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20 novembre 2013 3 20 /11 /novembre /2013 15:49

Mi scuserà la Sig.ra Barbara Spinelli, Lei è figlia di Altiero Spinelli, uno dei padri dell'Europa. A Bruxelles il parlamento europeo gli ha dedicato addirittura un edificio. Ha succhiato latte buono fin da piccola. E' stata compagna di Padoa Schioppa. Attualmente scrive molto su La Repubblica sulle questioni europee(ndr).

di Barbara Spinelli (Repubblica) 06/11/2013

SONO d’accordo con l’auspicio espresso domenica da Eugenio Scalfari: che l’Europa federale nasca, e la moneta unica si salvi. In caso contrario avremo, al posto dell’Unione, tanti staterelli senza lode ma non senza infamia, non amici ma più che mai vassalli della potenza Usa. Torneremo alla casella di partenza: vinti dai nostri nazionalismi come nelle guerre mondiali del ’900.

Sono meno d’accordo con il giudizio severo sui movimenti di protesta che ovunque nascono contro l’Europa come oggi è fatta, e ho un’opinione assai meno perentoria su 5 Stelle. Chi ascolti Grillo con cura sarà certo colpito dalle sue incongruenze; specie quando indulge alla xenofobia, procacciatrice di voti. Ma non s’imbatterà nel nazionalismo, né in vero antieuropeismo. Populismo è un’ingiuriosa parola acchiappatutto che non spiega nulla. Come spesso nella nostra storia, è sotterfugio autoassolutorio di chiuse oligarchie: lo spiega Marco D’Eramo in uno dei migliori saggi usciti in Europa sul populismo come spauracchio ( Micromega 4-13). Serve a confondere l’effetto (la rabbia dei popoli, il suo uso) con la causa (l’Europa malfatta, malmessa). Letta fa la stessa confusione, nell’intervista alla Stampa di venerdì.

Qualche giorno fa Grillo ha detto sulla crisi dell’Unione cose sensate, che nessun nazionalista direbbe: un’Europa che si dotasse di strumenti finanziari (tra cui gli eurobond), e che mettesse in comune i debiti, potrebbe far molto per superare le difficoltà e salvare se stessa. Purtroppo c’è nel M5S chi propugna l’uscita dell’Italia dall’Euro, fantasticando di rimettere sul trono i re nazionali. Questo significa che Grillo esita a compiere scelte forti, quasi fosse già stanco all’idea di divenire un leader che educhi, unifichi. Non significa che i 5 Stelle siano assimilabili a Marine Le Pen, o ai neo-nazisti in Grecia e Ungheria. Anche se il protezionismo mentale li tenta, è difficile immaginare che un movimento nato dalla congiunzione di iniziative cittadine del tutto estranee al nazionalismo sfoci in destra estrema.

La questione di fondo è dunque un’altra. Non il nome interessa sapere, ma perché in Europa cresca un’umanità così infelice, disgustata. Chiamarla populista o reazionaria è fermarsi alle soglie del perché. La domanda sulle radici del grido è elusa. E la risposta è inservibile, se proteste e proposte tra loro tanto dissimili vengono espulse come grumo compatto che intasa chissà quale progresso.

Bollare un intrico di sdegni e rifiuti vuol dire ignorare che l’Europa di oggi distilla veleni cronici. Non basta dirla per farla, alla maniera performativa dei governi attuali. Vuol dire nascondere quel che pure è evidente: nazionalismo e conservazione sono vizi che affliggono i vertici stessi e le élite degli Stati dell’Unione. Anche qui vale la pena andare oltre le parole: se si esclude la Francia, Federazione non è più vocabolo tabù. Molti oggi l’invocano. Ma senza che al verbo seguano atti concreti: la messa in comune dei debiti, una crescita alimentata da eurobond e da risorse europee ben più consistenti di quelle odierne. E ancora: un Parlamento europeo con nuovi poteri, e una Costituzione comune che sia espressione dei cittadini. Un’Europa che sia per loro un rifugio in tempi di angoscia, e non il guscio che protegge un’endogamica oligarchia di potenti che si blindano a vicenda.

L’Europa così com’è non è minacciata dalla rabbia (di destra e sinistra) dei propri cittadini. È minacciata da governi restii a delegare sovranità nazionali non solo finte ma usurpate, visto che sovrani in democrazia sono i popoli. La crisi del 2007-2008 la tormenta smisuratamente a causa di tali storture. Un’austerità che accentua povertà e disuguaglianze, un Patto di stabilità ( Fiscal Compact) che nessun Parlamento ha potuto discutere: l’Europa che si vuol ripulire dai populismi è questa. È la miseria greca; sono gli occhi che spiano il debole, come nei Salmi. È la corruzione dei governi, che si ciba di disuguaglianze e di falsa stabilità.

Il caso delle sinistre radicali in Grecia è esemplare. Il Syriza, una coalizione di movimenti cittadini e gruppi di sinistra, fu bollato come antieuropeo e populista, nelle due elezioni del maggio-giugno 2012. Le cancellerie europee si mobilitarono, dipingendo Syriza come orco da abbattere. Berlino minacciò di chiudere i rubinetti degli aiuti. Ma né Syriza né Alexis Tsipras che lo guida sono antieuropei. Chiedono un’altra Europa, sì, e questo atterrisce l’establishment.

Il 20 settembre, presentando il proprio programma al Kreisky Forum di Vienna, Tsipras ha sorpreso chi l’aveva infangato. Ha detto che l’architettura dell’euro e i piani di salvataggio hanno sfasciato l’Unione, invece di bendarne le ferite. Ha ricordato la crisi del ’29, i dogmi neoliberisti con cui fu gestita. Proprio come accade oggi, «i governi negarono l’architettura aberrante dei loro disegni, insistendo sull’austerità e sul mero rilancio dell’export». Ne risultò miseria, «e l’ascesa del fascismo in Sud Europa, del nazismo in Europa centrale e del nord». È il motivo per cui l’Unione va fatta da capo. Riprendendo le idee dei sindacati tedeschi, Syriza propone un Piano Marshall per l’Europa, un’autentica unione bancaria, un debito pubblico gestito centralmente dalla Banca centrale europea, e un massiccio programma di investimenti pubblici lanciato dall’Unione.

Ma Tsipras dice qualcosa di più: c’è un nesso che va denunciato, tra la crisi europea e le corrotte democrazie di Atene e di tanti Paesi del Sud. «La nostra cleptocrazia ha stretto una solida alleanza con le élite europee », e il connubio si nutre di menzogne sulle colpe greche o italiane, sui salari troppo alti e lo Stato troppo soccorrevole. Le menzogne «servono a trasferire la colpa delle debolezze nazionali dalle spalle dei cleptocrati a quelle del popolo che lavora duramente».

È un’alleanza che non ha più opposizione da quando la sinistra classica ha adottato, negli anni ’90, i dogmi neoliberisti. Gran parte della popolazione è rimasta così senza rappresentanza: smarrita, dismessa, punita da manovre recessive che paiono esercitazioni militari. È questa parte (una maggioranza, se contiamo anche gli astensionisti) che protesta contro l’Europa: a volte sognando un irreale ritorno alle monete e alle sovranità nazionali; a volte chiedendo invece un’altra Europa, che non dimentichi il grido dei poveri come seppe fare tra il dopoguerra e la fine degli anni ’70. Questo dice Tsipras. Cose simili, anche se più caoticamente, dice Grillo.

Se nulla si muove l’Europa sarà non più riparo, ma luogo che ti espone, ti denuda. Tenuto in piedi da élite di consanguinei –che campano di favori personali fatti e ricevuti senza che dubbio li sfiori (è il caso Cancellieri); che annunciano una ripresa smentita dai fatti – l’edificio somiglia sempre più all’Ufficio delle Lettere morte custodito da Bartleby lo scrivano, nel racconto di Herman Melville.

È sfogliando e gettando al macero migliaia di lettere spedite e mai recapitate che Bartleby matura il suo impallidito rifiuto, che a un certo punto lo indurrà a rispondere « Preferirei di no », con cadaverica tranquillità, a qualsiasi ordine o domanda. Ecco, l’Europa è oggi quell’Ufficio che ha trasformato il suo impiegato in un infelice: «Lettere morte! (…) Talvolta dalle pieghe del foglio il pallido impiegato estrae un anello: e il dito cui era destinato forse già imputridisce nella tomba; una banconota inviata con la più tempestiva delle carità: e colui che ne avrebbe ricevuto giovamento ormai non mangia più, non soffre più la fame; un perdono per coloro che morirono nello scoraggiamento; una speranza per quelli che morirono senza sperare; buone notizie per quelli che morirono soffocati da non alleviate calamità. Messaggere di vita, queste lettere precipitano nella morte. O Bartleby! O umanità!».

La legge di Antigone e le colpe dell'Europa

di BARBARA SPINELLI

09 ottobre 2013

INUTILE parlare di Europa madrepatria della democrazia, e proclamare nella sua Carta dei diritti che siamo "consapevoli del suo patrimonio spirituale e morale", dei suoi "valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà", quando tutto in noi pare spento: tutti i miti che fanno la nostra civiltà, assieme ai tabù che la sorreggono. E tra i primi forse il mito di Antigone, senza il quale non saremmo chi siamo. Oppure la solenne legge del mare, che obbliga a salvare il naufrago, quasi non esistesse peggiore sciagura delle acque che si chiudono mute sull'uomo. Il mare è senza generosità, scrive Conrad: inalterabile, impersona l'"irresponsabile coscienza del potere".

Sono uniti, i due miti, dalla convinzione che fu già di Sofocle: la norma superiore cui Antigone ubbidisce – fissata da dèi arcaici, precedenti gli abitanti dell’Olimpo – il re di Tebe non può violarla, accampando la convenienza politica e le proprie transeunti idee di stabilità. È norma insopprimibile, e Creonte che antepone il diritto del sovrano, il nomos despòtes, paga un alto prezzo. Così la legge del mare.

Quando sfoggia vergogna, l’Europa suol cantilenare, come dopo Auschwitz, una sua frase inane ma contrita: «Mai più!» Inane perché contempla il passato, non il presente. Ma almeno è contrita. Oggi nemmeno questo: il «mai più» neanche è pronunciato, la violazione è attribuita a cieca fatalità e si esibisce impudica. Un ministro – si chiama Angelino Alfano, già ignorò il diritto d’asilo nell’affare kazako – sta sul bordo del mare e dice che i 232 morti sottratti alle acque di Lampedusa non saranno gli ultimi: «Non c’è ragione per
pensare e per sperare che sarà l’ultima volta».

Colpisce il divieto di pensare, più ancora di quello di sperare. Neanche pensare possiamo, che l’Europa sia qualcosa di diverso da un fortilizio militarizzato. Che stiamo lì per difendere non solo un muro di cinta, ma gli esseri umani che disarmati provano a valicarlo. Per il ministro, ben altra è la questione amletica: dobbiamo sapere «se l’Europa intenda difendere la frontiera tracciata dal trattato di Schengen. Uno Stato che non protegge la sua frontiera semplicemente non è. L’Europa deve scegliere se essere o non essere».
Quattro considerazioni, a questo punto.

Primo: l’Europa è sì davanti a un bivio esistenziale, ma non quello che con porte bronzee nega l’idea stessa del bivio. Deve decidere se vuol essere all’altezza delle norme che professa, e che da tempi immemorabili le prescrivono di accogliere i fuggitivi, i supplicanti, oltre che di tutelare i confini da assalti stranieri. Né l’emigrazione economica clandestina né la fuga da guerre o dittature (spesso sono la stessa cosa) sono equiparabili a attacchi esterni. Vengono equiparati invece, e per questo è lecito parlare di guerra nel Mediterraneo.

Il fuoriuscito stipato con i suoi nei barconi è trasformato in nemico. In homo sacer, come scrive Giorgio Agamben: vita nuda, soggetto non legale, bandito pur appartenendo agli Dèi: uccidibile. Entra in Europa e «vive in orbita», dice la lingua burocratica. La legge antichissima si spense, quando nel 2004 l’Unione creò Frontex (Agenzia che gestisce le frontiere esterne). Frontex coordina le misure di polizia, pattuglia coste, garantisce il rimpatrio dei clandestini. La protezione dei diritti umani è un obiettivo residuale, un ornamento.

Seconda considerazione: l’Europa ha sue responsabilità, ma l’Italia non ne ha di minori. Il reato di clandestinità, introdotto nel 2009 dal governo Berlusconi, definisce un crimine in sé l’esodo senza permessi anticipati. Di qui la parentela con la guerra: come se il clandestino fosse un combattente irregolare e specialmente insidioso, perché non combatte a viso scoperto, indossando l’uniforme, ma conduce una sorta di guerriglia che si confonde e confonde. Ecco la legge di Tebe che si sovrappone alla norma di Antigone. La sicurezza e la stabilità– quest’ultima è addirittura eretta da Enrico Letta a «valore assoluto » , nuovo non negoziabile articolo di fede – esigono sacrifici e morte. Il migrante, bollato, è un pericolo sociale. La Corte Costituzionale s’oppose (sentenza n. 78/2007), escludendo che lo stato d’irregolarità sia
sintomo presuntivo di pericolosità sociale; ma il reato appena ritoccato (scompare la pena detentiva) resta. Fin dal 2002 la legge Bossi-Fini preparò il terreno: ingiungendo il respingimento immediato del migrante (poco importa se restituito o no alle dittature cui scampava) e rendendo impraticabili le procedure di concessione di asilo.

Di qui il pervertirsi della norma instaurata prima ancora che Cristo nascesse – Soccorrere è un dovere, non soccorrere è un reato — iscritta nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati come nella Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione (art. 18). Non soccorrere è peccato di omissione, e più precisamente crimine di indifferenza. Che senso ha dire «mai più», se non vediamo che il delitto di clandestinità per forza incentiva l’omissione di soccorso. Chi aiuta il naufrago incorrerà in processi e pene per favoreggiamento del reato, e preferirà voltare lo sguardo altrove. È già successo. Nei paesi occupati dai nazisti, in Polonia ad esempio, chi tendeva la mano all’ebreo rischiava la morte.

Terza considerazione: parole come vergogna andrebbero abolite, nel lessico della politica. Nascono dall’emozione, dalla scossa introspettiva, non necessariamente osano l’aperto, l’agorà dove si disfano e si correggono le leggi positive. Dette dal Santo Padre hanno un senso, ma in politica conta l’azione, non l’emozionarsi e il compatire. Lo Stato sociale e la politica di asilo sono nati per sostituirsi alla carità, che è grandiosa e non si vanta e non si gonfia, ma è affidata al singolo o alla Chiesa.

Infine la quarta considerazione: le guerre da cui evadono i “migranti” il più delle volte ci vedono protagonisti. Le abbiamo attizzate noi, pretendendo di portare ordine e creando invece caos e Stati disfatti: in Africa orientale, Afghanistan, Iraq, Somalia e Eritrea, Siria. I confini siriani che scatenano conflitti, fu l’Europa coloniale a disegnarli. Gli esodi hanno a che vedere con noi.

Qualche tempo fa, in una trasmissione della radio tedesca (Südwestrundfunk, 26 giugno 2008, il titolo era: Guerra nel Mediterraneo),
venne intervistato un alto dirigente della Guardia di Finanza italiana, Saverio Manozzi, arruolato nell’agenzia Frontex. Difficile dimenticare quello che ammise. Più che salvare, i guardiani delle mura erano chiamati alla caccia, alle retate: «Ho avuto a che fare con ordini secondo cui il respingimento consisteva nel salire a bordo dei barconi o delle navi, e nel portar via i viveri e il carburante affinché i transfughi non potessero continuare il viaggio, e facessero marcia indietro».

Salvataggi e aiuti sono considerati un azzardo morale, perché fomentano sempre nuovi immigrati. Meglio dissuaderli con l’arma ultima: quasi 20.0000 affogati nel Mediterraneo, dal 1988. Si muore anche appesi ai fili spinati di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole sulle coste del Marocco. O nelle acque del fiume Evros, ai confini fra Turchia e Grecia. In Francia, respinti sono i Rom.

Di azzardo morale si parla molto in questi anni di crisi. È l’assillo dei moderni Creonte. Gli Stati indebitati dell’Unione non vanno troppo aiutati: la solidarietà (welfare compreso) incita i viziosi a rammollirsi, a peccare ancora e ancora. Se assicuri la casa dal fuoco, non baderai più ai fiammiferi che accendi: ti rilasserai. La logica della polizza assicurativa si fonda sul sospetto, non sulla promessa e il dover- essere di Antigone. Se cadi disteso per terra o nel fondo marino qualche colpa ce l’avrai. Come dice Kafka: stramazzando susciterai ribrezzo, paura, perché dal tuo corpo emanerà il «puzzo della verità ».

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