisce l'Europa ".

Occorre tornare a un'Unione europea con meno Paesi, più simile a quella dei fondatori?
"Non ho alcuna remore nell'appoggiare un'Europa a più velocità, che tra l'altro esiste già. Sull'Unione a ventotto Paesi, e presto a ventisette, potremo continuare ad avanzare su temi come l'energia e il digitale. Sulla Difesa, invece, dobbiamo aprire una cooperazione ad hoc, prevista dai trattati, con Francia, Germania, Italia e Spagna, associando la Gran Bretagna. Nell'eurozona sono per una convergenza fiscale e sociale, con un bilancio, un esecutivo e un Parlamento. Propongo di lanciare una consultazione democratica su questa road map".

Come si svolgerà la consultazione?
"Saranno degli Stati generali organizzati in ognuno dei ventisette Paesi. C'è oggi un vero bisogno di partecipazione. Gli europeisti hanno avuto sinora troppa paura della democrazia. Non si può far avanzare l'Europa senza i popoli. Ma dobbiamo essere chiari. Se un Paese decide di non andare avanti, non deve poter bloccare gli altri. È un concetto che ho ripreso da Mario Monti".

Al livello europeo il suo movimento si potrebbe collocare nel gruppo dei liberali?
"Dico spesso che il mio obiettivo è libertà e protezione. Oggi vediamo che i partiti socialisti europei si stanno ricomponendo, con una parte della sinistra che si radicalizza e una parte che si avvicina ai liberali, davanti a una destra conservatrice che si dissolve o si radicalizza. Quel che accade in Francia assomiglia molto alle divisioni che attraversano in questo momento la destra e la sinistra italiana".

Non le dispiace essere definito populista?
"È una parola con diverse accezioni. Se significa parlare al popolo allora, sì, non ho problemi a essere chiamato così. Se invece viene usata per definire chi lusinga i popoli, ovvero chi è demagogo, non è il mio caso. Sull'Europa e su altri temi non dico alla gente ciò che vorrebbe sentirsi dire".

Quale ruolo può avere l'Italia nella "rifondazione" dell'Europa di cui parla?
"La coppia franco-tedesca è necessaria ma non sufficiente. Dobbiamo lavorare a stretto contatto con l'Italia per stabilizzare il cuore dell'Europa e dell'eurozona insieme a Germania, la Spagna, i Paesi del Benelux, e altri che vorranno unirsi".

L'Europa si è rivelata impotente nella crisi dei rifugiati. Cosa farebbe se fosse eletto capo dello Stato?
"La Cancelliera ha mostrato responsabilità e dignità nel rifiutare la confusione tra migranti e rifugiati. L'Italia aveva allertato con anticipo sui problemi nel Mediterraneo e sui limiti al sistema di Dublino. Purtroppo l'Europa ha reagito tardi. Abbiamo voluto redistribuire i rifugiati quando erano ormai già arrivati, poi abbiamo negoziato un accordo con la Turchia che ha chiuso la rotta dei Balcani aprendo invece quella dalla Libia. La soluzione che propongo è una gestione coordinata delle domande d'asilo nei paesi di partenza o di transito, con una migliore vigilanza alle frontiere esterne dell'Ue. È l'unico modo di essere efficaci, mantenendo la nostra umanità. Solo così ci potrà essere una redistribuzione tra gli Stati membri".

Abbiamo già visto che non funziona. Molti governi, tra cui quello ungherese, hanno rifiutato di prendere le loro "quote" di rifugiati.
"Ne ho abbastanza di un comportamento insidioso che autorizza il non rispetto dei nostri principi da parte di alcuni Stati membri. Nei trattati esistono delle sanzioni finanziarie previste in questi casi. Non si può minacciare una procedura d'infrazione solo quando si tratta di deficit o conti pubblici e non invece quando sono in gioco i nostri valori fondamentali ".

Un ballottaggio tra lei e Marine Le Pen sarebbe quasi un referendum tra un sì e un no all'Europa. Nel 2005, quando si votò per la Costituzione europea si sa come risposero i francesi. Non corre un rischio enorme schierandosi in modo così netto?
"Chi è solo timidamente europeista ha già perso. Amo furiosamente l'Europa ma ammetto che non funziona, che dobbiamo rifondarla. François Mitterrand l'aveva detto a suo tempo: il nazionalismo è la guerra. La mia regione, ad Amiens, è disseminata di cimiteri militari. È quel che propone Marine Le Pen: ricreare la conflittualità in Europa. Se davanti agli estremismi il partito della ragione si arrende e cede alla tirannia dell'impazienza, allora saremo tutti morti".

La sfida è totale, la scommessa: tornare indietro o correre il rischio di andare avanti.
Tra noi e il salto nel passato è rimasto solo questo ragazzo che ha capito che il tempo è adesso anche se non porta l'orologio, ma ha due iPhone che non guarda mai per oltre un'ora, due fedi di oro bianco una all'anulare sinistro l'altra su quello destro, due penne, un pennarello e una stilografica, che sorride, risponde con calma, ascolta le domande e guarda l'interlocutore negli occhi.

Sembra sicuro e tranquillissimo, come lo slogan della grande

pubblicità di una serie tv che occupa tutta la stazione della metropolitana dall'altra parte della strada: "Dalla fiducia nasce la forza". Lui sembra crederci fino in fondo. Un marziano.
Poi torni a guardargli le mani e ti accorgi che si mangia le unghie: è umano.

 

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19 febbraio 2017 7 19 /02 /febbraio /2017 18:12

Il leader dell’Anm: il codice penale è uno spaventapasseri, in cella vanno solo gli sciocchi. «Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge»

di Giuseppe Guastella

Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo (foto sopra), ha partecipato ad un forum al Corriere della Sera con il vice direttore Giampaolo Tucci e con i giornalisti Marco Ascione, Giovanni Bianconi, Luigi Ferrarella, Mario Gerevini, Giuseppe Guastella e Fiorenza Sarzanini. Argomento del dibattito, che si è svolto nella redazione di via Solferino a Milano, il pianeta giustizia a 25 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani pulite e in occasione dell’uscita del libro «Il sistema della corruzione» (Editori Laterza) scritto dall’ex pm del pool Mani pulite, ora presidente di sezione in Cassazione.
 

Un'intervista del Corriere che fa riflettere (ndr.)

A 25 anni da Mani pulite, in Italia è cambiato poco o nulla?
«È drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale».

Un Paese corrotto?
«A livelli diversi, finalità e modalità diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria».

Ci vuole una rivoluzione culturale?
«Bisogna cominciare dalla scuola».

Migliore l’Italia degli anni di Mani pulite?
«L’effetto domino non fu innescato da un sussulto di coscienza civile, ma dal fatto che erano finiti i soldi».

Lei sostiene che per la corruzione ci vorrebbe un doppio binario, come per la mafia.
«Bisognerebbe introdurre alcune delle norme che valgono per i mafiosi».

Ad esempio?
«Un sistema premiale forte e serio e le operazioni sotto copertura».

La corruzione spesso è alimentata da fondi neri esteri, sempre più difficili da aggredire.
«È un problema internazionale. L’assistenza giudiziaria internazionale è un relitto ottocentesco che richiede tempi talmente lunghi, incompatibili con la durata di un processo».

Corruzione «Simonia secolarizzata». Cioè?
«Nella Chiesa c’è il sacerdote che vende cose sacre, nello stato c’è il funzionario pubblico che vende le cose che per lui dovrebbero essere sacre, perché ha giurato fedeltà alla Repubblica».

l pool Mani pulite ha fatto errori?
«Secondo me, no. Ha fatto quello che poteva. Se non ci avessero cambiato le leggi a partita in corso, saremmo andati avanti. Molte leggi possono avere su il nome dell’imputato».

Forse fino a un’epoca determinata.
«Sì, poi è cambiata la maggioranza e da allora le fanno più sofisticate. Ad esempio, la legge Severino non contrasta la corruzione ma è stata gabellata per una legge che la contrasta».

Monti, il premier di allora, non era sospettabile di essere vicino ai corrotti.
«Quella legge l’ha fatta il Parlamento. Ricordo che il ministro della Giustizia rispose alle obiezioni: “Era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere”».

I vostri rappresentanti dissero che era una buona legge, come nel caso di quella sull’autoriciclaggio. C’è anche un problema vostro?
«Certo che c’è anche un problema della magistratura, ma cerchiamo di capirci, gioca anche molto il modo di fare leggi dovuto all’incompetenza della pubblica amministrazione che, purtroppo, non è più quella di cento fa, fatta di funzionari competenti e con il senso dello Stato. Quando ho incontrato la prima volta il ministro Orlando, gli ho fatto presente che la depenalizzazione che avevano fatto non serviva a niente perché toglieva solo le briciole ma alcuni reati depenalizzati avevano l’effetto non di ridurre il carico di lavoro, ma di aumentarlo. Mi rispose che l’Anm aveva dato parere favorevole, io gli dissi che non sarebbe accaduto più perché avevamo costituito delle commissioni interne».

Ha un giudizio molto negativo sui politici.
«Ce ne sono anche perbene, ma i meccanismi talvolta favoriscono il malaffare».

Cosa ne pensa di chi, come i 5 Stelle, ha introdotto codici interni legati alle inchieste?
«La politica non deve agganciarsi ad atti formali nel giudizio, ma a una valutazione autonoma dei fatti. Si può cacciare uno che è innocente o tenerlo se è colpevole. Sono due valutazione diverse, una è politica, l’altra di giustizia».

Non si introduce così un’inversione del principio di non colpevolezza?
«Non è così. Molte volte non c’è bisogno di aspettare la sentenza per far scattare la responsabilità politica, ma in questo Paese non avviene mai, neanche di fronte ai casi evidenti».

Prendiamo il caso di Roma e della sindaca Raggi, è un caso controverso.
«Premesso che non parlo dei procedimenti in corso, in qualche caso la politica può dire “aspetto di vedere come va finire” o “mi sono fatto un’idea”, ma non può dire sempre “aspettiamo le sentenze”. Significa caricare sulla decisione del giudice la selezione della classe politica».

I politici dovrebbero darsi codici di comportamento?
«Secondo me sì. Basta anche il buonsenso».

Non c’è il rischio di finire nel moralismo?
«Se mi mandano in udienza con un collega che si è saputo che ruba, io non vado perché chi ci vede pensa che siamo uguali. Io non rubo».

L’Anm accoglie pm e giudici. Non le sembra forte dire che il codice di procedura penale è fatto per farla fare franca ai farabutti?
«Il nostro giudice è vincolato da un sistema di inutilizzabilità sconfortante perché una prova acquisita, valida nei confronti di un imputato, diventa inutilizzabile per un altro se è stata acquisita a termini delle indagini preliminari scaduti. Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge. È inaccettabile. E allora è normale che uno venga arrestato e poi assolto. Se non volevano questo non dovevano scrive il codice così, oppure dovevano dirci di non arrestare più».

Riporta una frase del generale Dalla Chiesa che diceva: che c’è chi parla di manette facili e chi di ingiustizia che assolve. Ingiustizia?
«L’ingiustizia può essere nella legge oltre che negli uomini, se la legge è contraria al senso comune di giustizia, e molte delle norme che applichiamo lo sono. Ora la minaccia del carcere non è credibile perché il codice penale è uno spaventapasseri, da lontano fa paura, quando ci si avvicina appare innocuo. In galera ci va chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza e gli appartenenti alla criminalità organizzata. Gli altri in media ci vanno di meno».

Lei è un giudice, un suo imputato potrebbe avere difficoltà leggendo: «Ne prendiamo pochi e quando li prendiamo vengono condannati a pene esigue che non vengono fatte scontare».
«Nel nostro sistema il rispetto delle regole formali, che il più delle volte non hanno nessuna utilità, vanifica la ricostruzione storica dei fatti. A un certo punto ho lasciato la Procura per fare il giudice in appello, volevo capire come mai le sentenze venissero quasi sempre riformate. Ho visto che era vero quello che mi aveva insegnato un anziano magistrato che diceva che i giudici del tribunale sono come i padri, severi quando è necessario, quelli della Corte d’appello come i nonni, di regola rovinano i nipoti. Dato che su cento ricorsi in appello, 98 sono degli imputati condannati, si cominciano a vedere i problemi solo con una certa ottica e spesso è impossibile resistere alla tentazione di ridurre le pene. Bisognerebbe cambiare anche l’appello».

Solo carcere? E l’esecuzione esterna?
«Dipende dai reati e dal tipo degli imputati».

E stato mai tentato di forzare le regole?
«No. Le ho sempre rispettate, e anche quando ero convinto che l’imputato fosse colpevole l’ho assolto se la prova era inutilizzabile, pensando che era un mascalzone che l’aveva fatta franca».

Un sistema che protegge l’impunità?
«In un sistema ben ordinato, un innocente non deve essere assolto, non deve neppure andare a giudizio perché per lui il processo è una tragedia. I filtri dovrebbero essere all’inizio».

Qual è la priorità?
«La depenalizzazione. Il problema della giustizia è il numero dei processi. O abbiamo il coraggio di dire che va drasticamente ridotto o non se ne uscirà mai. Nel penale basta intervenire con una massiccia depenalizzazione e introdurre meccanismi di deterrenza delle impugnazioni, quelli che ci sono, sono risibili».

La politica invece va su una strada diversa e introduce nuovi reati come l’omicidio stradale.
«Cose prive di senso. Per l’omicidio stradale la pena è talmente alta che tra un po’ a qualcuno converrà dire che voleva ammazzare per rispondere di omicidio volontario».

Che ne dice dei suoi colleghi dell’Anm dell’Emilia Romagna dopo il comunicato sulla decisione del Tribunale del riesame?
«Non lo conosco, non posso sapere tutto».

È stata trovata la decisione di un collegio prima dell’udienza. L’Anm locale ha detto che poi altri giudici hanno confermato la decisione dei primi che si erano astenuti...
«Bisogna distinguere l’ipocrisia dal malcostume. Un giudice diligente non potendo ricordare a memoria decine di processi al giorno, si appunta lo studio che fa. L’ho sempre fatto, ma non firmo gli appunti e non li metto nel fascicolo».

E allora, a cosa serve la discussione?
«Si può cambiare la decisione».

Lei lo fa?
«Quando un avvocato dice cose che non avevo notato, raro, o che mi convincono, cambio opinione perché solo gli imbecilli non lo fanno».

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17 febbraio 2017 5 17 /02 /febbraio /2017 21:45

Lo scrittore commenta la decisione del governo di annettere le colonie nei Territori palestinesi: “È contro ogni legge: ci saranno conseguenze pesanti”

FRANCESCA CAFERRI – La Repubblica

David Grossman La decisione del primo ministro Netanyahu e del suo governo è un cambiamento drammatico, un'escalation che porterà conseguenze difficili da immaginare ora: un Paese non può avere colonie in un'area che non gli appartiene. È contro la nostra legge, contro la legge internazionale. Tutti quelli che sono stati parte di questa decisione prima o poi ne pagheranno conseguenze pesanti". All'indomani del voto della Knesset sull'annessione delle colonie israeliane a Gerusalemme e in Cisgiordania, la voce di David Grossman, uno dei più grandi scrittori contemporanei ma anche una delle più lucide coscienze critiche di Israele, suona triste: come quella di chi, nel futuro, non vede molti segni di speranza per il proprio, amatissimo, Paese.

Signor Grossman, qual è il senso di questa decisione?
"Questo è solo uno dei segni della direzione che ha preso questo governo, che è quella che va verso l'annessione dei Territori: vogliono farne parte dello Stato di Israele, ma una parte che non avrà gli stessi diritti dei cittadini israeliani. Il voto della Knesset è un altro passo verso la trasformazione di Israele da Stato democratico a Stato di apartheid ".

Eppure non mi sembra che ci sia stata una forte opposizione. Sbaglio?
"Non sbaglia affatto. L'opposizione politica interna è molto debole. Allo stesso tempo il mondo sembra essersi stancato dell'infinito conflitto fra Israele e i palestinesi: capisco la stanchezza, ma è pericoloso lasciare Israele e i palestinesi da soli perché la situazione può sfociare in violenza in tempi rapidissimi. Io non credo alla teoria secondo cui l'Isis o Al Qaeda sono nate a causa del conflitto israelo-palestinese, ma so per certo che risolvere in modo equo questo conflitto farà diminuire l'incendio che infiamma altre crisi. Per questo l'Europa, gli Stati Uniti e i Paesi arabi dovrebbero interessarsi di quello che sta accadendo. Ma oggi tutti aspettano di sapere cosa farà Donald Trump, perché il mondo è diventato il palcoscenico di uno show con un unico protagonista, lui".

Lei cosa si aspetta da Trump? Cosa crede che porterà la sua era per Israele?
"Il secondo nome di Trump è 'imprevedibile'. Credo che neanche lui sappia come reagirà: è chiaro che ha un'empatia verso Netanyahu e verso la destra israeliana e che disprezza i musulmani. Ha promesso di spostare l'ambasciata a Gerusalemme, una scelta che potrebbe provocare reazioni violente nel mondo arabo e fra i palestinesi. Eppure coltivo una flebile, e un po' folle, speranza: presto Trump potrebbe cominciare a chiedersi se è davvero conveniente per gli Stati Uniti investire tanti soldi in questo fallimentare processo di pace, visto che Israele non fa che compiere passi che peggiorano la situazione. Potrebbe proporre a Putin di lanciare insieme un piano per il conflitto che né Israele né i palestinesi potrebbero rifiutare, senza andare incontro a durissime conseguenze. Ma capisco che questa speranza poggi su flebili basi".

Vorrei chiudere con una domanda personale: guardando Israele oggi, sembra che la voce degli intellettuali sia quasi l'unica a contrapporsi a Netanyahu. È così? E se la risposta è positiva: non ci si sente soli?
"Io, come molti dei miei colleghi, cerco di essere il più connesso possibile al mondo che mi circonda. Per questo capisco che oggi lo spazio per la speranza è molto ridotto. Ho compreso il senso della sua domanda: so bene che opinioni come la mia sono marginali e spesso anche disprezzate in Israele. Ma questo avviene perché negli ultimi anni, sotto il regime di Netanyahu, un dibattito che dovrebbe essere logico e razionale si è trasformato in qualcosa di emotivo. L'idea stessa di come essere cittadini di questo Stato è cambiata: si è passati dall'idea di appartenere a uno Stato democratico, basato sulla legge, a quella di appartenere a uno Stato basato sulla religione. Quello che conta oggi è se sei ebreo o no: nel primo caso hai diritti e privilegi, altrimenti quasi non sei benvenuto. È molto pericoloso: è una situazione in cui l'irrazionalità vince e ci spinge in un angolo in cui ci sentiamo soli e abbandonati dal resto del mondo".

Il che ci riporta alla solitudine...
"Israele non è solo: gode di molto supporto nel mondo, e anche di molta simpatia. È il nostro primo ministro che incoraggia la crescita di un sentimento di isolamento. Così facendo spinge il Paese in un angolo pericoloso. Ci porta a perpetuare questa situazione di guerra: se la guerra è il tuo destino, fai di tutto per essere un guerriero migliore. Ma così facendo perdi ogni traccia di speranza. Nonostante tutto questo, e per rispondere alla sua domanda, le dico che sento ancora intorno l'appoggio verso chi ha opinioni simili alla mia. Se ci fosse un leader che non manipolasse le nostre ansie, che non usasse i fantasmi di traumi passati per farci paura, credo che molti israeliani lo ascolterebbero. Perché tanti di noi, nel profondo del cuore, sanno bene che abbiamo preso una strada pericolosa. La tragedia è che un leader così non c'è. Così la nostra società diventa sempre più apatica: e questo è grave, perché una società apatica diventa facilmente plasmabile da chi ha un'agenda nazionalista e violenta. Il rischio è che in Israele queste persone si impossessino del nostro futuro".


 

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16 febbraio 2017 4 16 /02 /febbraio /2017 17:24

NADIA URBINATI –La Repubblica

L’ATTIVISMO della presidenza Trump non dà tregua ai cittadini che lo criticano, agli opinionisti che lo analizzano e, ora in maniera esplicita, a uno dei poteri dello Stato: i giudici che impugnano le direttive bonapartiste della Casa Bianca contro la libertà di ingresso nel Paese di una specifica categoria di persone, identificate ex ante e senza alcuna evidenza come potenzialmente terroriste. È dal 2001 che gli Stati Uniti non subiscono attentati organizzati da gruppi terroristici stranieri, eppure Trump adotta politiche da stato permanente di emergenza che fanno quasi impallidire quelle del suo predecessore repubblicano George W. Bush.

In seguito al provvedimento noto come “ Muslim Ban” che chiude le frontiere alle persone provenienti da sette Paesi musulmani, sono stati sospesi migliaia di visti per gli Stati Uniti, creando caos per le compagnie aeree e le dogane. Pochi giorni fa il giudice federale di Seattle, James Robart, ha bloccato il decreto di Trump, e il Dipartimento di Stato ha annunciato l’annullamento della revoca provvisoria dei visti. Davvero un punto di svolta il conflitto tra potere centrale e giudici degli Stati, poiché dai tempi di Ronald Reagan i repubblicani parteggiavano per le politiche decentrate degli Stati contro il governo centrale — Trump rovescia questa tradizione.

E dagli Stati parte la lotta contro il suo decisionismo. Il ricorso della Casa Bianca contro la decisione del giudice Robart non ha sortito effetto: la Corte di Appello del Nono Circuito ha deciso di non dar corso alla richiesta di Trump in attesa di ricevere la documentazione per la decisione finale. Per ora quindi il potere giudiziario ha prevalso sul potere del presidente e la previsione è che se ne occuperà infine la Corte Suprema. La reazione di Trump alla resistenza istituzionale ha provocato un terremoto: ha offeso i giudici che lo ostacolano chiamandoli «sedicenti giudici»; ha infranto la regola aurea del rispetto delle istituzioni. Lottare nell’arena politica senza trascinare nella lotta le istituzioni: questo è il patto costituzionale che tiene insieme gli Stati Uniti e che ha fatto scuola nel mondo politico moderno.

La cronaca di questi giorni è un vero e proprio libro di testo nel quale le categorie politiche prendono corpo: Trump sfida la “democrazia madisoniana” nel nome della “democrazia populista”. Molti analisti scrivono senza remore che questo presidente plebiscitario fa riemergere lo “spirito tirannico” per neutralizzare il quale la Costituzione degli Stati Uniti è stata concepita nel 1787. Dall’altra parte, l’argomento populista è che il leader eletto debba mettere in atto le sue promesse che sono la volontà del popolo; questa è la ragione per la quale il potere populista non ama coalizioni né alleanze, che sono un freno, e vince più facilmente nei sistemi presidenziali che in quelli parlamentari; e questa è anche la ragione per la quale la volontà populista è insofferente verso la divisione dei poteri. Ciò a cui assistiamo è l’inasprirsi del conflitto tra i poteri dello Stato in risposta al conflitto aperto tra due principi che, dal tempo della fondazione degli Stati Uniti, coesistono: la presidential leadership e la institutional leadership.

In questa battaglia si materializza la lotta classica tra il principio costituzionale o anti-tirannico e il principio dell’Uomo forte al governo. Dunque, da un lato, la “democrazia madisoniana” idealizzata da chi considera illiberale ogni tentativo di semplificare e concentrare il potere, non importa se quadagnato con il consenso elettorale; dall’altro la presidential leadership, idealizzata da chi considera anti-democratico il controllo istituzionale della volontà popolare impersonata dal presidente.

Con la fine dei regimi totalitari, il plebiscitarismo è apparso a molti un relitto del passato. Sull’onda del successo di opinione di Obama, alcuni studiosi come Eric A. Posner e Adrian Vermeule hanno provato a riabilitare la democrazia plebiscitaria sostenendo che «l’occhio del pubblico» riesce a limitare il potere politico meglio (e più democraticamente) del meccanismo istituzionale.

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3 gennaio 2017 2 03 /01 /gennaio /2017 09:58

Una spiegazione di cosa é successo negli USA (ndr.)

"Il suddito ideale del regno totalitario", scriveva Hannah Arendt, "non è il nazista convinto né il comunista convinto, ma l'uomo per cui la distinzione tra fatti e finzione, e la distinzione tra vero e falso, non esistono più". È un'eccellente definizione del candidato Donald Trump, che il 9 novembre 2016 è diventato il 45° presidente degli Stati Uniti. Mai un uomo politico aveva cancellato a tal punto la frontiera tra vero e falso, tra realtà e finzione. Per Donald Trump, che ha fatto campagna per 16 mesi moltiplicando le bugie, le dicerie e le calunnie, è la capacità di produrre adesione, di sedurre, di ingannare che conferisce validità alla parola pubblica. È l'auditel che decide tra il vero e il falso, tra ciò che è reale e ciò che è fittizio. "Ha mentito in modo strategico", ha dichiarato Tony Schwartz, il ghost writer di Trump. "Non gli procurava nessuno scrupolo di coscienza". A molte persone "la verità va stretta", e l'indifferenza di Trump alla verità "curiosamente ha rappresentato un vantaggio per lui". Per quanto i media si sforzassero di opporre la verifica dei fatti alle sue menzogne, la Realpolitik alle sue fantasticherie isolazioniste, la morale alle sue molteplici scivolate sessiste e razziste, la Trumposfera agiva come un buco nero che assorbe le critiche e i richiami all'ordine. I mezzi di informazione possono trattarlo da fascista, da neofascista, possono compararlo allo stesso Hitler, "la gente se ne frega", replica lui arrogante. Che è l'atteggiamento tipico dei fascisti. E rilancia ancora di più la provocazione con una nuova osservazione razzista contro i musulmani, gli ispanici, le donne e gli omosessuali, infiammando di nuovo i media scandalizzati...

"In Donald Trump", scriveva Roger Cohen sul New York Times, "c'è un candidato realmente fuori dagli schemi: è uno che mente in continuazione, che insulta, che usa un linguaggio che finora non si era mai visto. Se voi dite, 'C'è qualcuno che vuole essere presidente degli Stati Uniti e mente di continuo', e milioni di persone dicono, 'Okay, sì, forse è una cosa che non si deve fare, ma voterò comunque per lui', penso che ci sia un'analisi molto approfondita da fare".

Certo, possiamo dare la colpa alla credulità degli elettori o alla complicità dei canali all-news - Fox News, Msbnc e Cnn - che grazie a Trump hanno ottenuto dei record di ascolto e degli introiti pubblicitari stimati in diversi miliardi di dollari. Ma come spezzare la spirale che lega le provocazioni di Trump ai record di ascolto delle televisioni, e questi record al consenso elettorale? Le spiegazioni non mancano. Negli Stati Uniti è stato addirittura coniato un neologismo per designare questa nuova era di menzogna politica, la "politica del post-verità". L'incontro dei movimenti populisti e dei social network avrebbe creato un nuovo contesto e un nuovo regime di verità caratterizzato dall'apparizione di bolle informative indipendenti le une dalle altre, torri di informazione immuni ai checks and balances tradizionali che facevano da arbitri nello spazio pubblico. Gli individui ormai possono scegliere la loro fonte di informazione in funzione delle proprie opinioni e dei propri pregiudizi, in una sorta di inviolabilità ideologica che è anche una forma di autismo informativo. Questo può spiegare una forma di frammentazione delle opinioni pubbliche, ma non il continuo rilancio verbale, l'isterizzazione del dibattito pubblico che abbiamo constatato nel corso di questa campagna.

In un articolo del New York Times pubblicato qualche giorno prima delle elezioni presidenziali del 2004, Ron Suskind, dal 1993 al 2000 editorialista del Wall Street Journal e dopo il 2000 autore di diverse inchieste sulla comunicazione della Casa Bianca, rivelò il tenore di una conversazione che aveva avuto nell'estate del 2002 con un consigliere di George W. Bush.

Questi, scontento di un articolo che Suskind aveva appena pubblicato sulla rivista Esquire a proposito dell'ex direttrice della comunicazione di Bush, Karen Hughes, lo aggredì inaspettatamente: "Mi disse che le persone come me facevano parte 'di quella che chiamiamo la comunità della realtà [reality-based community]: voi credete che le soluzioni emergano dalla vostra giudiziosa analisi della realtà osservabile'. Io assentii e mormorai qualcosa sui principi dell'illuminismo e l'empirismo. Lui mi interruppe: 'Non è più così che funziona realmente il mondo. Noi siamo un impero adesso e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate questa realità, giudiziosamente come piace a voi, noi agiamo di nuovo e creiamo altre realtà nuove, che potete studiare a sua volta, ed è così che vanno le cose. Noi siamo gli attori della storia. [...] E a voi, a tutti voi, non resta altro che studiare quello che noi facciamo'".

Queste frasi, pronunciate da un responsabile politico americano di alto livello (forse Karl Rove) pochi mesi prima della guerra in Iraq, non sono soltanto ciniche, degne di un Machiavelli mediologo, ma sembrano provenire da un palcoscenico teatrale più che da un ufficio della Casa Bianca. Perché non pongono soltanto un problema politico o diplomatico, ma ostentano una nuova concezione dei rapporti tra la politica e la realtà: i dirigenti della prima potenza mondiale si allontanano non soltanto dalla Realpolitik ma anche dal semplice realismo, per diventare creatori della loro realtà, padroni delle apparenze, rivendicando quella che potremmo definire una Realpolitik della finzione.

L'articolo di Suskind fece sensazione. Gli editorialisti e i blogger si impadronirono dell'espressione reality-based community, che si diffuse sul web.

"Nel corso degli ultimi tre anni", spiegava Jay Rosen, professore di giornalismo all'Università di New York, "anzi dall'inizio dell'avventura in Iraq, gli americani hanno assistito a clamorosi insuccessi dei servizi di intelligence, tracolli spettacolari nella stampa, un fallimento eclatante dei dispositivi pubblici di controllo delle azioni del Governo, come la scomparsa della vigilanza del Congresso e il cortocircuito del Consiglio nazionale di sicurezza, che erano stati istituiti proprio per evitare questi eventi. Parlando di 'sconfitta dell'empirismo', Suskind ha messo il dito sull'essenza di questo processo, che consiste nel limitare la deliberazione, il controllo, la ricerca dei fatti, l'inchiesta sul campo".

Ron Suskind osservava che queste pratiche costituivano una rottura con una "lunga e venerabile tradizione" della stampa indipendente e del giornalismo di inchiesta. Denunciava una campagna "potente e diversificata, coordinata a livello nazionale", che mirava a screditare la stampa. A un giornalista che gli domandava se ritenesse che questi attacchi mirassero a eliminare il giornalismo di inchiesta, Suskind, rispondeva: "Assolutamente sì! È proprio questo l'obbiettivo, la scomparsa della comunità dei giornalisti onesti in America, che siano repubblicani o democratici, o membri dei grandi giornali. [...] Così non ci rimarrà più nient'altro che una cultura e un dibattito pubblico fondati sull'affermazione invece che sulla verità, sulle opinioni invece che sui fatti".

Roosevelt fu il primo presidente a utilizzare la radio per comunicare con gli americani. Kennedy inaugurò l'era della televisione. Quando Roosevelt faceva un discorso alla radio, "la gente aveva il tempo necessario per riflettere, poteva combinare l'emozione e i fatti", spiega il neuroscienziato António Damásio. "Oggi, con internet e la televisione via cavo che diffondono informazioni 24 ore su 24, sei immerso in un contesto in cui non hai più il tempo di riflettere. Gli elettori sono guidati da sentimenti puri di simpatia o di avversione, di armonia o di disagio che gli ispirano i candidati che conoscono attraverso la loro narrazione". In società ipermediatizzate, percorse da flussi di informazioni continui, la capacità di strutturare una visione politica non con argomenti razionali ma raccontando delle storie, è diventata la chiave della conquista e dell'esercizio del potere. Non è più la pertinenza che dà alla parola pubblica la sua efficacia, ma la plausibilità, la capacità di mobilitare in suo favore grandi correnti di pubblico e di adesione...

L'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è il punto culminante di questa evoluzione. Con lui, è l'universo dei reality che entra alla Casa Bianca. Più che di costruire la realtà si tratta di produrre un reality show permanente, un universo sfaldato dove la libertà di espressione deve costantemente dare prova di sé attraverso la trasgressione. Il reality show trumpista è un telecarnevale in cui va in scena senza posa il capovolgimento dell'alto e del basso, del nobile e del triviale, del raffinato e del volgare, il rifiuto delle norme e delle gerarchie costituite, la rabbia contro le élite. Trump è una figura del trash del lusso che trionfa sotto i segni del volgare, dello scatologico e della derisione. Il vincente sotto le fattezze del perdente. "Ho messo il rossetto a un maiale", secondo le parole del suo ghost-writer Tony Schwartz. Ai bianchi declassati, che hanno rappresentato il cuore del suo elettorato, propone una rivincita simbolica, la restaurazione di una superiorità bianca scossa dall'avanzata delle minoranze in una società sempre più multiculturale, specchio dei media e degli intellettuali. È contro questo specchio che Trump ha incanalato la rabbia verso le élite, gettando discredito sugli uni e ridando credito agli altri al prezzo di menzogne di ogni genere. E l'ha fatto usando le ricette dei reality televisivi, che soddisfano questo bisogno di rappresentazione, ben noto clinicamente, che si nutre dell'impotenza del vivere. È questo bisogno di rappresentazione che Donald Trump è riuscito a captare e trasformare in capitale politico. "Io assecondo le fantasie della gente. [...] La gente vuole credere che una certa cosa sia la più grande, la più eccezionale, la più spettacolare. Io la chiamo iperbole reale. È una forma innocente di esagerazione e una forma efficacissima di promozione". Dalla sua autobiografia Trump: l’arte di fare affari

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29 dicembre 2016 4 29 /12 /dicembre /2016 21:21

Per saperne di più: www.partitodemocratico.it   www.italianieuropei.it 

Voto per categoria professionale

Pensionato           55                                     45

Studente                   42                                        58

Libero professionista     38                                          62

Impiegato, tecnico

insegnante, funzionario 38                                           62

operaio                                   34                                         66      

 casalinghe                                 32                                          68

disoccupato                                        28                                           72

Lav. autonomo imprenditore                       24                                              76

Da questa tabella si vede chiaramente come hanno votato gli imprenditori, in base  perfettamente  agli orientamenti politici ed interessi di categoria senza  distinzione ideologiche (ndr.)

 

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25 novembre 2016 5 25 /11 /novembre /2016 16:33

LA TUNISIA ha un governo di unità nazionale, sostenuto anche dal consenso delle forze sociali, sindacato e imprenditori in primo luogo, che impegnano loro esponenti nell'esecutivo. Il premier è Youssef Chahed, esponente della generazione dei quarantenni. Un segnale importante, in una realtà in cui i grandi vecchi della politica mantengono un controllo ferreo nella gestione degli affari pubblici; così come lo è la composizione di genere e anagrafica dell'esecutivo, al quale partecipano otto ministri donne e quattordici giovani. Chahed è, comunque, il settimo premier in cinque anni, a dimostrazione della difficile transizione seguita alla "rivoluzione dei gelsomini".

La formula parlamentare è quella dell'unità nazionale. E non poteva essere che così. Non solo perché la Tunisia deve fare fronte a seri problemi, economici e di sicurezza, che esigono una coesione nazionale forte; ma anche perché il partito Nidaa Tounes, dai cui ranghi esce Chahed, è stato indebolito da una scissione che ha messo in difficoltà le forze liberali vittoriose alle elezioni dopo le dimissioni del governo guidato da Ennahda, il partito islamista neotradizionalista che aveva trionfato alle urne dopo la caduta di Ben Alì. Una scissione che ha reso, comunque, Ennahda il partito di maggioranza relativa in Parlamento.

Il sostegno di Ennahda al governo è stato favorito dalla stessa svolta politica del partito islamista al congresso di Hammamet di primavera. Nella circostanza, e nonostante la perplessità di un'ala conservatrice, il partito ha spinto in avanti la revisione ideologica promossa da Rashid Ghannushi, il leader fondatore secondo il quale era giunto il tempo di passare dall'islam politico alla democrazia islamica. Svolta che comporta la separazione tra da'wa, predicazione religiosa, e attività politica. Separazione che mette fine non solo a una precisa concezione della relazione tra politica e religione ma alla principale ragion d'essere di un gruppo di matrice Fratellanza Musulmana, che della da'wa ha fatto il suo elemento costitutivo. A dimostrazione che l'islam politico neotradizionalista, una volta inserito stabilmente nel gioco istituzionale, è contaminato da un effetto secolarizzante. A Hammamet Ennahda ha, così, ribadito il riferimento ideale ai valori religiosi ma si è impegnato ad agire all'interno di una cornice costituzionale che riconosce l'islam come religione ufficiale ma si pone agli antipodi rispetto all'idea di uno stato islamico.

In tal modo Ennhada pare aver portato a compimento la lunga strada che l'ha condotto dalla difficile, e fallita, prova del governo, alla transizione politica concordata che ha messo fine a quell'esperienza, all'accettazione del principio dell'alternanza e del carattere plurale della società tunisina. E a rinunciare, pur dopo un aspro dibattito interno, a far inserire in Costituzione il riferimento alla sharia come principale fonte della legge. Mutamento, poi, sintetizzato dalla sua autodefinzione di "partito democratico" e civile, ovvero non religioso.

Ciò non significa che le resistenze dei conservatori di Ennahda siano state vinte del tutto, come dimostra la stessa elezione a leader del Consiglio della Shura, il parlamentino del partito, di Abdelkarim Harouni. Il partito raccoglie pur sempre militanti ed elettori di orientamento islamista ma, comunque, Ennahda si è impegnato, anche nella trattativa che ha condotto alla nascita del governo Chahed, a sostenere la difficile transizione tunisina senza riserve.

Una transizione che l'Europa, e l'Italia in particolare, ha tutto l'interesse a sostenere, dal momento che la Tunisia è fondamentale nel contrasto allo jihadismo — non bisogna dimenticare che i tunisini sono, proporzionalmente alla popolazione, i combattenti più numerosi nelle fila dell'Is e che la sconfitta di Sirte li spinge ora a tornare in patria o a insediarsi nelle terre di nessuno ai confini con la Libia — e nella stabilizzazione della regione nordafricana. Un compito che, per riuscire, ha bisogno della piena collaborazione tra governi della riva sud del Mediterraneo e l'Unione Europea.

La formula dell'unità nazionale favorita dalla svolta del partito islamista

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23 novembre 2016 3 23 /11 /novembre /2016 21:03

 

L’uomo che per principio “non patteggia mai”, alla fine ha patteggiato. Perché l’alternativa sarebbe stata un’azione processuale lunga e potenzialmente distruttiva per l’immagine del magnate. Gli studenti che hanno aperto due diverse class dicono di essersi sentiti truffati dai corsi

di Roberto Festa | 19 novembre 2016

Più informazioni su: Donald TrumpNew YorkPatteggiamentoUniversità

Aveva promesso di combattere fino alla fine. Del resto, il suo soprannome è Donald “Never Settle” Trump, colui che non patteggia mai. In realtà, il presidente-eletto ha alla fine deciso di accordarsi con chi l’ha portato in tribunale per i corsi della TrumpUniversity e pagare 25 milioni di dollari agli oltre seimila studenti che si sono sentiti truffati. L’alternativa sarebbe stata un’azione processuale lunga e potenzialmente distruttiva per l’immagine del presidente-eletto.

Donald Trump ci ha combattuto a ogni passo del processo – ha detto l’attorney general newyorkese Eric Schneiderman – presentando accuse senza fondamento e appelli infruttuosi e rifiutandosi di patteggiare persino per una cifra modesta con le vittime della sua università fasulla. Oggi cambia tutto. Oggi l’accordo di 25 milioni di dollari è un incredibile schiaffo per Donald Trump e un’importante vittoria per le oltre seimila vittime della sua università fraudolenta”. Trump, ha detto l’attorney general, dovrà anche pagare fino a un milione di dollari allo Stato di New York per avere violato le leggi che regolano gli standard delle istituzioni di insegnamento superiore.

Si conclude così una vicenda che da anni perseguita l’uomo d’affari, ora presidente. Trump, in base all’accordo, non dovrà ammettere alcuna colpa, ma l’accordo stesso è la prova di come la causa stesse trasformandosi in un serio imbarazzo. Gli studenti che hanno aperto due diverse class action in California (a New York la causa era condotta proprio dall’attorney general), dicono di essersi sentiti truffati dai corsi che promettevano di trasmettere i “segreti” degli investimenti immobiliari di Trump, attraverso degli insegnanti da lui “personalmente selezionati”. Lo schema, come risulta dai documenti esibiti durante il processo e dalle testimonianze ascoltate, funzionava sostanzialmente così. Trump University, che ha funzionato dal 2004 al 2010, offriva seminari gratuiti sulle tecniche di investimento immobiliare. Gli studenti erano però poi invitati a comprare altri corsi dell’università, per un costo che poteva arrivare ai 35 mila dollari per il programma “Golden Elite”.

Un venditore dei corsi, chiamato a testimoniare, ha definito l’intera operazione “una cosa di facciata, una menzogna totale”. Un altro manager dell’istituzione ha parlato di “uno schema fraudolento”. In realtà, lo stesso Trump ha in seguito ammesso di aver avuto scarsa conoscenza di quanto avveniva e “di non avere personalmente scelto gli insegnanti”. Trump ha però sempre rivendicato la qualità dell’istruzione offerta, arrivando a lanciare un sito, www.98percentapproval.com, per raccontare la “verità” sulla Trump University e mostrare il gradimento degli studenti. In realtà, sembra che su molti di questi siano state esercitate forti pressioni per dare giudizi positivi. Va ricordato che la TrumpUniversity, un’istituzione for-profit fondata dal magnate insieme ad altri uomini d’affari, non era accreditata come college o università e non conferiva voti o titoli di studio riconosciuti. Chiuse nel 2010, travolta dai troppi scandali e denunce.

Nel mezzo della campagna per le primarie, lo scorso febbraio, Trump aveva rivendicato la scelta di non arrivare a un patteggiamento “per ragioni di principio”. L’allora candidato aveva anche definito il giudice Gonzalo Curiel, che presideva sul caso, “un odiatore, una totale disgrazia… pieno di pregiudizi”. Trumpaveva attribuito la presunta persecuzione di cui era oggetto al fatto che “il giudice Curiel è, noi crediamo, messicano”. Era, quello, il momento più caldo delle polemiche sulla proposta di alzare un muro con il MessicoTrump sosteneva che attraverso il confine arrivavano “commercianti di droga, stupratori, delinquenti”. Il giudice Curiel è un cittadino statunitense nato in Indiana, con origini messicane. Senza scomporsi per le accuse, aveva portato avanti il processo, fino alla settimana scorsa, quando in un’udienza ha reiterato la richiesta di ascoltare la testimonianza di Trump, il 28 novembre, “anche attraverso un video, se il neo-presidente è troppo impegnato” (come sostenevano i suoi avvocati).

Alla fine deve aver prevalso l’idea che andare avanti col processo non sarebbe stato soltanto un problema di tempistica, ma anche di credibilità per il nuovo presidente. E quindi l’uomo che per principio “non patteggia mai”, alla fine ha patteggiato. In una dichiarazione, i suoi legali hanno affermato che “non ci sono dubbi che alla fine Trump University avrebbe prevalso nel merito di questo caso; la cui risoluzione permette comunque al presidente-eletto Trump di devolvere la sua attenzione alle importanti questioni che il nostro grande Paese si trova ad affrontare”.

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15 settembre 2016 4 15 /09 /settembre /2016 17:08

 

L'amaca di Michele Serra 14 settembre2016 - La Repubblica

Stavo per scrivere un’amaca contro l’intervento arrogante dell’ambasciatore USA quando ho letto, tutte in fila,  le reazioni della politica italiana. Si va da Di Maio, che paragona Renzi a Pinochet (uno che ha atto torturare e uccidere migliaia di persone), a Salvini che dice che a votare si saranno solo massoni, banchieri e poteri forti (quali? Ce li dicano una   buona volta, co nomi e cognomi) e invoca Trump, al fascista Gasparri che inneggia a Putin (viva il KGB)a Brunetta che esige l’intervento del quirinale. L’unica reazione che riesce a essere polemica rimanendo nei termini della logica è quella di Bersani.

Il mio problema è questo, e mi sento in dovere di riportarlo ai lettori con la massima sincerità: dopo una vita a tifare per l’opposizione  e a diffidare dei governanti, il livello della presente opposizione  italiana mi fa pericolosamente incline a sorvolare sulle colpe del governo (che sono tante).Piuttosto di essere governato da uno come di Maio, che non sa niente ma se la tira come sapesse tutto, sopporto, anche se non la supporto, Maria Elena Boschi. Bisognerebbe – lo so –tendere sempre al meglio e non al meno peggio. Ma ho ancora l’età per rifiutare con tutte le mie forze il peggio (Salvini, Gasparri); e non ho l’età, scusate tanto che il meglio abbia le forme ridicole del “web che governa”, e in attesa di farlo confonde  (Di Maio) il Cile con il Venezuela.  Studiate un po’.

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