Scritto da VERA SCHIAVAZZI, la Repubblica
Quando una persona non desidera più sorridere, giocare, cantare, relazionarsi con le persone e non è più capace di scoprire ciò che la vita gli offre ogni giorno allora muore prima dentro e poi col corpo. Se si è disponibili allora la vita diventa generosa, ricca di sorprese e stupisce, ma se il mondo interiore fa sentire che la vita perde dignità e diventa faticosa, dolorosa, angosciante nella quotidianità allora una persona è libera di decidere cosa è meglio per lui. (ndr.)
L’ultimo anno di un anziano, troppo malato per voler restare in vita. E la scelta di sua figlia di aiutarlo. A percorrere la strada verso una fine volontaria
Un sentiero stretto, a tratti faticoso. Ma che consente a chi è determinato di cercare e trovare una morte dignitosa, anche se lontano da casa. Paul, musicista, tre figlie, ha raccontato sulle pagine di Le Monde l’eutanasia scelta dalla madre, ottantaquattrenne, in una “piccola casa blu” a Pfaffikon, vicino a Zurigo. Ma in quella stessa piccola casa blu sono morti anche alcuni italiani, come Roberto Gandolfi, 88 anni, un imprenditore e esponente del Partito liberale che non voleva aspettare di essere troppo malato per poter decidere liberamente. A raccontare la sua scelta, il suo ultimo anno di vita passato a pianificare meticolosamente la morte e le ultime ore è la figlia Donatella Turri Gandolfi, 68 anni, una vita che l’ha portata tra cinema e moda. Oggi Donatella è impegnata soprattutto a difendere animali abbandonati nella Sardegna dove suo padre si era trasferito da Roma. Il dolore è ancora forte, ma il ricordo è limpido, sereno.
Marzo 2009.
«Mia madre Aldina, 8 anni più vecchia di papà, si è spenta dopo un declino lungo e doloroso. Era stata colpita dal Parkinson e dall’Alzheimer, e un incidente circolatorio le aveva compromesso il cervello. Papà, che era del tutto laico, non aveva voglia di vivere senza di lei e cominciò a “sentire” la sua presenza nella grande casa di Roma dove avevano abitato sempre insieme. Come quel giorno in cui nel vaso accanto alla sua foto vennero messe per sbaglio dodici rose anziché undici. Mamma non voleva che i fiori fossero pari, mai, e misteriosamente una di quelle rose si seccò in poco tempo mentre le altre undici restavano bellissime. Papà ha chiuso la casa e si è trasferito in Svizzera, con in tasca l’iscrizione a Dignitas (una delle organizzazioni elvetiche che aiutano chi cerca la morte, ma che richiede un certo periodo di residenza nel paese, ndr)».
GIUGNO 2009
«Papà e io torniamo insieme in Val Badia, dove ha fatto per anni bellissime vacanze. Se fosse viva, la mamma avrebbe 95 anni e lui vuole vedere il prato dove sono state disperse le sue ceneri. Tutto è fiorito, lui è contento, mi spiega ancora una volta le ragioni della sua scelta: cammina col bastone, ha perso la vista da un occhio e fatica con l’altro, il pacemaker e il cuore fanno i capricci. “Non potrei sopportare di dover chiedere per favore un bicchiere d’acqua o di essere accompagnato in bagno”. Gli ripeto che io sarei sempre al suo fianco, e che comunque rispetterò la sua scelta».
SETTEMBRE 2009
«Papà vive sul lago, vicino a Lugano, e continua a incontrare i medici dell’organizzazione. Servono documenti, certificati, capisco che non è una cosa che si fa come una passeggiata. Ma lui non vacilla. Continua a viaggiare per quello che può, dipinge, conduce una vita normale. Ha messo tutto a posto, regalato tanti oggetti, non lascia nulla al caso. Certamente io sono più triste di lui».
ESTATE 2010
«Papà si trasferisce ad Ascona. Fa amicizia con la gente del posto, fotografa le cose più belle, si diverte a fare il turista. Cammina con fatica, ha lasciato giacche e cravatte per un abbigliamento più rilassato, è sempre elegante. Le sue pratiche mediche sono terminate, sento che il momento si avvicina».
15 SETTEMBRE 2010
«Ultimo volo estivo in partenza da Lugano per la Sardegna, papà non vuole perderlo. Viene a salutare la mia casa e l’isola che ha amato tanto, andiamo in un ristorante che ci piace, salutagli amici e a qualcuno fa una battuta, “arrivederci il più tardi possibile”. Ma pochissimi sanno, oltre a me».
10 OTTOBRE 2010
«Il momento è arrivato. Papà ha prenotato un albergo a Zurigo, mi chiede ancora una volta se me la sento di accompagnarlo, mi ripete che devo farlo solo se sono sicura e che lui non lo pretende, che mi vorrà sempre bene in ogni caso. Io piango, ma non posso lasciarlo solo, e mi preparo a raggiungerlo ».
16 OTTOBRE 2010
«Lo raggiungo a Zurigo, ceniamo con amici ed è lui a tenerci allegri. Poco prima ha congedato il fratello minore e il nipote, venuti da Napoli per dissuaderlo. Mi spiega che parte per morire con lo spirito che avrebbe in un viaggio verso un luogo sconosciuto. Non è credente e non sa se e che cosa troverà, “sono curiosissimo”, mi dice sorridendo».
17 OTTOBRE 2010
«Facciamo colazione in albergo: prendi questi dolci, sono i migliori — mi dice — e mangia, non fare quella faccia, dai… Io ho paura, temo che finiremo in una clinica squallida e triste. Invece il posto dove arriviamo è una villetta bifamiliare, assomiglia a una casa per le vacanze».
ORE 11
«L’équipe ci accoglie. Sono persone gentilissime, vestite come noi, senza camici, parlano un perfetto italiano, capisco che il più anziano dirige tutto, con lui ci sono un medico e un’altra volontaria. Ci offrono il caffè in una piccola cucina. Ci spiegano che ora daranno a papà un blando farmaco che serve per ciò che verrà dopo (è un antiemetico, ndr). Siamo seduti vicino su un divano, papà sa già che le sue ultime volontà dovranno essere documentate con un video, per evitare ogni complicazione legale all’associazione. Docilmente, ripete quello che deve davanti alla telecamera: “Ho deciso volontariamente e in piena consapevolezza di prendere il medicinale che verrà lasciato in un bicchiere accanto a me…”. Non siamo gli unici in casa, c’è un’altra famiglia, sento qualcuno che parla spagnolo. Passiamo mezz’ora da soli, mi dà gli ultimi consigli, come se fossi ancora la sua bambina, e probabilmente per lui è proprio così. L’équipe ci ha precisato che loro non hanno alcuna fretta. Rientrano, chiedono a papà se è pronto, lui si accerta che sia pronta anch’io, mettono accanto a lui un bicchiere e del cioccolato: il farmaco che deve bere (pentobarbital, un potente anestetico utilizzato anche a questo scopo, ndr) potrebbe essere molto amaro, ci avvisano. Lui scherza e butta giù tutto: “Gli amari che bevevo in montagna erano peggio”. Fa un grande sbadiglio e un sorriso, poi si assopisce, la testa un po’ di lato, nello stesso modo in cui dormiva sul divano di casa al terzo giro di Gran premio, nell’ilarità di mia madre».
ORE 11,30
«Sono uscita per camminare, non potevo resistere vicino a lui. Vedo il dottore affacciarsi e farmi un cenno, lo raggiungo, prendo i vestiti di papà, un maglione di cachemire che continuo a mettere, la coppola che portava, il suo bastone. Torno a casa, e pochi giorni dopo mi arrivano le ceneri».
NOVEMBRE 2010
«Di nuovo in Val Badia. Questa volta i miei amici del posto devono portarmi col gatto delle nevi su quel prato. Liberano uno spazio, e le ceneri di papà vanno a raggiungere quelle della mamma. Vorrei pagarli per il trasporto, ma non ce n’è bisogno: papà lo aveva già fatto l’anno scorso».
L’eutanasia nel mondo
Belgio: dal 16 maggio 2002 in vigore una legge che regolamenta l’eutanasia
Danimarca: le “direttive anticipate” hanno valore legale, i parenti del malato possono autorizzare l’interruzione delle cure
Germania: Il suicidio assistito non è reato, purchè il malato sia capace di intendere e volere e ne faccia richiesta.
Paesi Bassi: il primo paese al mondo a dotarsi nel 2000 di una legge che regolamenta l’eutanasia entrata in vigore nel 2002.
Svezia: l’eutanasia non è perseguita penalmente.
Svizzera: E’ previsto il suicidio assistito: praticato al di fuori delle istituzioni mediche statali da alcune associazioni.
Stati Uniti: La normativa varia a seconda degli stati. Le direttive anticipate hanno generalmente valore legale
Canada: Negli stati di Manitoba e Ontario le direttive anticipate hanno valore
"Pensai di aiutare mia nonna a farla finita
e di darle una fine dignitosa con l'eutanasia"
Lo scrittore, autore del romanzo 'A nome tuo' dal quale è stato tratto il film 'Miele' che affronta proprio questi temi, è a favore della libertà di decidere anche su come e quando terminare la propria esistenza e sostiene: "Basta medicine a oltranza, che il suicidio non sia più un tabù"
di CATERINA PASOLINI
Bata medicine ad oltranza
Mauro Covacich "Io sono per la libertà di scelta. Perché chi vuole possa continuare a curarsi a oltranza e chi invece subisce la malattia e si sente umiliato, offeso nella sua dignità, abbia il diritto di morire".
Mauro Covacich, scrittore triestino, è autore del romanzo A nome tuo (Einaudi) dal quale è stato tratto il filmMiele diretto da Valeria Golino. Un libro che segue la storia, gli incontri, i dubbi di una giovane che di mestiere fa proprio "l'angelo della dolce morte".
Lei è favorevole all'eutanasia?
"Adesso le dico che sono assolutamente favorevole, eppure capisco quelli che magari vivono dentro a un polmone di acciaio in condizioni che a me ora paiono avvilenti, inaccettabili davanti alle quali invece io proprio non ce la farei ad andare avanti. Ognuno ha il suo limite nella malattia, oltre il quale ritiene di non volere e potere più andare avanti e che magari si sposta e cambia col tempo. Vorrei solo che fosse rispettato nei suoi desideri, espressi lucidamente. Che si riuscisse a svincolare la fine della vita dalle medicalizzazioni a oltranza, che fosse risparmiato, a chi non la vuole, un percorso spesso sadicamente inutile"
Le è capitato di volere la morte?
"Non la mia, ma mia nonna, che è morta a 103 anni, ha vissuto gli ultimi tre come un pacco, spostata a peso dal letto alla sedia. Lei non avrebbe desiderato giorni così e io ho anche pensato molte volte che avrei voluto aiutarla a morire. Da quei giorni è nato il libro, da una profonda spinta affettiva, dai pensieri che mi attraversavano la testa in quelle ore, dai dubbi, da alcune certezze".
Quali certezze?
"La libertà di scelta in caso di malattia incurabile, mentre francamente non so se io darei il farmaco a chi mi dice di essere semplicemente stufo di vivere, anche se il termine ha decine di sfumature, di declinazioni".
Il suicidio è un tabù?
"Nella nostra società lo è sicuramente, non lo era. Lo è diventato dopo l'avvento del cristianesimo che ci ha trasmesso il senso di colpa mentre prima, in epoca greca e romana, il suicidio aveva un suo senso, un suo valore, un significato, era una possibilità onorevole".
Come Seneca?
"Sì, come gli stoici. Il concetto è che quando uno non si sente più in sintonia con il corso delle cose, con l'universo, sceglie di andarsene, di farla finita. Non è ribellarsi, né diminuire la sacralità della vita, non è una scelta blasfema, anzi ha una sua parte di religiosità".
Ma la vita è sempre bella anche quando si sta male
PARLA come un fiume in piena Alessandro Bergonzoni, attore, commediografo, testimonial della Casa dei risvegli di Bologna che ospita persone in coma. Ogni parola apre parentesi all' insegna della profondità e complessità, del vivere. Perché lui di schieramenti non ne vuol proprio sentir parlare, soprattutto in tema di "buona morte". «Io non sono favorevole all' eutanasia per me, ma riconosco il bisogno che vada regolamentata e soprattutto non obbligherei mai nessuno a vivere. La questione però è ben più complessa, non si tratta di dividere il mondo in buoni e cattivi, tra chi vuol vivere e chi sceglie di morire». Qual è il vero problema? «Che prima di parlare di buona morte, questo significa eutanasia, dovremmo approfondire cosa ognuno di noi intende per buona vita e dignità, e poi guardare, capire l' altro. Insomma prima di parlare della fine, forse dovremmo ragionare di vita e morte quando stiamo ancora bene». Parlare di vita e di morte? «Sì, ognuno di noi dovrebbe guardarsi dentro, indagare su cosa abbiamo paura di perdere nella malattia. Analizzare cosa la malattia può cambiare e forse persino portare di nuovo e bello nella nostra esistenza». La malattia ha qualcosa di bello? «Ci sono troppi automatismi: io non parlo, non cammino e non faccio l' amore quindi la mia vita non vale la pena di essere vissuta. Certo, io forse non ce la farei a vivere così, non mangiando da solo, non sentendo, ma ho incontrato chi viveva intensamente quello che altri ritengono insopportabile». Morire è un diritto o vivere un dovere? «Io non obbligo nessuno a vivere, vivere non è un dovere. Quello che io penso è che prima delle decisioni ci sia bisogno di una ricerca interiore e sociale, vorrei che ognuno andasse a vedere ed ascoltare l' altro malato. E non per convincerli a cambiare idea, ma perché si perdono qualcosa». Cosa ci si perde? «La bellezza della ricerca, dell' osservazione di qualcosa di ignoto, della diversità, persino della perdita di controllo, di sicurezza. La perdita che ci fa pensare da malato sarà inguardabile, inavvicinabile, perché dietro a questi concetti c' è la cultura del corpo. Ecco, prima di pensare all' eutanasia devo vedere, sentire altre storie. Come quel mio amico che cercava di farmi capire la bellezza di essere sollevati di peso, abbracciati perché immobili». Troppi malati lasciati senza assistenza vogliono morire... «Basta trattarli come poveretti che si devono arrangiare, lo Stato dovrebbero assisterli tutti come se fossero Hawking».